Stefano Vanzina, detto Steno: la commedia erotica d’autore

Articolo di Gordiano Lupi

Stefano Vanzina – detto Steno – nasce a Roma nel 1915 e muore nel 1988. Figlio di Alberto Vanzina, giornalista del Corriere della Sera, e di Giulia Boggio, resta orfano del padre a soli tre anni, compie con difficoltà gli studi liceali, si laurea in legge, si iscrive al Centro Sperimentale Cinematografico e collabora con il giornale umoristico Marc’Aurelio, vera e propria fucina di autori per la commedia all’italiana. Firma i disegni e le vignette con il nome d’arte Steno, che manterrà per tutta la vita artistica, in omaggio ai romanzi d’appendice di Flavia Steno. In questo periodo scrive anche copioni radiofonici e sceneggiature teatrali. Dopo il 1939 – anno della laurea – si dedica alla scrittura di oltre trenta sceneggiature cinematografiche, attività che lo impegna sino al 1948, soprattutto per Mario Mattòli, con cui collabora anche come aiuto regista. Altre sceneggiatore le scrive per Giorgio Simonelli, Carlo Ludovico Bragaglia, Riccardo Freda e Carlo Borghesio; lavori interessanti come Imputato, alzatevi!, Lo vedi come sei?, La scuola dei timidi, I due orfanelli, Aquila nera, Come persi la guerra, L’eroe della strada, Fifa e arena, Come scopersi l’America… Ricordiamo alcune sue apparizioni come attore in Violette nei capelli e Soltanto un bacio.

   Steno debutta alla regia nel 1949 con Al diavolo la celebrità, diretto insieme a Mario Monicelli, collega sceneggiatore con cui lavora molto. La coppia Steno Monicelli pare affiatata e insieme realizzano diversi film con protagonista Totò. Steno è la commedia all’italiana, un regista che gira soltanto cinema comico, più o meno riuscito, passando dalla farsa alla pochade, fino alla commedia alta, ma sempre evitando il cattivo gusto e la battuta di grana grossa. La sua cifra stilistica si caratterizza per un umorismo lieve, immune da volgarità, ma anche da metafore e significati reconditi. Fa cinema popolare allo stato puro, costruisce pellicole adatte al vasto pubblico, senza contenuti politici e badando molto ai contenuti comico – spettacolari. In un film di Steno si ride molto, talvolta capita di pensare ma si tratta sempre di discorsi molto piani e senza significati intertestuali, opinioni del più classico uomo della strada. A Steno interessa il ritmo della commedia, la tensione narrativa, la comicità fatta di equivoci e battute indimenticabili, recitate da attori che faranno la storia del nostro cinema popolare. Molti suoi film sono successi strabilianti di pubblico, anche se la critica lo snobba, per rivalutarlo solo dopo la morte. Lavora per il cinema dei telefoni bianchi, ma restano memorabili molte pellicole interpretate da Totò dal 1952 al 1963 (Guardie e ladri, Totò a colori, Totò e le donne, Totò nella luna…) e Macario, ma anche le successive con Alberto Sordi (Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Mio figlio Nerone…), Aldo Fabrizi, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Renato Rascel e Lando Buzzanca. Steno dirige i maggiori comici italiani e contribuisce al loro lancio cinematografico, oltre agli attori citati parliamo di Walter Chiari, Tina Pica, Franca Valeri, Mariangela Melato, Johnny Dorelli, Monica Vitti e Renato Pozzetto. Tra i comici più popolari degli anni Settanta, dirige Bud Spencer nella famosa serie Piedone lo sbirro, molto amata dai ragazzi. Si ricorda anche come inventore del poliziesco all’italiana con l’indimenticabile La polizia ringrazia (1972), un gradino in più rispetto al cinema di genere. Non abbandona mai l’attività di sceneggiatore e continua scrivere anche dopo il debutto alla regia. Ricordiamo: Il brigante Musolino, Basta guardarla, L’arcangelo, Delitto quasi perfetto, Le piacevoli notti e molte altre. La sua carriera termina con la televisione alla fine degli anni Ottanta, proprio quando il cinema di genere sta scomparendo.

   In questo lavoro non ci occuperemo diffusamente di tutta la produzione di Steno – che meriterebbe uno studio approfondito e sistematico in un volume a parte – ma delle commedie erotiche e dei lavori che possono ritenersi anticipatori del genere. Citeremo per completezza anche le altre opere limitandoci a pochi cenni conoscitivi.

   Stefano Vanzina comincia l’attività di regista insieme a Mario Monicelli con il satirico Al diavolo la celebrità (1949), opera non del tutto riuscita che si ricorda per un’efficace satira nei confronti dell’ONU e per il tentativo di attraversare vari generi pur ricorrendo a un umorismo datato. Totò cerca casa (1949) è il secondo film di una coppia di sceneggiatori lanciata dietro la macchina da presa per costruire una bella parodia del neorealismo con protagonista il principe della risata. Neorealismo comico a tutti gli effetti con un Totò scatenato che si trova a suo agio in un film che ricorda le comiche del cinema muto (imita pure una gallina). Vita da cani (1950) è il terzo film girato in collaborazione da Steno e Monicelli per affrontare il tema del teatro di rivista e fare un ritratto dolceamaro del mondo dell’avanspettacolo, interpretato da un incontenibile Aldo Fabrizi, ma anche da splendide attrici come Gina Lollobrigida e Delia Scala. Se vogliamo esistono accenni al genere sexy per l’esibizione finale in passerella della bella Lollobrigida. Il quarto film della coppia Steno – Monicelli è una modesta commedia come È arrivato il cavaliere (1950), interpretata da Tino Scotti nei panni di un burbero cavaliere e da Silvana Pampanini. Molta satira pungente nei confronti del fascismo e della retorica imperiale, giochi di parole milanesi e comicità lombarda tipica di Scotti. Guardie e ladri (1951) è il capolavoro della coppia Steno – Monicelli che mettono in campo i grandissimi Totò e Aldo Fabrizi nemici – amici, capaci di conquistare pubblico e critica. Altri due film interpretati dal principe e diretti dai due registi – sceneggiatori sono Totò e i re di Roma (1951) e Totò e le donne (1952), come sempre grande successo di pubblico e buone interpretazioni per l’attore napoletano utilizzato fuori dalle solite macchiette stereotipate. Le infedeli (1952) è l’ultima collaborazione tra Steno e Monicelli, prima che i due registi prendano strade personali nell’ambito della commedia all’italiana. Si tratta di un film insolito per Steno, perché è una critica al mondo borghese intrisa di melodramma e temi esistenziali. Il film è firmato anche da Steno, ma in realtà è opera quasi esclusivamente di Monicelli che comincia un percorso di allontanamento dalle tematiche squisitamente comiche.

