Vita e letteratura al tempo degli hashtag

Articolo di Frank Iodice

Esistono due tipi di vite: una piena e una vuota. La vita letteraria è piena. Si coltiva lungo un sottile confine tra il reale e il verosimile, non è fatta di chiacchiere, è avventurosa, eretica, passionale. Ed è fatta anche di mali profondi e irrisolvibili, ridicoli, e di lunghe attese, di sacrificio e silenzio. Lo stesso silenzio che la vita vuota, quella nei social network, teme e cancella in tutti i modi. I social network sono progettati per cancellare la nostra memoria, spingendo in fondo i contenuti del passato e costringendoci a vivere nel presente, bombardandoci con la notizia del giorno, su cui tutti dobbiamo dire la nostra. Hanno cioè un ruolo opposto a quello della letteratura, che si pone il nobile principio di preservare la memoria. Forse è per questo che la vita letteraria non può essere “social”. Scrivere è un’attività solitaria, non sociale. E la vita piena è essa stessa letteratura, è salvezza, è acqua. Non si può spazzare via l’acqua che passa sotto una porta chiudendo la porta a chiave. 

Mi chiedo se nel titolo non ci sia un errore. Forse nella “e” manca un accento che avrebbe cambiato il destino di tanti lettori e di tanti scrittori. Un accento, un segnetto insignificante che dimentichiamo o usiamo a caso nel linguaggio quotidiano. E mi chiedo a chi o a cosa attribuire la colpa di questo graduale allontanamento del linguaggio quotidiano da quello letterario, che si muovono su due assi sempre più distanti. 

Prima dell’avvento di Internet, eravamo tutti più letterari. Prima non condividevamo, prima raccontavamo. Da secoli costruivamo la vita sui pilastri del racconto. Al sud ogni più piccolo avvenimento quotidiano diventava una storia e ogni volta che passava da una bocca all’altra si arricchiva di dettagli. La vita letteraria, a Napoli, iniziava prima delle lettere e andava oltre la morte. La allontanava. Abbiamo inventato persino il libro dei numeri, la Smorfia, la Cabala come la chiamava Totò, migliaia di numeri che rappresentano l’intero scibile umano. “Uno, l’Italia”, inizia così. Poi siamo diventati un popolo di narratori sordi: moriamo dalla voglia di raccontare noi stessi e nessuno è disposto ad ascoltare gli altri. 

Ecco il senso di quell’accento. Dare un verbo a una situazione stagnante da almeno un ventennio, da cui sembrerebbe che non esistano vie d’uscita se non attraverso un cinismo dilagante, che va in tutte le direzioni, come una stella. Ma la soluzione narrativa esiste, se siamo disposti ad accettarla, per salvarci dal nulla sconcertante che sta rendendo la realtà liquida, inconsistente. La soluzione è la parola. La parola scritta è materia salvifica, materia spirituale. Aggrappiamoci a lei prima di affogare. Restituiamole la sua dignità, la forma di cui l’abbiamo privata prostituendola, sputtanandola, comprandola e vendendola. 

Stamattina guardando i titoli in vetrina, in uno, al posto delle parole, ci ho trovato un cancelletto. Credevo di essermi sbagliato, ma era proprio il simbolo informatico che in italiano si chiama “cancelletto” e che per seguire il modello americano chiamiamo hashtag. Allora ho chiesto al mio libraio, (che io chiamo Marat): senti una cosa, Marat, ma secondo te è proprio necessario questo scempio? è evoluzione o devoluzione? ricostruzione o dematerializzazione del linguaggio? Il libraio Marat mi ha risposto: mon cher ami, quando le nostre tavole sacre saranno riesumate dalla sabbia e studiate dagli esperti, qualcuno di loro troverà certamente una risposta.
Foto: Woman Reading, dipinto di Robert James Gordon

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