La libertà nel delirio: le nuove cure del disagio mentale

Articolo di Frank Iodice

Dalla teoria sulla follia del dottor Fontaine alla realtà dei CIM; le nuove cure delle malattie mentali e la grande sfida delle clubhouse per la riabilitazione dei pazienti e per il loro reinserimento nella società. 

La teoria di Marcel Fontaine 

Nel 2006, presso la Facoltà di Scienze Umane dell’Università di Nizza, ho avuto la fortuna di assistere a una conferenza sulla follia tenuta dal dottor Marcel Fontaine, lo psichiatra che sarebbe diventato il protagonista dei miei primi romanzi. Fontaine era convinto di poter dividere le malattie mentali in due categorie, una sana e l’altra insana, una creativa e l’altra distruttiva, e per distinguerle usava il termine “folie” (“follia”) per la prima e “démence” (che ho tradotto col sinonimo “pazzia”) per la seconda. “Io non vado affermando da anni che la follia non esiste – diceva il medico – ma che ne esistono due, una sana e l’altra insana, una geniale e l’altra demenziale”. E continuava così: “Se la follia fosse una malattia, non dovrebbe avere come ogni malattia una definizione scientifica con un riferimento al batterio o al virus con cui viene trasmessa, una causa scatenante, un decorso, una cura, un numero di sintomi più o meno variabile? Il malato di morbillo, siamo sicuri che ha il morbillo perché è pieno di puntini rossi, e sappiamo che bisogna somministrargli paracetamolo per abbassare la febbre, sciroppi per la tosse, gocce per gli occhi, per una settimana. Quando parliamo di follia, parliamo di una causa di origine infettiva? Fino a poco tempo fa si credeva addirittura che la follia nascesse da una lesione organica, cerebrale! E si faceva a pezzi il cervello dei pazienti per scovare il male.  Qual è dunque la sua origine, il suo decorso, e quale la sua cura?” 

La Legge Basaglia 

Teorie di psicologia esistenziale riconoscono elementi funzionali e comunicativi nel disagio mentale, attingendo agli immensi studi della supposta interrelazione tra genio e follia. “Raramente è esistito uomo di grande ingegno che non sia stato classificato come folle. La gente usa questa parola senza pensare al suo significato appena si trova davanti qualcosa che non può o non sa capire – diceva ancora Marcel Fontaine in quella conferenza –. In passato, vittime di questo equivoco fondamentale, le persone giudicate insane di mente, diverse, pericolose talvolta per sé stesse o per gli altri, venivano rinchiuse per non ledere al buon gusto della società perbene”. 

Il secolo scorso è stato il secolo delle lobotomie, degli elettroshock e delle camicie di forza, sostituite poi con le terapie chimiche e gli psicofarmaci che hanno distrutto il cervello di migliaia di vittime, colpevoli soltanto di non essere state abbastanza forti da ribellarsi. 

Conosciamo tutti la storia dei manicomi, del perché sono nati e di come, per fortuna, sono stati deistituzionalizzati e infine smantellati. In gran parte si attribuisce il merito al lavoro di Franco Basaglia, ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste. Grazie a lui, nel 1978 è entrata in vigore la Legge 180, conosciuta anche come Legge Basaglia. Una storica riforma in campo psichiatrico, voluta fortemente da una nuova generazione di medici, i quali hanno marciato insieme ai malati fino a quando i loro diritti sono stati riconosciuti dal Sistema sanitario nazionale che è diventato modello per molti altri paesi. Lo scopo principale della Legge 180 era ed è tuttora: creare una comunità decentralizzata di servizi per il trattamento e la riabilitazione mentale dei pazienti. 

I manicomi, i ghetti della follia, i lager della sofferenza e della disumanizzazione, sono stati distrutti e oggi fanno da sfondo a mostre fotografiche terrificanti, come quella di Bruno Cattani, a Reggio Emilia, che ha ritratto i “luoghi della follia” per imprimere sulla cellulosa la sofferenza di cui sono tuttora impregnate le mura abbandonate dei manicomi.