   Totò a colori (1952) è il primo film firmato soltanto da Steno, oltre a essere uno dei primi film italiani a colori. Una pellicola geniale, impostata sulla comicità metafisica e surreale di un Totò in grande forma. L’uomo, la bestia, la virtù (1953) è ancora una volta un film con Totò, ma ispirato all’omonima commedia di Pirandello e interpretato anche dal grande Orson Welles. Una farsa d’autore che vorrebbe fare la satira della borghesia a base di doppi sensi. Cinema d’altri tempi (1953) è una commedia con Walter Chiari e Lea Padovani che fa la parodia del cinema muto riassumendo molti anni di cinema italiano. Un giorno in pretura (1954) è un film memorabile che gode di molti sequel e pessime imitazioni, basato sui casi di cronaca quotidiana che si presentano al giudice Peppino De Filippo. Commedia a episodi sceneggiata da Lucio Fulci, Sandro Continenza, Alberto Sordi, Giancarlo Viganotti e Steno, collegata da alcuni personaggi ricorrenti come il giudice e il testimone. Molto bravi gli attori: Alberto Sordi, Leopoldo Trieste, Walter Chiari, Ubaldo Lay, Sophia Loren e Silvana Pampanini. Momenti sexy cominciano ad affiorare: Armenia Balducci amoreggia con Leopoldo Trieste, l’ex soubrette Pampanini adesca clienti e Walter Chiari redime Sophia Loren. Alberto Sordi è protagonista dell’episodio più originale con il personaggio di Nando Moriconi, il povero borgataro con il mito del Kansas City, che nuota nudo in un fiumiciattolo. Gualtiero Jacopetti interpreta un disastroso avvocato. Un americano a Roma (1954) è il trionfo del personaggio creato per Alberto Sordi, un borgataro con il rimpianto di non essere nato in Kansas, che rinnega i maccheroni per scegliere latte e yogurt, ma alla fine si lascia provocare e li divora (“Maccaroni, m’hai provocato e io te distruggo!”), vede solo film americani, parla con un ridicolo slang americano e si muove come un cow boy. Il personaggio nato per Un giorno in pretura conquista il pubblico con un film tutto suo, divertentissimo e graffiante, soprattutto per la bravura di Sordi nel dare vita a vari tipi di americanismi presenti nel nostro popolo. Ursula Andress rappresenta un elemento sexy, ma è ancora una perfetta sconosciuta in una pellicola dove per pochi istanti fa il verso a Ingrid Bergman. Sceneggiatura di Lucio Fulci, Alessandro Continenza, Ettore Scola, Alberto Sordi e Steno. Le avventure di Giacomo Casanova (1955) è una commedia in costume ambientata nel 1760, interpretata da Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Irene Galter, Nadia Gray, Maria Lane, Marina Vlady, Carlo Campanini, Aroldo Tieri e Ursula Andress. Le avventure di Casanova sceneggiate da Fulci, Continenza, Guerra e Romano sono un modo per portare sullo schermo la voglia di vivere di un’Italia uscita dalla guerra e per compiere l’apologia della donna e dell’intraprendenza femminile. Il film ha una versione francese che comprende alcune scene di nudo (uno dei primi casi), ma l’edizione italiana è molto casta. Resta la tematica erotica, inevitabile perché si parla di Casanova, ed è più che sufficiente a scatenare l’ira dell’Azione Cattolica e di un intransigente Oscar Luigi Scalfaro, solerte censore de La dolce vita di Federico Fellini. Il film subisce ben quattro revisioni, il titolo viene modificato da Le avventure e gli amori di Giacomo Casanova in Le avventure di Giacomo Casanova, vietato ai minori di anni sedici e sforbiciato di ben quattrocento metri di pellicola. Non esiste neppure oggi una copia integrale di un film che rappresenta uno dei primi scandali della storia del cinema. Piccola posta (1955) è una piccola commedia interpretata da Franca Valeri e Alberto Sordi che prende spunto dalla rubrica della posta del cuore presente nei rotocalchi del tempo per fare una modesta satira di costume e immortalare due interpretazioni memorabili. Mio figlio Nerone (1956) è un altro film con protagonista Alberto Sordi, una sorta di peplum comico che mostra la bellezza giovanile e discinta di Brigitte Bardot (Poppea), ma anche la bravura di Vittorio De Sica (Seneca) e di Gloria Swanson (Agrippina). Le follie di Nerone e i suoi complicati rapporti con le donne sono messi in farsa, ma il film non decolla e resta un fiacco tentativo per far sorridere su argomenti storici. Susanna tutta panna (1957) è un titolo storico che resta nell’immaginario collettivo come modo di dire e intercalare ironico. Protagonista principale è Marisa Allasio, pasticcera innamorata di Germán Cobos, che mette nella torta destinata al fidanzato il segreto della panna di famiglia. Vittorio Metz e Marcello Marchesi scrivono una storia non molto credibile basata su improbabili personaggi che vogliono rubare la misteriosa ricetta e il suo lato migliore è proprio la comicità demenziale. Il Quartetto Cetra canta la canzone del titolo che diventa subito un successo e Marisa Allasio mostra abbondanti scollature anticipando i fasti della commedia erotica. Femmine tre volte (1957) è un film di satira politica mascherato da farsa sceneggiato da Metz e Marchesi. Evidente la critica al sistema comunista sovietico impersonato nella giocatrice di pallavolo (Sylva Koscina) che per restare in Italia chiede asilo politico. Il film racconta la sfida tra Diavole Rosse sovietiche e Angeli Bianchi americani per decidere quale sia la squadra più forte del mondo, ma narra pure le storie d’amore delle ragazze russe che aggirano il controllo dei rigidi commissari Bice Valori e Gianrico Tedeschi. Tra gli interpreti troviamo anche Nino Manfredi, Gianni Agus, Mario Carotenuto, Gina Rovere e Francesco Mulè. Il tema sportivo garantisce un minimo di visioni femminili in abiti discinti, ma non si va oltre qualche gamba nuda della Koscina e delle colleghe pallavoliste. Le avventure amorose si concludono tutte con matrimoni e fidanzamenti molto democristiani, anche se il titolo punterebbe sulla vitalità erotica delle donne dell’Est. Guardia, ladro e cameriera (1958) è una commedia degli equivoci cucita su Nino Manfredi, ladro imbranato che si fa convincere a partecipare a un furto organizzato dal professore (Carotenuto) proprio l’ultimo dell’anno. Gabriella Pallotta è una romantica cameriera che si trova nell’appartamento oggetto del furto, mentre Fausto Cigliano è la simpatrica guardia giurata del titolo. Luciano Salce e Bice Valori completano il cast di una farsa divertente ma prevedibile che ironizza sulla cultura dei fotoromanzi, grande passione delle signore. Mia nonna poliziotto (1958) è una commedia a base di stanche scenette messa in piedi da Vittorio Metz e Roberto Gianviti, interpretata da Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Tina Pica, Oreste Lionello, Riccardo Billi, Paolo Panelli e Bice Valori. Tina Pica replica il personaggio della vecchietta invadente e testarda resa famosa da Nonna Sabella (1957) di Dino Risi. Steno incontra ancora Totò con Totò nella luna (1958) e Totò, Eva e il pennello proibito (1959). Sylva Koscina e Abbe Lane sono le grazie femminili più in voga del momento, dotate di fascino esotico, lunghe gambe e sguardo sensuale. Ne abbiamo parlato a lungo nel capitolo dedicato a Totò. Tempi duri per i vampiri (1959) è interpretato da Renato Rascel, Sylva Koscina, Christopher Lee, Lia Zoppelli, Carl Very, Susanne Loret e Franco Scandurra. L’ambientazione è ricostruita all’interno dell’Hotel dei Castelli di Sestri Levante. Il conte Lamberteghi deve vendere il suo castello per superare grossi guai finanziari, ma c’è chi pensa di trasformarlo in un albergo di lusso. Lui dovrà impiegarsi come portiere di notte per tirare avanti. Christopher Lee – il Dracula dei film della Hammer – accetta di fare la parodia di se stesso e interpreta un vampiro che morde il conte Osvaldo Lamberteghi (Rascel). Il conte diventa un vampiro, ma non è portato per il ruolo e ne combina di tutti i colori. Il serioso Lee è la spalla ideale per il piccoletto Rascel, che concede al suo pubblico la solita interpretazione farsesca facendo una parodia del vampirismo. Una coppia così bizzarra e strampalata che fa ridere davvero. Alla fine – come nelle fiabe – sarà il bacio della fidanzata a salvare il vampirizzato. La pellicola è tratta da un’idea di Edoardo Anton e Mario Cecchi Gori ed è una scontata parodia di Dracula il vampiro (1958) di Terence Fisher. Resta nella memoria collettiva la canzone dei titoli di testa: “Dracula, vampiro dal nero mantello/ perché non ti mangi un bel pollo/ e lasci le donne campar!”. Un militare e mezzo (1959) è un altro film costruito sulla comicità di Renato Rascel, che vede come ottima spalla comica Aldo Fabrizi, in una farsa che ironizza sulla leva militare e il rapporto recluta – istruttore. Virna Lisi è la figlia del maresciallo, fidanzata con il bel militare Mario Girotti (che diventerà Terence Hill), che garantisce un minimo di sensualità. Niente di più che una piccola commedia sulla vita in caserma a base di barzellette sceneggiate da Metz, Fabrizi, Gianviti, Maccari, Amendola e Steno. I tartassati (1959) è ancora un buon film interpretato da Totò nei panni di un evasore fiscale, ma c’è anche un ottimo Aldo Fabrizi che come maresciallo di finanza cerca di incastrarlo. L’amore che sboccia tra i rispettivi figli (Luciano Marin e Cathia Caro) complicherà le cose. Steno lascia liberi i due comici di scatenarsi in una serie di duetti esilaranti e Totò conferma la predilezione per un regista che lo dirige nei suoi migliori personaggi. Letto a tre piazze (1960) è ancora un Totò movie, questa volta con Peppino De Filippo come spalla comica, ma è inferiore ad altri prodotti dello stesso periodo. Totò è il primo marito di Nadia Gray, dato per disperso nella campagna di Russia, torna dal fronte quando la moglie ha sposato Peppino e sconvolge il loro rapporto. A noi piace freddo…! (1960) è una farsa poco riuscita interpretata da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello che vivono un momento di grande popolarità, al punto che danno vita a personaggi che portano i loro veri nomi. Il regista sceneggia una pellicola – che nel titolo imita il film di Billy Wilder – con la collaborazione di Vittorio Metz e Roberto Gianviti. Yvonne Fourneaux è il solo elemento sexy, mentre dal lato comico abbiamo un Peppino De Filippo, meno divertente del solito.

   Psycosissimo (1961) è ancora Tognazzi – Vianello movie, ma è interesante non solo come farsa parodistica ispirata a Psyco (1960) di Hitchcock, quanto per molti accenmni di commedia sexy. Il film è scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Roberto Gianviti e Vittorio Metz. Interpreti: Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi, Monique Just, Edy Wessel, Spiros Focas, Francesco Mulè, Tony Ucci, Ugo Pagliai, Mario Bernardi e Leonardo Severini. Steno racconta le vicissitudini di due attori (Tognazzi e Vianello) che vengono scambiati per veri killer mentre recitano una scena di omicidio e sono  assoldati da un marito per uccidere la moglie. Nella farsa degli equivoci finiscono per morire proprio il marito tradito (prende un infarto quando vede viva la moglie che pensava morta) e l’amante della moglie (trasformato in salsicce), mentre i nostri eroi se la cavano senza troppi danni. Il film comincia come una parodia horror, prosegue come una farsa, ha il tono di una pochade ed è basato su scenette da avanspettacolo. Psycosissimo presenta tracce di commedia sexy in tutta la prima parte, a cominciare dallo spogliarello a finestra aperta della procace Monique Just, che si sfila con sensualità calze nere e giarrettiere per restare in sottoveste di pizzo. Monique Just la ricordiamo solo in Pugni, pupe e marinai (1961) di Daniele D’Anza, ma è una buona attrice, dotata di un fascino notevole e di buone caratteristiche comiche. Nella pellicola interpreta un altro striptease sul palcoscenico di un teatro, davanti a un pubblico di guardoni, sfilandosi lentamente calze e giarrettiere mentre il marito (Tognazzi) smania di gelosia. Edy Wessel è un’altra conturbante bellezza femminile, ma recita in panni molto castigati, pure se interpreta la moglie fedifraga che tenta di uccidere il marito. Ricordiamo la bionda Wessel nel cast di Risate di gioia (1960) di Mario Monicelli e di Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini. Franca Marzi (Fifa e arena, Le notti di Cabiria, Fantasmi a Roma…) è la signora Scarponi, vedova a caccia di uomini, che in ogni caso resta sempre vestita e non mostra la sua prosperosa bellezza. Le prime due attrici scompaiono presto dal firmamento cinematografico, mentre Franca Marzi lavora molto e vince un Nastro d’argento per l’interpretazione de Le notti di Cabiria. Le sequenze da commedia sexy avranno sicuramente ispirato Mariano Laurenti che in questo film è aiuto regista e fa tesoro degli insegnamenti per future pellicole come L’infermiera di notte (1979), che vede in primo piano una sexy Gloria Guida. La sequenza di strip alla finestra con il guardone che contempla estasiato è identica. Francesco Mulè è un buon marito cornuto, nel ruolo consueto da imbranato, rispettoso dei tempi comici. Tony Ucci è un cliente mangione che parla romanesco e non si stacca mai dal piatto di spaghetti. Molto bravi Tognazzi e Vianello, comici di grande livello, credibili nelle sequenze di metacinema e nelle parti da horror comico (lo scheletro in auto, la finta donna impiccata, la notte di tempesta, il comico deprezzamento del cadavere…). Pure la farsa finale è divertente, anche perché mostra un originale epilogo surreale che vede l’amante della Wessel trasformato in salsiccia parlante. Bella colonna sonora di Carlo Rustichelli, che si segnala per Notte di luna calante di Domenico Modugno, passata quasi per intero in una sequenza di ballo sexy che vede impegnati Tognazzi e Wessel.

   Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello sono una garanzia di successo al botteghino e Steno ne approfitta anche per La ragazza di mille mesi (1961), rieditato nel 1964 come Tognazzi e la minorenne, da ricordare per la presenza di Gloria Paul, Danielle De Metz, Sophie Desmarets e un buon Luciano Salce nei panni dello psicanalista. Non è un gran film, ma la solita farsa di poche pretese a base di comicità di grana grossa. I moschettieri del mare (1962) è un film di pirati all’italiana, genere che non ha avuto grande seguito, ma la sua originalità deriva dalla commistione con la commedia e da molti momenti ironici. Il soggetto è di Ennio De Concini, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Marcello Fondato, Roberto Gianviti e Vittorio Metz. Anna Maria Pierangeli rappresenta il volto sexy della pellicola e interpreta addirittura due ruoli da gemelle, figlie di un conte. Totò Diabolicus (1962) è una farsa a tinte gialle interpretata da Totò – che si cala in una serie incredibile di personaggi – e Raimondo Vianello. Non è un capolavoro, anche se resta un film unico come galleria di tipi comici. Copacabana Palace (1962) è una commedia interpretata da Walter Chiari, ambientata a Rio De Janeiro durante il carnevale, scritta e sceneggiata da Sergio Amidei e Luciano Vincenzoni, fotografata da Massimo Dallamano e piena di colore locale fotografato da Steno. Sylva Koscina è la partner femminile nei panni di una hostess che vuole solo divertirsi. Sylva Koscina è un’attrice croata di grande popolarità in Italia, nata a Zagabria nel 1933 da padre greco e da madre polacca, comincia a lavorare nel cinema accanto a Totò in Siamo uomini o caporali? (1955) di Camillo Mastrocinque, ma si impone all’attenzione del grande pubblico con Il ferroviere (1955) di Pietro Germi. Ha soltanto ventidue anni. Tutti vedono in lei la nostrana Marylin Monroe, per i biondi capelli, gli occhi azzurri, un fascino intenso e un fisico prorompente. Sylva Koscina lavora a fianco di grandi attori comici (Sordi, Manfredi, Tognazzi) nel periodo 1960 – 1970, conferendo alle pellicole sempre un elemento di sensualità e di blando erotismo. Ricordiamo tra i molti film un ottimo Ladro lui, ladra lei (1958) di Luigi Zampa, ma anche Il vigile (1962) e Giulietta degli spiriti (1964) di Federico Fellini. Nel 1967 compare a seno nudo su Playboy per anticipare il suo lancio sul mercato statunitense accanto a Kirk Douglas e Paul Newman. Diva a tutti gli effetti, parla di sé in terza persona e si esprime in un italiano divertente, con buffe espressioni di significato trasgressivo. Muore nel 1994 a Roma per un tumore al seno.

   I due colonnelli (1962) e Totò contro i quattro (1963) sono altri due film con protagonista Totò, un genere a parte di cinema comico che va per la maggiore e piace molto a ragazzi e adulti. Non sono tra le cose migliori che ci lascia il comico napoletano, ma nel secondo c’è più verve e il cast garantisce maggiore comicità, vista la presenza di Peppino De Filippo, Macario, Nino Taranto e Mario Castellani. Moira Orfei è l’elemento sexy. Gli eroi del West (1963) è una commedia western ricca di equivoci e gag esilaranti interpretata dall’insolita coppia composta da Walter Chiari e Raimondo Vianello. Belle presenze femminili rappresentate da Silvia Solar e Maria Andersen.  I gemelli del Texas (1964) è un nuovo tentativo di farsa western, una parodia gestita ai minimi sindacali dal regista che guida la coppia Chiari – Vianello insieme a Diana Lorys e Franca Polesello. Risate all’italiana (1964) è un film di montaggio che offre una panoramica dei nostri autori comici più celebri, introdotti da un commento fuori campo e da alcuni disegni di Pino Zac. Un assemblaggio meccanico di vecchi film. Un mostro e mezzo (1964) è un horror comico scritto e sceneggiato da Steno e Alessandro Continenza, che vede protagonista la coppia comica siciliana e la bella Margaret Lee come spalla erotica. Ciccio Ingrassia è un chirurgo pazzo che vorrebbe trasformare Franco Franchi nel sosia dell’Aga Khan e invece lo fa diventare simile al bandito Cesarone. Da notare che in questo film – per la prima volta nella sua carriera – Margaret canta, ma lo farà di nuovo in Arriva Dorellik (1967). Franco Franchi e Ciccio Ingrassia vanno di gran moda, sono amati dai ragazzi che li apprezzano in qualunque interpretazione. Steno valorizza le qualità della coppia comica con una regia attenta e professionale anche in Letti sbagliati (1965), un film a episodi sceneggiato da Alessandro Continenza. Molti gli elementi sexy ne Il complicato (Ingeborg Schöner, Lando Buzzanca e Aldo Giuffrè), che vede un uomo corteggiato in treno da una bella ragazza, pure se alla fine scopre che era solo una scommessa. 00 – Sexy missione Biondo Platino (Raimondo Vianello, Fulvia Franco e Margaret Lee) è ancora protocommedia sexy con equivoci a non finire, tentativi di tradimento andati male e riusciti. Margaret Lee è stupenda come sempre e la sua presenza in un cast è un motivo per pagare il biglietto. Quel porco di Maurizio (Beba Loncar, Carlo Giuffré e Aldo Puiglisi) parla di un avvocato che diventa l’amante di una ragazza per comporre la vertenza tra un suo assistito e la donna. Beba Loncar è affascinante, bionda e misteriosa, con movenze da pantera che bucano lo schermo. La seconda moglie (Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Olimpia Cavalli ed Enzo Turco) racconta di un vedovo che scopre i tradimenti della moglie quando è ormai troppo tardi. “Avanspettacolo puro a base di sesso e corna”, come dice Paolo Mereghetti nel suo Dizionario, ma è anche vero che si comincia a respirare aria di commedia erotica di buon livello. Amore all’italiana – I superdiabolici (1966) è un passo indietro, un film a episodi che ricorda l’avanspettacolo, a base di scenette umoristiche, interpretato da Isabella Biagini, Paolo Panelli, Walter Chiari, Luigi De Filippo e Raimondo Vianello. Molti i riferimenti alla commedia erotica: un vecchio si finge morto per far uccidere tra loro gli eredi, un uomo vive ricattando il principale con le foto spinte della moglie, un tifoso grida cornuto a un arbitro che va a letto con sua moglie… La comicità è corporale, fisica, spesso ai limiti del volgare, ma si ride. Rose rosse per Angelica (1966) è interessante solo perché nel cast spicca il nome di Raffaella Carrà in una delle poche pellicole interpretate. Gli altri attori sono Giulio Bosetti, Carlos Estrada, Mario Feliciani e Jacques Perrin. Film in costume ai tempi della rivoluzione francese con la bella Angelica interpretata dalla mitica Raffaella, che i dizionari di cinema in commercio dimenticano volentieri. Non è un capolavoro.

