“La lentezza della luce” di Michele Dalai

Articolo di Mirko Cecchini

Il libro, sostanzialmente, parla di come “ci vuole talento anche nel non avere talento”. Dalai racconta le sue esperienze sportive con un velo di romanticismo e uno stile molto scorrevole, associando il tutto a vari momenti di narrativa sportiva realmente accaduti.

Dal rigore sbagliato di Baggio a Usa ’94 all’Aurora Desio di basket del 1989/1990 dove aveva perso tutte le partite della stagione e molti altri aneddoti ricchi anche di lacrime, come quello su Zola Budd. Un continuo oscillare di sorrisi e malinconia da parte del lettore. Inutile dire che, da persona sportiva o presunta tale quale sono, è finito automaticamente nella lista dei miei preferiti.

I motivi sono le simili situazioni sportive provate sulla mia pelle a renderlo intoccabile, tra i libri presenti sulla mia mensola. Rientro ancora in quella generazione di ragazzi che ha provato a fare tanti sport fin dall’infanzia, con quel poetico fallimento facilmente rintracciabile nelle pagine di questo mix tra scrittura autobiografica e narrativa sportiva.

E si vede fin dall’inizio, quando racconta la sua prima esperienza da bambino nel mondo del calcio da difensore proprio perché non ha talento. Un po’ come me, che avevo ricoperto lo stesso ruolo vestendo gli stessi colori di una società però lontana chilometri dalla sua.

Ricordo ancora di come la mia unica priorità era quella di mettere con cura e in ordine tutto l’occorrente nel borsone sportivo, pregio che (da toro ascendente bilancia quale sono) mi son ritrovato ripetere come un rituale scaramantico una volta intrapreso il percorso cestistico.

Se ripenso a quel periodo, da ragazzino delle elementari di quei ’90 così frizzanti, ricordo poche vittorie, ma le tante risate fatte in macchina tra di noi bambini o di come, in difesa durante gli allenamenti, giocavo con le ombre cinesi cercando di coinvolgere chi era nei paraggi. O di quel “bianco e verde” ritrovato di nuovo nel mio ultimo periodo da giocatore a livello agonistico provinciale, in quella che era una squadra di basket che collezionava sconfitte su sconfitte ma in spogliatoio e fuori eravamo complici e degenerati tanto quanto un John Belushi in Animal House. Era una nuova realtà, per me.

Le sconfitte in passato già c’erano ma occasionali, la mia esperienza precedente era in una società solida e che porterò sempre nel cuore non solo per i risultati ottenuti in provincia, ma per quel senso di gruppo e unità di squadra che era ed è ancora presente con affetto a distanza di 22 anni dal primo incontro.

Unità di squadra che, nel mio caso, mi è servito da lezione per trasmettere la stessa euforia in spogliatoio in quello che era il mio canto del cigno negli ultimi, disastrosi tre anni di attività.

Tutti abbiamo provato a cimentarsi nel mondo dello sport, c’è chi avuto fortuna (sono venuto a sua conoscenza dai social di un campione e gran lettore qual’è Gigi Datome, capitano della squadra azzurra di basket), e chi vive anche questi ricordi con una simpatica nostalgia. Il lettore (e ne sono la prova) rivive questi e altri momenti della sua vita in maniera indiretta e si ritroverà a voler offrire una birra all’autore proprio per quell’empatia che si percepisce fin da subito.

Un libro adatto per “quelli come noi”, che venivano scelti all’ultimo in squadra quando si giocava in paese e magicamente si riusciva a fare giocate inattese, come prendere una traversa con un tiro fatto a caso. “Mirko…ti ho preso per fare gol, mica per altro!” diceva sdrammatizzando quel mio amico in quella domenica pomeriggio dei primi del 2000. “Si”, gli avevo risposto con entusiasmo e ingenuità, “ma hai visto? IO ho preso la traversa… Mai successo in tutti questi anni!”.

Citando la quarta di copertina “Ci sono quelli che nascono per correre più veloci della luce e quelli che amano fermarsi a guardarla, la luce, mentre passa lenta e illumina la scena, accarezza le imperfezioni, guarisce da tutte le sconfitte e perdona ogni pasticcio, purché sia fatto con amore”.

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