Ma come è stata messa in pratica la legge sulla chiusura dei manicomi e come procede il lavoro dei cosiddetti Centri di Igiene Mentale? I CIM sono andati a sostituire la vecchia istituzione manicomiale con lo scopo non più di isolare i malati ma di riabilitarli, ridare loro un posto nella società che un tempo li ha esclusi.  Nel sito del Ministero della Salute si legge: “È opportuno sottolineare l’importanza dell’ampia rete dei servizi territoriali che è stata costruita nel nostro Paese, che si segnala, a livello internazionale, come modello da perseguire nello sviluppo di interventi di comunità”.

I Centri di Igiene Mentale 

I CIM prevedono servizi per l’assistenza e per la riabilitazione sociale, servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Proprio come si legge nelle premesse scritte dallo stesso Basaglia, la coordinazione è prevista nell’ambito territoriale, in termini di interventi di prevenzione, cura e riabilitazione.  Si eseguono visite domiciliali su prenotazione del medico di base e visite urgenti che passano attraverso la chiamata al 118. Ed esistono ancora i ricoveri coatti, contro la volontà del paziente, “trattamento sanitario obbligatorio” (TSO). In un altro sito, quello del Ministero della Giustizia, c’è scritto che “nessuno può essere sottoposto a visite mediche o a ricovero ospedaliero contro la sua volontà”. Ma due righe più in basso si legge: “a eccezione che l’infermo non voglia sottoporsi volontariamente a tali trattamenti”. Purtroppo io non sono abbastanza bravo a scrivere e leggere l’italiano per cui questa che a me sembra una contraddizione palese probabilmente è la maniera di esprimersi nel gergo settario e pleonastico della legge. 

Tornando ai CIM, scopriamo che nelle ASL delle varie città italiane la realtà è molto più complessa di come ci si auspicava con la loro apertura. Non sempre i ricoveri seguono le procedure previste e il personale risponde alla preparazione che ci aspetteremmo da professionisti del settore sanitario. In un interessante reportage dell’ANSA, a firma Martino Iannone, troviamo la testimonianza di Renzo De Stefani, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Provincia di Trento, il quale afferma che “il 73% dei Centri di Salute Mentale italiani è inefficace”. 

Le difficoltà sono soprattutto logistiche. Dopo aver chiuso i manicomi in Italia ci si è posti il problema di dove sistemare migliaia di ex pazienti che ormai non avevano più una famiglia né una casa in cui vivere. Molti avevano trascorso “dentro” gran parte della loro vita. Per coloro che hanno trovato alloggio presso familiari o centri d’accoglienza, sono previste cure domiciliali e assistenza di vario genere, sanitaria, sociale, legale. Ma per tutti gli altri? È per questo che molti sostengono che il manicomio come concetto non è morto, ma ha solo cambiato faccia. Ed è per questo che la missione si fa ancora più lunga e articolata. Non ci si può arrendere davanti all’incompetenza di pochi infermieri che non sanno come reagire a una chiamata d’emergenza o a una richiesta di colloquio e si limitano a scaricare la palla ad altri, alla polizia, all’ASL, agli ospedali. Per mezzo secolo le vittime della “cattiva” psichiatria sono state scaricate come palle da una parte all’altra. 

Anche gli operatori socio-sanitari (OSS) hanno un onere difficile che portano avanti in collaborazione sia con i CIM sia con le aziende sanitarie e le associazioni. Molti CIM infatti sono collegati con centri di riabilitazione, di reinserimento nel mondo lavorativo, e così via. Tuttavia, in molti altri, è vero, si batte la fiacca. E in alcuni addirittura si verificano casi di abuso degli OSS soprattutto nei confronti degli anziani. Gli anziani, in particolare quelli affetti da Alzheimer, sono spesso vittime di abusi, come si leggeva di recente sulle prime pagine di tutti i giornali, dopo l’ennesimo caso ripreso dalle telecamere. 

Qual è dunque la via migliore per mettere al centro l’interesse del malato? Ammesso che di malato si possa parlare, giacché sulla trattazione delle varie follie come malattie o come semplici disagi esistenziali ci sarebbe da aprire un capitolo a parte. 