   Arriva Dorellik (1967) merita una trattazione più articolata, perché è una commedia originale ispirata ai fumetti neri che vede protagonista femminile la bella Margaret Lee, accanto a un irresistibile Johnny Dorelli. Il film viene ben accolto dal pubblico, anche perché deriva dal programma televisivo Johnny sera e in seguito finisce per ispirare la nascita del fumetto Paperinik. Nel corso degli episodi televisivi Margaret Lee canta la famosa canzone Col chicco di uva passa, ma nonostante il successo l’attrice non pensa di incidere un disco. Canta con l’accompagnamento musicale dei Fratelli De Angelis, ancora noti come gruppo beat “G & M”. Protagonista assoluto della pellicola è un Johnny Dorelli in calzamaglia, mantello e sopracciglia finte, per la prima volta al cinema, che ci regala una gustosa parodia di Diabolik. Margaret Lee è la sensuale fidanzata Baby Eva, indossa una sexy tuta nera, porta una pettinatura a ciuffo e si doppia in italiano con spiccato accento inglese. Ricordiamo Margaret Lee anche con un sexy abito da sposa molto corto che sprigiona tutta la sua sensualità. Terry-Thomas è il commissario Green, eterno rivale del criminale, fornisce un’interpretazione sopra le righe che caratterizza fumettisticamente il personaggio e costituisce l’elemento comico più esilarante. Tra l’altro Green è innamorato di Eva che non lo corrisponde, ma non si dà per vinto e a un certo punto arriva a farla scappare per amore. Dorellik deve eliminare tutti i Dupont di Francia per conto di Raphael Dupont (Piero Gerlini) che vuole restare unico erede di un miliardario brasiliano. Dorellik si mette d’impegno, fa fuori in ordine alfabetico tutti i Dupont della Guida di Francia, usando metodi che sono una continua citazione delle vecchie comiche. Gli sceneggiatori pescano a piene mani dal repertorio di Stan Laurel e Oliver Hardy, senza dimenticare Charlie Chaplin. Si può dire che ogni omicidio di Dorellik è un episodio autoconclusivo e anche se scorre molto sangue non se ne vede mai una goccia. Si tratta di un film per famiglie, dove l’assassinio è rappresentato in maniera così paradossale e grottesca da far soltanto sorridere. Il film è ambientato sulla Costa Azzurra, per la precisione a Nizza, dove Dorellik imperversa, sia come criminale che come amante insuperabile. In ogni caso il suo vero amore resta Eva, anche se dispensa baci inconfondibili a tutte le belle donne che incontra. Sono divertenti le trovate pubblicitarie ispirate ai Caroselli del tempo. Ricordiamo Dorellik pubblicizzare con uno spot i suoi crimini: “il crimine è una cosa seria, la fiducia si dà alle cose serie… Dorellik vuol dire fiducia!”. Tutto in perfetto stile Galbani. Finale a sorpresa con Dupont che lascia i suoi beni ai frati benedettini e scatena la tipica bagarre della pochade. Dorellik scappa attaccato a un aereo guidato da Eva e prima della fine (anzi… della finik!) assistiamo a un surreale scambio di persone tra lui e Green. Un vero e proprio cartone animato. Il film è volutamente trash, ma diverte in maniera semplice e spontanea tentando di seguire le orme dell’umorismo nero inglese. Castellano e Pipolo sceneggiano una farsa scanzonata e ingenua, Franco Pisano compone la colonna sonora e soprattutto Arriva la bomba, famosa sigla di testa. Non date ascolto ai critici intellettuali. Riscopritelo senza pregiudizi e vi divertirete come quarant’anni fa! 

   Capriccio all’italiana (1968) è un film collettivo che Steno gira insieme a Mauro Bolognini, Pier paolo Pasolini, Pino Zac, Franco Rossi e Mario Monicelli. Gli episodi: Il mostro della domenica di Steno è interpretato da Totò e racconta le vicissitudini di uno strambo personaggio ossessionato dai capelloni al punto di perseguitarli armato di forbici. La bambinaia di Mario Monicelli, vede Silvana Mangano leggere le favole ai bambini al posto dei fumetti neri, ma questi ultimi si spaventano ancora di più per colpa di orchi e lupi. Viaggio di lavoro di Pino Zac (dirige solo le animazioni iniziali) e Franco Rossi (fa il resto), vede ancora all’opera Silvana Mangano insieme a Renzo Marignano, nei panni di una regina che sbaglia a leggere un discorso in pubblico. Perché? di Mauro Bolognini vede gli stessi interpreti del precedente episodio e narra le gesta di una ragazza sconsiderata che ama l’ebbrezza del sorpasso al volante. Che cosa sono le nuvole? è un piccolo gioiello di Pier Paolo Pasolini  interpretato da Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti, Adriana Asti, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Francesco Leonetti e Domenico Modugno. Poetica storia di due marionette (Totò e Davoli) che guardano la bellezza delle nuvole dimenticando un destino crudele che le vede finire in una discarica di rifiuti. La gelosa di Mauro Bolognini con Ira Fürstemberg e Walter Chiari racconta la storia di una donna che sospetta un tradimento del marito e lo vuole uccidere, ma alla fine si accorge che non ha fatto niente di male. Gli episodi sono poco collegati tra loro e il film non è per niente uniforme, ma la bravura di Totò lo salva.

   La feldmaresciallaRita fugge… lui corre…egli scappa (1968) è un film interpretato da Rita Pavone, Francis Blanche, Terence Hill (Mario Girotti), Aroldo Tieri, Teddy Reno, Jess Hahn e Michel Modo. La pellicola è strampalata quanto basta perché è una vera commistione di generi, un po’ musicarello, ma anche commedia nera e pseudoslapstick, farsa intrisa di nonsense e ricca di umorismo nero. Rita Pavone e Teddy Reno cantano e la storia comica pensata da Castellano e Pipolo subisce qualche rallentamento, ma la storia ambientata al tempo dei nazisti con la Pavone nei panni di una locandiera che si traveste da Hitler è davvero assurda.

   Il trapianto (1969) è un primo tentativo di commedia sexy interpretato da Renato Rascel, Carlo Giuffré, Fëdor Šaliapin jr, Graziella Granata, Liana Troché, Malisa Longo e Gabriela Giorgelli. Un riccone americano impotente (Šaliapin) paga un miliardo per un trapianto di membro virile e così il barone di Filaruta (Giuffré) si finge il donatore. Il barone torna in Sicilia e continua a cornificare mariti e fidanzati, perché la sua virilità è sempre intatta. Il problema è che lo scoprono, viene costretto a subire l’operazione e a cedere il membro virile al vero donatore, un impiegato romano (Rascel), padre di quattordici figli. Il film è una vera e propria farsa con molti riferimenti erotici e un’intenzione satirica nei confronti dei frequenti trapianti di cuore praticati da Barnard. I dialoghi sono all’insegna del sottinteso e non si va mai oltre le espressioni scientifiche, pure se il tema è scabroso. Il soggetto è di Nino Longobardi, la sceneggiatura di Giulio Scarnicci, Stefano Strucchi, Renzo Tarabusi, Raimondo Vianello e Steno. Il film non è mai volgare e il ritmo brillante fa passare quasi due ore di allegria, anche se i moralisti si indignano parecchio, soprattutto per il messaggio che con il denaro si può comprare tutto, persino la virilità. 

   Cose di Cosa Nostra (1971) è ancora commedia sexy di ambientazione mafiosa interpretata da Carlo Giuffré, Pamela Tiffin, Aldo Fabrizi, Jean-Claude Brialy, Salvo Randone, Vittorio De Sica, Agnès Spaak, Angela Luce ed Enzo Cannavale. La farsa alterna molti luoghi comuni sulla mafia a parti che mostrano le grazie di Pamela Tiffin, purtroppo molto castigate e che non vanno mai oltre la camicia da notte. Giuffré è un mafioso da burletta che va in America per uccidere il traditore Randone, ma non ce la fa e allora assolda un killer che è uno spasimante della moglie. Fabrizi è un brigadiere romano (citazione voluta?) che lo insegue credendolo uno spacciatore di droga. De Sica interpreta un avvocato che si è rovinato sui tavoli da gioco e ricorda il suo vero destino. 

   Il vichingo venuto dal Sud (1971) è un Lando Buzzanca movie, sottogenere della commedia erotica che presenta precise caratteristiche segnate dal personaggio di maschio siculo interpretato da Buzzanca. Interpreti: Lando Buzzanca, Pamela Tiffin, Renzo Marignano e Gigi Ballista. Pamela Tiffin è la moglie danese di un marito siciliano (Buzzanca) che scatena la sua gelosia perché accetta di posare per un fumetto erotico, ma alla fine il marito opta per farle da partner. La farsa è sceneggiata da Raimondo Vianello. Pamela Tiffin è una modella e attrice statunitense – nata a Oklahoma City nel 1942 – che gode di un periodo di popolarità in Italia. Pamela entra quasi per caso nel mondo del cinema, vorrebbe laurearsi in architettura, lavora come modella per la rivista Vogue per pagarsi le spese dell’università, nel 1961 interpreta il suo primo film: Estate e fumo, ma nello steso anno il ben più importante Uno, due, tre! diretto da Billy Wilder. Negli Stati Uniti lavora con Paul Newman e Burt Reynolds, ma diventa famosa anche in Italia interpretando alcune pellicole comiche venate di un pizzico di malizia. La sua interpretazione più memorabile resta quella di Marisa Di Giovanni nell’intenso Straziami ma di baci saziami (1966) di Dino Risi. Lascia la carriera artistica dopo il matrimonio (1974) per dedicarsi ai figli e alla famiglia.

   La polizia ringrazia (1972) esula dalla nostra trattazione, ma è importante perché si tratta del primo film riconducibile al filone poliziottesco. Steno racconta la storia di un commissario romano impegnato a risolvere casi di rapine, sequestri e altri fatti di criminalità spicciola, ma soprattutto alle presa con una banda di feroci giustizieri e con un tentativo di colpo di Stato. Enrico Maria Salerno è il protagonista principale, delinea un tipo di poliziotto piuttosto riflessivo e tranquillo rispetto ai successivi eroi del genere, che preferiranno l’azione alla meditazione, ma il suo carattere pieno di ombre e di malinconia passerà nei personaggi portati sullo schermo da Maurizio Merli, Luc Merenda, Leonard Mann e Franco Gasparri. Un elemento importante de La polizia ringrazia è la colonna sonora, composta da Stelvio Cipriani, esempio tangibile di come nel poliziesco la musica sia parte integrante della storia. Il film di Stefano Vanzina, rispetto agli altri di puro genere che lo seguiranno, si basa su un intreccio quasi fantapolitico e presenta ambizioni di impegno civile. Si tratta dell’unico film che Steno firma con il vero nome di Stefano Vanzina, forse per differenziarlo dal resto della produzione. Interprete femminile la bella Mariangela Melato, nei panni di una giornalista che si trova sempre sui luoghi del crimine.

