Piazza Tienanmen: l’uomo del carro armato e la rivoluzione silenziosa

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Sono passati più di trent’anni dalla proteste degli studenti cinesi a piazza Tienanmen. Questo non è bastato a evitare che tra Cina e Stati Uniti d’America scoccassero scintille. Il governo cinese ha giudicato carichi “di pregiudizio e di arroganza” i commenti alla ricorrenza del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo (“Pechino faccia chiarezza su questo capitolo oscuro della storia”).

Iniziate il 15 aprile, l’esito della rivolta degli studenti cinesi rimase a lungo incerto, anche a causa dell’incapacità di buona parte della popolazione cinese di comprendere le motivazioni che avevano spinto giovani e studenti a protestare. Il 4 giugno, il governo di Pechino decise di porre fine alla rivolta usando i carri armati. A fermarli mettendosi sulla loro strada fu un ragazzo, uno solo: si piazzò davanti ad un carro armato con in mano i sacchetti della spesa e rimase lì, fermo, deciso, come se la sua forza di volontà fosse sufficiente ad arrestare la marcia dei mezzi blindati che la notte precedente avevano attaccato migliaia di rivoltosi dopo che il presidente Li Peng aveva dichiarato la legge marziale e ordinato lo sgombero della piazza.

Fu un momento storico: i giovani cinesi, per la maggior parte studenti, chiedevano libertà, diritti civili, elezioni democratiche (o almeno simili). Tutti concetti sconosciuti al regime più vicino ad una dittatura che alle idee di “cosa comune” che sono alla base del comunismo. Ma anche alle loro famiglie, alle persone più anziane. Fu proprio  questo il vero motivo del fallimento della rivolta: i padri di quei ragazzi, le loro madri, le loro famiglie non avevano compresero i motivi della protesta dei giovani. Troppo fresco era in loro il cambiamento (positivo) avvenuto in Cina dopo rivoluzione comunista.

Sono passato più di trent’anni e in Cina si parla di nuovo di rivolte. Ma a Hong Kong. Molte le analogie. E altrettante le differenze. I giovani che oggi lottano per le strade di Hong Kong hanno già assaggiato concetti come “consumismo”, “libertà”, “apertura delle frontiere”, internazionalizzazione sociale. Loro non vogliono cambiare la loro vita, ma evitare che cambi per tornare alla Cina prima di Hong Kong. Nè sono disposti ad aspettare che anche il resto della Cina cambi e di modernizzi (il cammino è già avviato ma la strada è ancora molto lunga).

I ragazzi che protestavano a Pechino erano pochi e male organizzati: combattevano a volto scoperto e chiedevano pochi diritti “democratici”. La loro rivolta durò poco. Ad Hong Kong, invece, da anni va avanti una vera e propria guerriglia urbana con combattenti armati e ben organizzati (tanto da riuscire a far chiudere l’aeroporto per una settimana e, nel 2014, a bloccare alcune delle strade principali per oltre due mesi). Il volto dei giovani rivoltosi di Hong Kong è coperto: non nascondono la propria identità e la decisione di colpire duro, scagliando mattoni e facendo esplodere bombe lanciandole verso la polizia.

In Cina continua a persistere un regime quasi totalitario camuffato da comunismo. Uno stato dove molte delle libertà sancite dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani continuano ad essere sconosciute (se non palesemente violate).

La decisione del governo di Pechino di non inviare (finora) l’esercito ad Hong Kong non deve trarre in inganno: la repressione è altrettanto dura. É stata  solo adattata alla differente posizione internazionale della Cina, non più paese chiuso a guscio sulla propria economia interna, sulla ferrea convinzione di potercela fare da solo e di essere completamente autosufficiente. Oggi la Cina vive soprattutto di commercio internazionale, dei rapporti con i Brics e del nuovo potere che ha sugli scenari geopolitici internazionali. Una apertura e una modernizzazione che, però, si scontra con una chiusura ai cambiamenti e all’evoluzione della politica interna: il governo di Xi Jinping sta cancellando tutto ciò che era “comune” e “comunismo” per fare della Cina un paese gestito da pochi (soprattutto ricchi). Per questo la tradizionale fiaccolata in memoria delle vittime di piazza Tienanmen a Hong Kong Park è stata vietata facendo riferimento alla legge sulla “sicurezza nazionale”. E non è un caso se, proprio il 5 giugno, nel giorno in cui si ricordavano le proteste di piazza Tienanmen,  il Parlamento cinese ha deciso di discutere e approvare la legge che impone il rispetto dell’inno nazionale e punisce, con multe e con il carcere, chi dimostra “irriverenza” verso “La marcia dei volontari”. Anche le proteste all’interno del Parlamento sono state rapidamente messe a tacere: alcuni membri dell’opposizione, Chu Hoi-dick e Ray Chan, hanno spruzzato fertilizzante chimico in segno di protesta, “Quello che abbiamo fatto oggi serve per ricordare al mondo che non perdoneremo mai al Partito Comunista Cinese l’uccisione della sua gente, 31 anni fa” ha detto Chu. La loro protesta non è servita a molto e, in breve, tutto è ripreso in un’aura di finta normalità e di “democrazia”.

Una normalità dove concetti come libertà di stampa e di comunicazione sono ancora delle mere chimere: diversi i giornalisti occidentali espulsi (anche a Hong Kong dove, nel 2018, a Victor Mallet, corrispondente del Financial Times, è stato negato il rinnovo del visto e poi vietato il rientro con un visto turistico). E dove il governo centrale usa il proprio potere per fini a volte discutibili.

Come trent’anni fa, anche la nuova rivolta ad Hong Kong contro il governo centrale cinese non andrà lontano: chi protesta è spesso solo, senza l’appoggio della maggior parte della popolazione cinese (questa volta i limiti non riguardano l’età ma i confini geografici della rivolta) e gli appelli non hanno l’appoggio dei paesi occidentali ai quali, spesso, non dispiace che in Cina le cose rimangano così come sono. 

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