Le Clubhouse

Una realtà molto interessante è rappresentata dalle cooperative sociali. Luoghi in cui i pazienti non sono semplici pazienti, ma individui che hanno avuto un passato turbato da avvenimenti traumatici, da depressioni o da quant’altro viene solitamente mescolato nel calderone che in maniera grossolana chiamiamo “pazzia”, e necessitano non di pillole, né di scosse che trapassino il cervello e li lascino incoscienti per una settimana, ma di dialogo, di affetto, di essere ascoltati, e di lavoro. Diceva Matisse: “il lavoro risolve ogni tipo di problema”. 

La differenza maggiore tra i centri di questo tipo e i Centri di Igiene Mentale è che in questi ultimi è prevista un’équipe costituita almeno da uno psichiatra, uno psicologo, un assistente sociale e un infermiere professionale. Mentre nei primi si tratta di volontari che arrivano da altri campi. A dei professionisti che talvolta fanno male il proprio lavoro non sono forse preferibili dei volontari che lo fanno con passione? 

Il Club Itaca è una “clubhouse” che in questi giorni compie 5 anni. Sempre nell’articolo di Iannone, ritroviamo la ricostruzione della storia del Club, della missione e dei risultati eccezionali ottenuti con l’impegno dei “soci”, come vengono definiti coloro che vi trascorrono un periodo di riabilitazione. Il Club Itaca è “un programma gratuito per l’autonomia socio-lavorativa di persone con una storia di disagio psichico”. Il modello è quello americano del metodo di reinserimento socio-lavorativo “Clubhouse International®”. I pazienti diventano “soci” e membri attivi nel loro reinserimento. Molti di loro hanno ripreso a lavorare e hanno ritrovato il loro posto nel sistema. 

La Fountaine House, nella 3° Strada di Manhattan, a New York, è la prima “clubhouse”, fondata nel 1948, dopo lo storico congresso “We Are Not Alone” (“Noi non siamo soli”), organizzato da un ex paziente, Michael Obolensky. Anche qui si ospitano donne e uomini con malattie mentali “offrendo loro l’opportunità di vivere, lavorare e imparare mentre a loro volta contribuiscono con il proprio talento a un mutuo supporto nella comunità”. L’obiettivo principale della Clubhouse di New York è vincere il problema che da sempre caratterizza la malattia mentale: l’isolamento sociale. Come una volta disse Franca Ongaro Basaglia: “Se, agli occhi di un profano, quelle donne e quegli uomini apparivano come animali che avevano perso ogni aspetto umano, era la malattia la responsabile di quell’abbrutimento o non piuttosto il modo con cui la si trattava? Se non consenti all’uomo una possibilità di vita, come pretendere che la sua umanità riesca a sopravvivere?”. Chi trova rifugio nelle “clubhouses” intraprende un percorso non più di terapia passiva o addirittura letale per la propria salute, ma una vera riabilitazione sociale, la riscoperta della personalità di cui si veniva privati quando si veniva sbattuti dietro le sbarre con vestiti di taglie sbagliate e dello stesso colore. 

Le uniformi dei manicomi erano tutte di quel grigio sporco – raccontava Vittorino Andreoli in un’intervista – perché venivano lavate ad alte temperature e scolorivano. Non importava di che colore fossero i tuoi vestiti prima di entrare in manicomio. Una volta dentro, eri uguale a tutti gli altri. Ed erano sempre troppo larghe o troppo strette, da un lato perché le cure invasive e le terapie farmacologiche devastavano il fisico dei pazienti facendo loro perdere o prendere chili e chili, e dall’altro perché per dei malati considerati di serie b non si investivano fondi sufficienti neanche per l’acqua e il sapone. 

I pionieri delle nuove cure psichiatriche come Basaglia, o come lo stesso Fontaine in Francia, hanno lottato a lungo per la nascita un giorno di un posto come il Club Itaca. E forse sapevano che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato, come si intuisce dalle profetiche parole di Franco Basaglia, il quale, nel 1979, un anno dopo l’approvazione della Legge 180 e un anno prima della sua morte, disse: “L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile, che si può assistere il folle in altra maniera. E questa testimonianza è fondamentale”. 

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