   Steno è uno dei registi più attivi nel Lando Buzzanca movie, sottogenere del cinema comico erotico che riempie le sale, vista la grande popolarità dell’attore siciliano. L’uccello migratore (1972) è uno dei prodotti più conosciuti di questa tipologia di commedia sexy e vede interpreti Lando Buzzanca, Rossana Podestà, Gianrico Tedeschi, Dominique Torrent, Pia Velsi, Paolo Cardoni e Ignazio Leone. La sceneggiatura è di Raimondo Vianello e Giulio Scarnicci, le musiche sono di Armando Trovajoli. Lando Buzzanca è un professore di storia trasferito dalla Sicilia nel più caldo dei licei romani, per interessamento di uno zio onorevole. Il professore viene subito contestato dagli studenti in perenne agitazione, ma dopo alcune baruffe scolastiche finisce per passare dalla loro parte. Non mancano leggere parti erotiche, perché il professore – da buon maschio siculo – fa strage di cuori, siano allieve (Torrent) che colleghe (Podestà). Non solo: la collega è una sorta di ninfomane che non perde occasione per saltargli addosso ma alla fine lo diffama. Il professore viene arrestato alla testa dei contestatori, finisce in prigione ma continua a insegnare anche dalla galera. La critica colta stronca le pellicola, ritenuta indegna persino di rappresentare un’epoca, definita una satira qualunquista e poco credibile, retta da una sceneggiatura zoppicante (Mereghetti). In realtà è una buona commedia erotica, grottesca quanto basta, ben oliata nella macchina dei personaggi e divertente senza riserve.

   Il terrore con gli occhi storti (1972) è una commedia nera poco riuscita interpretata da Enrico Montesano, Alighiero Noschese, Francis Blanche, Isabella Biagini, Lino Banfi, Francesco Mulè e Maria Baxa. La sceneggiatura è di Raimondo Vianello e Giulio Scarnicci che mescolano commedia a suspense con esiti non molto felici. Montesano, Noschese e Blanche sono tre amici originali, un po’ mitomani, sempre a caccia di emozioni forti. Un giorno organizzano un finto delitto, ma ci scappa davvero il morto e allora devono darsi da fare per fugare i sospetti della polizia. Niente di erotico, anche se le presenze femminili di Isabella Biagini e Maria Baxa non sono da disprezzare. Anastasia, mio fratello, ovvero il presunto capo dell’anonima assassini  (1973) è un altro passo falso nella commistione di commedia e thriller, sceneggiato da Alberto Sordi (aiutato da Amidei e Bevilacqua) e tratto dall’omonimo libro di don Salvatore Anastasia. L’interprete principale è Alberto Sordi, ma ci sono anche Richard Conte (immancabile in simili film), Edoardo Fajeta, Luciano Pigozzi e Franco Angrisano. Non ha niente a che vedere con il sexy, ma è un film girato negli ambienti mafiosi della Little Italy.

   Piedone lo sbirro (1973) è il primo grande successo di un personaggio inventato da Nicola Badalucco e Luciano Vincenzoni, in un film sceneggiato Lucio De Caro. Indimenticabile il motivetto di Lucio e Maurizio De Angelis che tornerà remixato nei tre sequel di una pellicola dedicata a un pubblico di ragazzini. Siamo fuori dalla nostra tematica, perché nelle pellicole con protagonista Bud Spencer l’erotismo è assente per contratto. Carlo Pedersoli è il classico protagonista di storie per bambini, narrazioni familiari basate su un umorismo facile e immediato, senza nessun tipo di implicazione psicologica. Interpreti: Bud Spencer, Enzo Canavale, Adalberto Maria Merli, Angelo Infanti, Raymond Pellegrin, Juliette Mayniel, Mario Pilar, Enzo Maggio, Carla Mancini e Nello Pazzafini. Il vice – commissario Rizzo (Spencer) detto Piedone contrasta un gruppo di trafficanti di droga marsigliesi che vendono veleno davanti alle scuole, ma i suoi metodi sono poco ortodossi e il commissario lo sospende. Piedone indaga da solo e punisce i cattivi di turno. Piedone è un poliziotto napoletano corpulento che non usa la pistola ma fa rispettare la legge a suon di cazzotti. I sequel sono meno interessanti, ma il successo è garantito: Piedone a Hong Kong (1975), Piedone l’Africano (1978) e Piedone d’Egitto (1980). Non vale la pena di parlarne.

   La poliziotta (1974)è una commedia interpretata da un’ottima Mariangela Melato che ci riporta in un genere più vicino alle tematiche del nostro lavoro. Basti dire che il film di Steno fa da precursore a una serie di sequel apocrifi girati da Michele Massimo Tarantini con protagonista Edwige Fenech. Il film di Steno presenta pochi elementi erotici, come un tentativo di approccio tra Oreste Lionello e Mariangela Melato, durante il quale la bella attrice milanese mostra appena le lunghe gambe fasciate da calze autoreggenti. Edwige Fenech afferma: “Il mio film non va assolutamente considerato il seguito de La poliziotta con Mariangela Melato. Quel film aveva intenti sociali che qui mancano del tutto. La Melato era una donna che aveva problemi con la società, io invece sono una poliziotta sul piano comico. Ne faccio di tutti i colori, sbaglio tutto, provoco un macello, ma alla fine colpisco il cattivo. Questo è il primo film comico alla Harold Lloyd con una protagonista femminile. Recito vestitissima e la comicità è più nel dialogo che nelle situazioni. Mi è stato chiesto di recitare, non di spogliarmi, in definitiva. Segno questo della mia evidente evoluzione” (da Michele Giordano “La commedia erotica italiana” – Gremese, 2002). Il paragone tra La poliziotta fa carriera (1976) di Michele Massimo Tarantini e La poliziotta di Steno non va neppure fatto, perché sono due lavori troppo diversi. La poliziotta è una parodia impegnata, al femminile, dei poliziotteschi che proprio Steno ha lanciato con La polizia ringrazia (1972) e si propone di fare pure un discorso sociale. Tarantini con La poliziotta fa carriera vuole soltanto far sorridere usando i meccanismi della farsa e della pochade. La poliziotta interpretata da Edwige Fenech prosegue con La poliziotta della squadra buon costume (1979) e La poliziotta a New York (1981), sempre di Michele Massimo Tarantini.

   La poliziotta di Steno vede tra gli interpreti: Mariangela Melato, Orazio Orlando, Renato Pozzetto, Alberto Lionello, Mario Carotenuto, Alvaro Vitali, Gigi Ballista, Armando Brancia, Renato Scarpa e Umberto Smaila. Il soggetto è di Nicola Badalucco e Giuseppe Catalano, sceneggiato da Luciano Vincenzoni e Sergio Donati. Un buon film che racconta la voglia di non essere più trattata da donna oggetto da parte di Gianna Abbastanzi (Melato), vessata da un fidanzato maschilista (Pozzetto) e da un datore di lavoro dalle mani lunghe (Ballista). Gianna diventa vigile urbano e indossa i panni di un’eroina pronta a difendere tutti dai soprusi e a scoprire magagne e corruzione. Gianna si trova a lottare contro i politici e gli imprenditori che vogliono metterla a tacere con la complicità del sindaco e del capo della polizia (Carotenuto). Resta solo lei e un coraggioso giovane magistrato innamorato (Orlando) a lottare contro i mulini a vento. Tra l’altro Gianna è invaghita della persona sbagliata, un politico corrotto (Lionello) che un giorno la invita a casa sua e cerca di possederla in cambio del suo silenzio. Si tratta della parte più erotica del film, ma la sensualità di Mariangela Melato è mitigata dalla comicità. Il film è molto riuscito e il suo gran successo scatena i finti sequel della commedia sexy bassa. Steno riesce a creare una commedia di caratteri e a fare un discorso di satira di costume su volgarità e corruzione.

   Il padrone e l’operaio (1975) merita una trattazione approfondita perché gli elementi di commedia erotica sono preponderanti rispetto ad altri lavori precedenti. Il soggetto e la sceneggiatura sono di Sergio Donati e Luciano Vincenzoni, le musiche di Gianni Ferrio (come per La poliziotta). Cochi e Renato si ricordano per la divertente interpretazione de La ventosa sui titoli di coda. Interpreti: Renato Pozzetto, Teo Teocoli, Francesca Romana Coluzzi, Loris Zanchi, Walter Valdi, Gillian Bray, Loredana Bertè, Gianfranco Barra, Annamaria Rizzoli ed Enrico Beruschi. Si tratta di uno spassoso Pozzetto – movie, nel quale il comico milanese caratterizza la macchietta televisiva da imbranato cronico come imprenditore vessato dal suocero (Zanchi) e stanco della moglie (Coluzzi). L’impresario del rubinetto Giangi Tosi (Pozzetto) è impotente, anche se si tratta di una malattia nervosa, dovuta alla depressione e a una vita carica di stress. Il padrone prova una forte invidia per l’operaio Luigi Carminati (Teocoli) che lavora senza problemi, vive con ottimismo e se la spassa con più donne possibili. Cerca di metterlo in difficoltà, diventa suo amico, lo invita in barca per portarlo fuori ambiente, ma finisce per spingerlo tra le braccia della moglie. Non tutto il male viene per nuocere, perché Pozzetto approfitta del finto trauma per fingersi pazzo e riesce a vivere senza più dover occuparsi della fabbrica. L’operaio riceverà un cospicuo assegno come premio.  La pellicola presenta modesti accenni di commedia erotica, ma come sempre accade con Renato Pozzetto il registro è surreale, la comicità stralunata e le situazioni rasentano l’assurdo. La coppia comica Teocoli – Pozzetto funziona, il film non risente del tempo passato e strappa ancora oggi grandi risate nelle rare visioni televisive. Renato Pozzetto è un attore di cabaret che riscuote grande successo in televisione assieme a Cochi Ponzoni, ma al cinema si presenta insieme ad altre spalle comiche per dare vita a un personaggio surreale, bambinone e immaturo, stressato, nevrotico, egoista e invidioso. Il padrone e l’operaio non vede Pozzetto interpretare un cattivo, ma una persona inadatta a vivere secondi i ritmi stabiliti dalla società e incapace di prendersi le proprie responsabilità. La scelta definitiva per la finta follia è un modo per vivere nascosto e per fuggire dagli obblighi verso gli altri. Un eroe imperfetto che usa i propri difetti come uno scudo nei confronti della vita e per raggiungere meschini scopi egoistici. Teo Teocoli è un eroe da commedia sexy, il donnaiolo impenitente che non ne lascia scappare una e che vive senza profondità, senza idee politiche, ma solo per collezionare conquiste femminili. Gianfranco Barra è il sindacalista che non sorride mai e pensa soltanto alla lotta di classe mentre Enrico Beruschi (breve apparizione) è la sua spalla politica. Loris Zanchi è un caricaturale e perfido suocero che perseguita un genero ansioso e incapace di guidare l’azienda con energia. Walter Valdi è lo psicologo che cura Renato Pozzetto dalla sua nevrosi e cerca di rimuovere gli ostacoli che non lo fanno vivere tranquillo. Nel cast femminile spicca la bravissima Francesca Romana Coluzzi, perfetta nel ruolo di donna giunonica trascurata dal marito che alla fine si vendica con l’operaio. Brevi apparizioni da amanti di turno per Loredana Bertè e Annamaria Rizzoli, ma sempre molto castigate.

