Il gusto dei ricordi di Iaia Caputo

Articolo di Luca Miele

Uno strano rapporto si intreccia tra le pagine di Iaia Caputo e Napoli (“Il gusto di una vita”, Enrico Damiani Editore). Un rapporto che si definisce per sottrazione. Da sempre città “sensoriale” – violenta la luce, violenti i colori, violente le voci, violenta la lingua, violenta la promiscuità dei corpi – Napoli è città che si impone. Città della dismisura, città lavica, disturbante, bella e orrenda allo stesso tempo, Napoli ingombra.

La letteratura napoletana è la testimonianza di questo versamento, di questa saturazione che fa degli scrittori napoletani i più arditi e, allo stesso tempo, i più provinciali della scena contemporanea. Eppure la scrittura presuppone distacco, è l’arte stessa del mettere a fuoco, del prendere distanza, fiato (dalla città, dal clamore, dalla memoria, dai vissuti). Iaia Caputo si sottrae. All’abbraccio di Napoli – che racconta attraverso il più potente dei sensi, quello del gusto –, la bambina che dice io ne Il gusto di una vita (la scrittrice stessa) reagisce sovranamente. Con l’indifferenza.

Il cibo? Non la smuove, non le interessa. I rituali che scandiscono la vita a Napoli, il gusto che tracima nelle sue vie e nei suoi piatti, che salmodia nelle cucine (ah il ragù!) non suscitano – nella futura scrittrice – alcun entusiasmo. Il demone della fame – che da sempre tiranneggia e infesta la città e i suoi abitanti, come accade a Rosa – non la sfiora. Eppure – avverte l’autrice – esiste un legame solido, una parentela tra scrittura e cucina.

Simile la sapienza nel dosare gli ingredienti, simile l’intreccio di talento e misura. Nel cibo – rapporto che ci definisce, che in qualche modo ci precede – si costituisce il legame, non solo con una madre e un padre, ma con la città, con una cultura. La bambina Iaia decide di rifiutare la “naturalità” del cibo, spinta dalla necessità di riscoprirlo – riappropriandosene – come cura, come custodia. Come costruzione – volontaria – di una identità. Non è un caso che il rapporto con il cibo inizi a cambiare quando l’io narrante recide il rapporto (ombelicale) con Napoli. Un lavoro faticoso, sempre mancante. La cifra esistenziale, nella scrittrice, è una sorta di scucitura, di abrasione, di non coincidenza. Di ferita.

“Solo, farei risalire a quei giorni, a quel passaggio esistenziale che mi ha tramutato da figlia unica a figlia maggiore, la prima, dolorosa sensazione di inappartenenza, alla mia famiglia, ai sentimenti nuovi che vi circolavano e da cui qualcosa di indecifrabile mi escludeva. Inappartenenza che presto sarebbe divenuta una condizione, più ancora, un luogo, un fazzoletto di terra d’esilio che non ho più abbandonato”.

È la maternità – quel luogo assieme oscuro e schiudente nel quale il corpo stesso si fa nutrimento, cibo – ad aprire un varco, ad offrire al cibo una nuova cittadinanza, un nuovo gusto appunto. Nella custodia di una nuova vita, l’io narrante de Il gusto di una vita impara l’arte artigianale delle combinazioni, la cifra della originalità, fino a scoprirsi una “brava cuoca”. E allora è matura anche la riconciliazione con Napoli, con “la grande civiltà del cibo come dono” che di Napoli è uno dei (tanti) segreti. La ricomposizione avviene nella e grazie alla lontananza. Avviene nella memoria.

Il gusto di una vita è un libro, denso e terso, sulla memoria. Da quando Proust si è commosso al gusto delle madeleine, si sa che la memoria è luogo di sedimentazione dei sapori e che i sapori posseggono una virtù “lisergica”: quella di “eccitare” i ricordi, come una pallina in un flipper. E dei sapori, la memoria assieme gioco, condanna e ri-crezione, custodisce gli stessi “ingredienti”: l’impalpabilità, la paradossalità, la forza, l’invenzione. I giochi di prestigio.

“Non ho motivo di credere alla mia memoria, bugiarda e fantasiosa come ogni altra, probabilmente la scena che sto per raccontare non si è ripetuta più di due, al massimo tre volte, ma poiché alla memoria la verità è indifferente, mentre si abbarbica come un polpo al senso di un’esperienza, non ho neppure ragione di smentirla”.

A noi che di Ulisse non abbiamo né la forza né l’ostinazione, a noi che i mari della lontananza non sappiamo più solcarli, non resta che il ricordo per tornare a casa.

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