Verga a Firenze, capitale letteraria e politica

Articolo di Merelinda Staita

Quando Giovanni Verga arrivò a Firenze, nel maggio 1865, la cultura italiana, e in particolare quella fiorentina, era impegnata a utilizzare e rilanciare le culture regionali per fonderle in una nuova cultura nazionale. C’era ovviamente un motivo politico per questo progetto, ma c’era anche un interesse culturale.

Firenze prese il posto di Torino come capitale d’Italia nel 1865, si presentava come una città molto prestigiosa e il suo ruolo di guida culturale della nazione risultava evidente a tutti i letterati del tempo. Per quanto riguarda i siciliani, Firenze non aveva dimenticato che Dante li aveva indicati come <<primi>> nell’uso letterario del volgare e poteva testimoniare che molti di essi l’avevano prescelta come sede dei loro studi e del loro interesse letterario.

La situazione politica era densa di dissensi, movimentata da molte emozioni e da tante aspettative nei confronti del giovane Stato italiano. L’ambiente letterario fiorentino era fortemente politicizzato e gli stessi editori erano consapevoli di aver dato il loro contributo ai fini risorgimentali.

Proliferava la nascita di molti giornali, che si impegnavano a recensire le opere degli intellettuali, molte delle quali diventavano portatrici di un nuovo messaggio letterario e umano.

La nascita dello Stato italiano aveva fatto della Toscana un centro di unione di tutte le idee e di tutte le necessità formative-intellettuali del secolo. Questo profondo cambiamento venne notato anche da De Roberto, che, trattando dei romanzi verghiani del periodo fiorentino, si rese conto che <<dopo la Convenzione del settembre 1864 Firenze era diventata la metropoli dell’Italia risorta, il cuore della giovane nazione, il centro d’attrazione di tutte le forze della penisola, il soggiorno più promettente per un giovane avido d’impressioni di vita e d’ispirazioni d’arte>>. (C. Musumarra, Verga e la sua eredità novecentesca).

Giunto a Firenze, Verga dopo essere stato introdotto nell’alta società da Francesco Dall’Ongaro, sentì il bisogno di inserirsi nella vita fiorentina, mondana e letteraria, osservando tutto ciò che accadeva intorno a lui, rilevando convergenze e divergenze nei confronti della sua città natale.

Tutte le opere del periodo fiorentino documentano la necessità dello scrittore a unire le nuove esperienze a quelle precedenti, per riuscire a capire cosa poteva unire la sua amata provincia alla nazione. Egli frequentava i teatri, leggeva i giornali, seguiva lo svolgimento della vita civile, politica e culturale, ma sottoponeva tutto ad un attento e scrupoloso giudizio. Considerava il suo soggiorno a Firenze come una vera missione, una sperimentazione per il suo arricchimento letterario, voleva solo osservare, confrontare e intuire cosa poteva offrirgli Firenze.

Per questo, scrivendo alla madre nel maggio del 1865, egli confermò l’importanza di questo viaggio, importantissimo per la sua formazione letteraria:

“Firenze è davvero il centro della vita politica e intellettuale d’Italia; qui si vive in un’altra atmosfera, di cui non potrebbe farsi alcuna idea chi non l’avesse provata, e per diventare qualcosa bisogna vivere a contatto di queste illustrazioni, vivere in mezzo a questo movimento incessante, farsi riconoscere, e conoscere, respirare l’aria insomma. Ti ripeto è indispensabile incominciare di qui la propria strada.”

A pochissimi anni dall’Unità d’Italia, era pressante nella coscienza degli intellettuali italiani la necessità di pervenire ad una lingua unica da consegnare al paese e il toscano, su proposta del Manzoni, sembrava rispondere meglio di altri idiomi italiani a questo compito. Tuttavia non mancavano le critiche. Francesco De Sanctis, per esempio, avversava l’idea di una lingua deprivata del carattere popolare e si poneva in polemica con il Manzoni, che invece credeva che una lingua nazionale dovesse essere priva di connotati regionali.

Graziadio Isaia Ascoli spiega le ragioni di questa polemica: esisteva, da parte degli intellettuali di numerose regioni italiane, un impegno ad arrivare ad una lingua colta di ambito regionale che, mantenendo i propri caratteri locali, ne valorizzasse il prestigio dell’identità storica.

Verga si trova dunque a respirare nei circoli letterari di Firenze tutti gli aspetti di questa “atmosfera culturale” e un così importante confronto avrà formato le sue scelte. Un passaggio stilistico importantissimo che ci serve a comprendere le motivazioni dell’uso del dialetto.

Il dialetto serviva a creare la dialettalità come parte integrante della sua narrazione, per stabilire un clima dove il racconto doveva far vivere e sviluppare le esperienze umane.

Osservando questo metodo narrativo, Verga faceva sì che il siciliano servisse alla narrazione di ambiente siciliano, mentre il fiorentino alla narrazione di ambiente toscano. Ma il discorso può anche essere esteso a tutta la poetica del romanzo verista, il quale crea una ricostruzione della realtà così come si presenta agli occhi dello scrittore, allargando la prospettiva nel tempo, nello spazio e soprattutto nell’ambiente.

Affermare che Verga è un grande narratore solo quando descrive i personaggi siciliani non è corretto poiché diventa grandioso anche nel descrivere la decadenza dei protagonisti fiorentini e lo fa riprendendo proprio il loro “dialetto”.

Non bisogna fermarsi dentro il classico stereotipo di Verga come scrittore siciliano, ma cercare sempre, ripetutamente e incessantemente l’hic et nunc dei suoi testi. Nulla è mai come sembra e tanti sono gli elementi che hanno reso Verga un grande scrittore.

Related Articles