   L’Italia s’è rotta (1976) è vera commedia erotica on the road ricca di nudi integrali generosamente offerti da una maliziosa Dalila Di Lazzaro. Interpreti: Teo Teocoli, Dalila Di Lazzaro, Mario Scarpetta, Mario Carotenuto, Franca Valeri, Alberto Lionello, Enrico Montesano, Duilio Del Prete, Orazio Orlando, Sergio Di Pinto, Guidarino Guidi, Marisa Laurito e Clelia Matania. Le musiche sono di Enzo Jannacci, che si ricorda per un’ironica canzone sul boom e come voce narrante nei panni di un cantastorie. Nella colonna sonora apprezziamo anche Genova per noi cantata da Paolo Conte. Il film riscuote grande successo di pubblico, sia per il soggetto popolare che per una Dalila Di Lazzaro mai così bella e nuda. Teocoli e Scarpetta sono due giovani siciliani che lasciano Torino, il primo dopo aver perso il posto di lavoro e il secondo per non averlo mai avuto. Sono due disperati costretti a vivere di espedienti che decidono di tornare al Sud insieme alla giovane prostituta veneta Di Lazzaro, pure lei scottata dalla metropoli piemontese. Nella prima parte del film apprezziamo tutti i pregiudizi sui meridionali che prendono forma in una città come Torino, ma anche la solidarietà tra poveri. Dalila Di Lazzaro è costretta a prostituirsi da un magnaccia, ma Mario Scarpetta la libera e la porta a vivere  in un tubo (sic!) con uso di cucina. Lei si presenta subito in una mise sensuale con parrucca e gambe lunghissime che escono da un vestito verde. Nel tubo si spoglia, ma vediamo solo le spalle mentre si cambia d’abito per andare a letto con il nuovo compagno, e continua a prostituirsi per far quadrare il magro bilancio. Il viaggio verso il sud comincia all’insegna di un vaffanculo al nord!  ed è un pretesto per presentare singolari personaggi. Mario Carotenuto e Sergio De Pinto simboleggiano lo scontro generazionale: il primo è un borghese contrario a scioperi e disordine, mentre il figlio è un sessantottino ribelle. Dalila Di Lazzaro si fa guardare le gambe dal ragazzo, finisce a letto con due camionisti in cambio di un pieno di benzina e fa l’amore in auto con i due compagni di viaggio per riscaldarsi. Franca Valeri è una snob aristocratica che non comprende i problemi dei poveri e finisce per mangiare il loro povero cibo. Alberto Lionello è uno zio sporcaccione che vive a Carrara, ascolta la triste storia della ragazza ma non perde occasione per palparla e finisce per approfittare di lei. La sequenza è la più spinta di tutto il film, vera commedia sexy che ispirerà molto cinema di serie B. Steno stigmatizza il fenomeno delle rapine e il caro vita mostrando due arzilli vecchietti che derubano una norcineria. A Roma incontriamo Enrico Montesano, rapinatore da burletta che replica un personaggio televisivo da sfigato di periferia. I tre amici finiscono in guardina perché fanno il bagno nudi su una spiaggia del sud e devono fare i conti con Duilio Del Prete, integerrimo pretore sessuofobo. La macchietta del pretore è un modo per ironizzare sui sequestri dei film a contenuto erotico e per puntare il dito contro chi vorrebbe indicare una morale senza avere titolo per farlo. Nello studio del pretore ci sono i flani di molte commedie sexy dell’epoca, il magistrato vede più volte al rallentatore le parti incriminate sorbendo zabaione preparato da un solerte assistente. Steno ridicolizza la censura e i giudici che per pura sessuofobia sequestrano innocue pellicole e le mandano al rogo. Il finale è abbastanza retorico perché è un atto di accusa contro il sud retrogrado dove ci sono ancora faide di famiglia e vendette, portato avanti da un maestro (Orazio Orlando) che sacrifica la vita per accusare il sottosviluppo culturale. La lezione del maestro si conclude affermando che il principale prodotto italiano è la mafia e inserisce uno spaccato drammatico in un soggetto comico. I due amici abbandonano la faida che le famiglie rivali vorrebbero incentivare, dicono di non apprezzare neppure i fichi d’india (simbolo della loro terra), ritrovano la prostituta e questa volta dedicano un sonoro vaffanculo al loro amato sud. Finale qualunquista: “Nord o sud è tutto un casino. Dipende da chi comanda. E in ogni caso, destra o sinistra sono uguali…”. Il soggetto originario era intitolato Fichi d’India, l’avevano scritto Giulio Questi, Franco Arcalli e Giuseppe Bertolucci, ma la sceneggiatura di Luciano Vincenzoni e Sergio Donati fornisce a Steno le armi per fare satira qualunquista su un paese a pezzi, tra scioperi e delinquenza. Commedia di costume allo stato puro, condita di erotismo e momenti piccanti, sostenuta da un’analisi superficiale (è pur sempre una commedia) del contesto sociale a base di scioperi e corruzione.

   Febbre da cavallo (1976) è grande commedia all’italiana recentemente omaggiata dai figli d’arte Enrico e Carlo Vanzina con Febbre da cavallo – La mandrakata (2002). Il film di Steno è interpretato da Luigi Proietti, Enrico Montesano, Catherine Spaak, Mario Carotenuto, Gigi Ballista, Adolfo Celi, Francesco De Rosa, Maria Teresa Albani, Nerina Montagnani, Ennio Antonelli, Renzo Ozzano, Marina Confalone e Alberto Giubilo. La colonna sonora è di Bixio, Frizzi e Tempera. Il tema della pellicola sono le scommesse sulle corse dei cavalli e tutto il film ruota attorno alle vicende di due scommettitori incalliti: Bruno Fioretti detto Madrake (Proietti) e Armandino Felici detto Er Pomata (Montesano). Mandrake ed Er Pomata sono pieni di debiti, vogliono fregare il conte squattrinato De Marchis (Carotenuto) e il suo cavallo brocco Soldatino, per questo cercano di mettere in piedi una solenne fregatura basata sulla somiglianza tra Mandrake e un fantino. Il film è sceneggiato da Steno, Enrico Vanzina e Alfredo Giannetti, su un buon soggetto di Massimo Patrizi. Gli interpreti sono ottimi, le gag riuscite, i tormentoni restano nell’immaginario collettivo anche dopo oltre trent’anni e si ripetono con la solita freschezza. Un film sulla romanità cialtrona d’un tempo, ma anche sui patiti delle corse dei cavalli, sugli scommettitori che non vedono altro che il gioco, in definitiva sull’arte di arrangiarsi. Momenti erotici limitati alla presenza di un’affascinante Catherine Spaak che concede pochissimo alla macchina da presa.

   Tre tigri contro tre tigri (1977) è una commedia sexy a episodi di buon livello firmata da Sergio Corbucci e Steno. Il primo episodio è girato da Steno, gli interpreti sono Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni,  Kirsten Gille, Massimo Boldi, Gabriella Giorgelli e Ugo Bologna. Sceneggiano Pozzetto, Ponzoni ed Enrico Vanzina. Pozzetto è un prete cattolico che ospita un pastore anglicano (Ponzoni) e la bella moglie (Gille) con i prevedibili equivoci erotici del caso. In paese si sparge la voce che il parroco si è portato a letto la bella stangona americana, ma non è vero. In ogni caso i parrocchiani comunisti ci credono, cominciano a stimare il prete e riempiono la chiesa quando celebra messa. Il secondo episodio è girato da Sergio Corbucci, vede tra gli interpreti un’affascinante Dalila Di Lazzaro, Enrico Montesano e Nanni Loy. Molte parti di nudo della Di Lazzaro, finta contessa che abborda un evaso in astinenza come Montesano. Il terzo episodio è ancora di Corbucci, che guida Paolo Villaggio e Anna Mazzamauro in una sceneggiatura firmata Castellano & Pipolo nel consueto personaggio di Fantozzi. L’episodio firmato da Steno è il migliore, ma tutto il film è una gustosa e divertente commedia.

   Doppio delitto (1977) vorrebbe essere un giallo di costume sullo stile de La donna della domenica (1975) di Luigi Comencini ma resta molto lontano dal modello originale. Interpreti: Marcello Mastroianni, Peter Ustinov, Agostina Belli, Ursula Andress, Gianfranco Barra, Mario Scaccia, Jean-Claude Brialy, Giuseppe Anatrelli, Nando Paone e Luigi Zerbinati. A Roma un antennista e un nobile muoiono fulminati. Il commissario Baldassarre (Mastroianni) indaga per capire se è solo un incidente o se si tratta di omicidio. Tra i sospettati ci sono la vedova (Andress), la figlia illegittima (Belli) e un regista squattrinato (Ustinov). La trama è un po’ alla Dieci piccoli indiani di Agata Christie e si basa sul romanzo Doppia morte al Governo Vecchio di Ugo Moretti, sceneggiata da Steno, Age e Scarpelli. Ci sono anche elementi di commedia sexy, perché Ursula Andress viene immortalata in tutta la sua bellezza durante una doccia seminuda. Tutto il resto non è nelle corde di Steno, né il giallo, né il finale a metà strada tra il thriller e l’horror. Ottima l’ambientazione nella Roma anni Settanta, ma non è certo uno dei migliori film di Steno.

   Nel 1978 Steno scopre la bellezza prorompente di Edwige Fenech, chegià nel 1976 aveva interpretato il discusso Cattivi pensieri per la regia di Ugo Tognazzi. Alla fine degli anni Settanta la carriera della bella franco-algerina subisce una brusca sterzata verso la commedia firmata da autori importanti. La Fenech si spoglia sempre meno e prende parte a produzioni di un certo tipo con attori e registi come Steno, Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Alberto Sordi e Bruno Corbucci. Amori miei (1978) rappresenta il primo incontro tra Steno e la Fenech, chiamata a completare un cast di una commedia sexy d’autore composto da Monica Vitti, Johnny Dorelli ed Enrico Maria Salerno. La storia racconta la vita di Anna (Vitti) innamorata di Marco (Dorelli) che colma di attenzioni, mentre lui fa il giornalista e ha poco tempo da dedicarle. Anna si definisce come “una bottiglia di vino sul tavolo di un astemio” e il suo matrimonio è in crisi per troppo amore. Anna frequenta una scuola di psicologia per capire dove sta sbagliando ed è là che si innamora di Antonio, un professore scapolo di mezza età. Anna non si fa l’amante, comportamento che disapprova, ma si costruisce una seconda identità con il nome di Lisa e sposa il professore. Anna-Lisa si inventa un lavoro inesistente a Milano e divide la sua vita tra i due mariti che ama allo stesso modo, la sua esistenza è perfetta adesso che può riversare il suo amore su due persone. Non sbaglia una mossa fino al giorno in cui si accorge di essere incinta e non sa a quale marito attribuire il figlio, dato che neppure le prove sulla sterilità conducono a risultati accettabili. Decide di far conoscere i due uomini e di farli diventare amici ed è a questo punto che comincia una divertente commedia degli equivoci. Antonio e Marco diventano amici al punto di condividere Deborah (Edwige Fenech), una ragazza dai costumi molto facili che Marco frequenta da tempo. La Fenech è molto brava in questa parte da finta oca svampita che nasconde una ragazza intelligente, ma come dice lei stessa “non lo sono mai quando c’è un uomo nelle vicinanze”. Marco presenta Deborah ad Antonio grazie a una serie di diapositive che la ritraggono seminuda e lo spettatore attento può riconoscere in quelle immagini il servizio fotografico di Angelo Frontoni su Edwige Fenech apparso su Playboy. Per Marco le scappatelle con Deborah non sono tradimenti, si tratta di cose senza impegno, salutari iniezioni d’amore che rivitalizzano il rapporto con Anna. La sequenza in cui entra in scena Deborah è l’unica parte sexy del film con la Fenech che si presenta dicendo: “Dovevo portare un’amica, poi mi sono detta che magari bastavo io…”. Quindi si toglie l’impermeabile, mostra un corpo stupendo con curve da sballo fasciate da un costume argentato e comincia una danza sensuale a seno nudo. Anna-Lisa viene tradita dai suoi due mariti in una volta sola e resta interdetta, entrambi gli uomini si giustificano con vecchi discorsi maschilisti tipo: “per un uomo è diverso”, “sono cose senza importanza”… Un vecchio stereotipo cinematografico della commedia all’italiana che vede l’uomo traditore e la moglie vittima. Anna-Lisa diventa amica di Deborah, comprende che la ragazza non è sciocca ma si comporta così solo per sfruttare gli uomini. La Fenech ha i capelli corti rossicci ed è molto sexy con i suoi abiti aderenti e succinti, in una scena la vediamo sdraiata sul letto con le gambe in evidenza, avvolta da una stola di pelliccia. La Fenech deve conferire un po’ di sale a una commedia che si regge sull’equivoco, sino a quando i due mariti si ritrovano in ospedale davanti al letto della moglie. I figli sono due e da come si comportano pare che uno sia figlio di Marco e l’altro di Antonio. Vivranno insieme tutti e tre, felici e contenti. La Fenech chiude la pellicola con una battuta: “Però che donna! Aveva previsto anche questo…”. Amori miei è girato quasi tutto in interni e si nota una struttura più teatrale che cinematografica. Si tratta di una divertente riduzione per il cinema della commedia musicale di Iaia Fiastri dal contenuto vagamente femminista. Monica Vitti prende un David di Donatello per questa interpretazione, ma pure i due attori maschi sono bravi e la Fenech recita con personalità una parte molto spiritosa.

   Dottor Jekill e gentile signora (1979) è un nuovo incontro Steno – Fenech per una commedia sexy che prevede la partecipazione di Paolo Villaggio nel consueto personaggio dell’allupato fantozziano. Si tratta di una parodia piuttosto scontata del racconto di Stevenson che si salva soltanto per la recitazione di Villaggio e per qualche centimetro di pelle esibito dalla Fenech. La sceneggiatura è povera di invenzioni, si basa soltanto su luoghi comuni e battute scontate. Per Marco Giusti “il film è talmente brutto da superare ogni limite del possibile, quindi è quasi un cult”. Il ragionamento è singolare ma non fa una grinza se accettiamo la concezione filosofica di cult al negativo. Da ricordare come esempio di trash pure le musiche di Armando Trovajoli che firma la canzonetta “Mr. Jekill & Mr. Hyde” cantata da un ignoto Mr. Hyde. Ma il massimo del trash si raggiunge in un ignobile e fastidioso finale. Gli operai della fabbrica spruzzata dal siero della bontà cantano: “Siamo tutti bon/ lavoriamo al progetton” e ancora “Il lavoro nobilita l’uomo”. Quando poi tutti gli uomini del mondo sono diventati angelici vediamo gli scioperi al contrario con gli operai che gridano: “Padroni… padroni… siete troppo buoni!” ed esigono settimana lunga, niente ferie e salari ridotti.  Molte le parti sexy con una Fenech in gran forma che viene aggredita più volte dal cattivissimo padrone, nei panni di Jekill, mentre è angelicamente rispettata dal buon Mister Hyde.  

   La patata bollente (1979) è il terzo incontro tra Steno e la Fenech per un film che coglie nel segno, si merita il grande successo di pubblico e una certa attenzione da parte della critica. Il soggetto è di Giorgio Arlorio che lavora alla sceneggiatura insieme a Steno e a Enrico Vanzina. Le musiche molto trash sono di Totò Savio degli Squallor e compongono buona parte della colonna sonora. Renato Pozzetto è l’operaio verniciatore Bernardo Mambelli detto Gandhi, Edwige Fenech è la sua bellissima fidanzata e Massimo Ranieri il gay protagonista della vicenda. Ottimi i comprimari Mario Scarpetta, Clara Colosimo, Adriana Russo, Loris Bazzocchi, Umberto Raho, Giorgio Vignali, Sergio Ciulli e Luca Sportelli.  Il film è importante perché è la prima pellicola comica che affronta una situazione gay senza metterla in ridicolo ma cercando di farci sopra ragionamenti sensati. Niente a che vedere con Il vizietto (1978) di Edouard Molinard con Tognazzi e Serrault dove si scherzava soltanto, pure se lo si faceva bene. Renato Pozzetto è un operaio comunista un po’ tonto che affronta a muso duro sia il padrone che i fascisti prepotenti. Ha una fidanzata molto bella come Edwige Fenech e la sua vita scorre normale tra casa, fabbrica e i ricordi da ex pugile. Un bel giorno si trova a dover difendere Claudio (Ranieri), un gay malmenato dai fascisti, e alla fine lo ospita in casa sua. La pellicola racconta la nascita di un’amicizia profonda tra i due uomini e a un certo punto l’operaio pare preferire il gay alla fidanzata. Quando la notizia si sparge cominciano i problemi per il verniciatore tutto d’un pezzo e vengono fuori i pregiudizi morali della sinistra storica in fatto di sesso. Steno non spinge oltre la situazione, i tempi non sono maturi, ma mostra la reazione di un operaio comunista di fronte alla diversità. Edwige Fenech non è molto nuda, a parte una scena cult dove offre uno striptease per riconquistare il fidanzato perduto. Il tema della diversità è il filo conduttore della storia ma viene fuori pure una certa ironia sul comunismo viscerale dell’operaio medio anni Settanta. Pozzetto dorme con il ritratto di Berlinguer, vince un viaggio a Mosca e torna munito di colbacco e foto di Lenin. Sempre in tema di diversità citiamo la canzone Tango diverso cantata da Tamara. Per Morando Morandini si tratta di “un film civile, onesto, efficace nel prendere di petto il tema dell’omosessualità”. Il film è davvero buono, diverte e fa pensare, la comicità è molto elementare, va incontro ai gusti della platea del sabato sera ma non sconfina nel becero attacco verso i gay. Visto oggi il film fa quasi sorridere, ma va storicizzato per capire che affronta un argomento tabù per certa sinistra storica.

   Fico d’india (1980) merita un trattazione esaustiva perché segna l’incontro tra Steno e un altro mito della commedia sexy come Gloria Guida, inserita finalmente nel cast di una commedia erotica alta. Il 1980 è il solo anno in cui la bella attrice di Merano interpreta una sola pellicola, perché seleziona le offerte che dopo il successo de La liceale (1976) di Michele Massimo Tarantini le arrivano da ogni parte. Un bel salto di qualità per Gloria Guida interpretare un film di Steno dopo aver lavorato con registi pessimi come Narzisi o Liverani.

   Fico d’india si avvale di una sceneggiatura di Sandro Continenza e Raimondo Vianello, ma i dialoghi sono di Steno, Enrico Vanzina e Renato Pozzetto. La fotografia è di Carlo Carlini e il montaggio di Raimondo Crociani. Le scenografie sono di Paola Comencini, i costumi di Silvio Laurenzi e le musiche di Giacomo Chiaramello. Aiuto regista è Massimo Carocci, direttore di produzione Elio Saroli e organizzatore generale Paolo Infascelli. Produttore è Achille Manzotti per Intercontinental Film. Distribuito da Titanus. Interpreti: Renato Pozzetto, Aldo Maccione, Gloria Guida, Daniele Formica, Diego Abatantuono, Licinia Lentini, Luca Sportelli, Angelo Pellegrino, Jimmy il Fenomeno, Daniele Vargas, Nestor Garay, Gianfranco Barra, Dario Ghirardi, Renato Montalbano, Giulio Massimini, Loredana Martinez, Sandro Ghiani.

   Fico d’india è una buona commedia all’italiana diretta con consumata esperienza da Steno, ben recitata dalla coppia Renato Pozzetto – Aldo Maccione, ma che tutti ricordano per la consacrazione di Diego Abatantuono e il personaggio (abbandonato e recentemente riproposto) del terrunciello milanese al cento per cento che qui grida “viulènza viulènza” per tutto il film. Il suo ruolo è quello del capo di una banda di improbabili teppisti che sconvolge la tranquillità di una cittadina. Da ricordare la battuta cult quando dice che il solo dio del gruppo è Little Tony. Non recita molto, appena tre apparizioni, una delle quali durante un incubo del sindaco, ma tanto basta per lanciare il personaggio.

   Il film è ambientato in una cittadina di mare dove Renato Pozzetto svolge funzioni di sindaco e di assicuratore. Come tutti i paesi piccoli il posto pullula di pettegoli che si riuniscono al bar per commentare i pochi avvenimenti interessanti. C’è un giornalista a caccia di scoop (Daniele Formica), un prete chiacchierone, un farmacista che parla in continuazione. A parte il prete, tutti in paese sono cornuti per colpa di un playboy superdotato di nome Ghigo (Aldo Maccione) che adesca le mogli, va a letto con loro e alla fine regala una cernia con una rosa in bocca. Le mogli degli avventori del bar dei pettegoli cucinano spesso la cernia ed è il segno del tradimento. Il sindaco lavora molto, è stressato, non ce la fa più a occuparsi del comune e della sua agenzia di assicurazioni. È duro con gli impiegati, inflessibile nei rapporti con i dipendenti comunali, soprattutto troppo impegnato per prendersi cura della bella moglie (Gloria Guida). La commedia degli equivoci inizia quando la compagnia assicuratrice lo incarica di andare a Milano per ricevere un noto banchiere svizzero. Ghigo aveva già avvicinato Lia, la moglie del sindaco, lasciandole scivolare nella borsa un biglietto con il numero di telefono. Lia telefona a Ghigo e lo rimprovera per quel che ha fatto, ammonendolo a non riprovarci. Ghigo scambia la telefonata per un invito, si precipita a casa del sindaco e con l’inganno finisce nel letto della donna. Il sindaco, vittima di un’aggressione da parte di un gruppo di teppisti, torna a casa prima del previsto e sorprende il playboy. L’inaspettato arrivo provoca una crisi cardiaca a Ghigo che è costretto a letto dal malore. Il sindaco non crede alla spiegazione che fornisce la moglie, è convinto del tradimento, ma soprattutto teme di diventare lo zimbello del paese. Licenzia la cameriera e chiama il fratello medico per curare il malato in gran segreto. Ne viene fuori una spassosa commedia che deriva dalla convivenza forzata tra il playboy e il sindaco. Il sindaco tratta la moglie come una serva per punirla del presunto tradimento. Le voci in paese cominciano a circolare e pure la polizia cerca Ghigo che telefona per rassicurare fingendosi a Taormina. Il prete scopre Ghigo a letto mentre benedice la casa, ma il sindaco lo obbliga al silenzio ricorrendo alla confessione. Infine il giornalista e il commissario irrompono in casa del sindaco e immortalano i due in una posa che farebbe pensare a una tresca omosessuale. In realtà i due sono ubriachi e stanno festeggiando la promozione del sindaco a direttore generale della compagnia assicuratrice. Il merito della promozione è di Ghigo che ha impedito al sindaco di andare a ricevere il finto banchiere svizzero che si è rivelato un truffatore. Alla fine il playboy mette tutti a tacere minacciando di raccontare in giro le vere infedeltà delle mogli di chi sta spettegolando. Ghigo è guarito e torna alla sua attività di cornificatore, solo che adesso regala pernici invece che cernie e l’amicizia con il sindaco diventa forte. Lui ha capito che la moglie non l’ha tradito e che si è trattato di un equivoco. Ghigo riscuote trecento milioni dall’assicurazione del sindaco per l’infortunio cardiaco, compra uno yacht e vanno in vacanza insieme. 

   Il film mette a nudo molti vizi della provincia e del perbenismo piccolo borghese. Al sindaco interessa solo la sua onorabilità e che non si sappia niente in giro, soprattutto per motivi elettorali e di prestigio. I concittadini sparlano ma poi dovrebbero guardare in casa loro, visto che hanno mogli non certo fedeli. La trama sembra presa a prestito da un romanzo di Piero Chiara e il film è una farsa grottesca molto ben sceneggiata.

   Gloria Guida è al massimo della sua bellezza e si presenta al pubblico come una vera attrice sotto la guida di un maestro della commedia italiana. Tra l’altro la vediamo sempre molto vestita e con eleganza. Tailleur bianco con camicetta porpora, abito da casa di seta celeste con pallini bianchi, vestaglia di seta nera, sottoveste lilla, pantaloni bianchi aderenti. Gloria Guida è una vera signora di appena venticinque anni  ma che ne dimostra molti di più, per il modo di vestire e per una pettinatura con messa in piega classica. La vediamo nuda solo in un paio di sequenze voyeuristiche riprese dagli occhi del playboy che è entrato in casa di soppiatto. Si tratta del solito trucco per far immedesimare lo spettatore nella situazione piccante. Aldo Maccione spia la Guida mentre si spoglia e rimane con un completo di pizzo nero prima di passare sotto la doccia. Ebbene sì, pure con Steno una doccia non può mancare, ma è rapida e mostra per due brevi momenti lo stupendo fondoschiena di Gloria Guida. Un’altra scena di nudo parziale si ricorda durante un’irruzione in camera a seno scoperto. Niente di eccezionale, comunque. Gloria Guida dimostra di saper recitare sotto la guida di un maestro: non è doppiata, parla con la sua voce, è sempre credibile e ben calata nella parte. Una delle sue migliori interpretazioni. Sono bravi pure Renato Pozzetto, al massimo della forma comica, e Aldo Maccione, ottimo playboy di paese.

   Quando la coppia scoppia (1981) è una commedia sul tema del tradimento non molto riuscita. Gli interpreti sono bravi: Enrico Montesano, Claude Brasseur, Dalila Di Lazzaro, Lia Tanzi, Gigi Reder, Giorgio Bracardi e Daniela Poggi. Si racconta di un uomo abbandonato dalla moglie (Montesano) e delle sue peripezie per riconquistarla, ma grazie alle confidenze della figlia viene a sapere che sua moglie ha un altro. Il marito affronta il rivale in una scazzottata memorabile, ma alla fine i due uomini diventano amici e lui rinuncia alla moglie per mettersi insieme a un’altra divorziata. Il film non è tra i memorabili di Steno ed è “una variazione incolore sul tema del tradimento” (Mereghetti). Si punta tutto sulla comicità romana di Montesano e sulle grazie di Dalila Di Lazzaro e Daniela Poggi, tra l’altro parcamente esibite.

   Tango della gelosia (1981) è una commedia interpretata da Monica Vitti, Diego Abatantuono, Philippe Leroy, Jenny Tamburi, Tito Leduc e Roberta Lerici. Monica Vitti è la principessa Lucia, trascurata dal marito, finge di ricevere regali e telefonate misteriose, inventa persino avventure sentimentali per ingelosire il marito (Leroy). A un certo punto finge che la guardia del corpo Abatantuono sia il suo amante, tutto pur di risvegliare l’interesse di un distratto coniuge. Il problema è che anche il gorilla pugliese ha una fidanzata gelosa…. Una classica pochade appena un poco aggiornata all’attualità, ma alla base ci sono soltanto equivoci e scambi di coppie. Stefano Vanzina sceneggia insieme al figlio Enrico basandosi sulla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti. Tra i più modesti film di Steno. Non è più commedia di costume, ma commedia frivola, brillante, all’americana, priva di agganci con la realtà. Monica Vitti e Diego Abatantuono sono bravissimi. Erotismo ai minimi sindacali.

   Dio li fa poi li accoppia (1982) è commedia sexy molto leggera ma non troppo divertente. Interpreti: Johnny Dorelli, Marina Suma, Lino Banfi, Giuliana Calandra e Franco Caracciolo. Don Celeste (Dorelli) è un prete di un paesino non identificato del centro Italia che fa innamorare Paola (Suma), al punto che la ragazza durante le feste di Carnevale lo sequestra e lo violenta mascherata da diavolo. Il problema più grave è che la donna resta incinta e “il figlio della colpa” deve avere un padre e una famiglia. Il prete non vuole che Paola abortisca, quindi decide di denunciarla in tribunale: la decisione finale è grottesca perché la donna viene obbligata a sposare il padre del futuro figlio. Molti i doppi sensi e gli equivoci tipici della pochade. Lino Banfi interpreta un gustoso commerciante gay, Johnny Dorelli è bravo nei panni del prete, mentre il fascino mediterraneo di Marina Suma è al massimo dello splendore. Il film è tratto da una commedia di Bernardino Zapponi, sceneggiata insieme a Enrico Vanzina (figlio del regista).  Abbastanza divertente, ma la psicologia dei personaggi è superficiale e le battute ricordano la commedia sexy di serie B.

   Banana Joe (1982) è un film che esula dalla nostra trattazione perché rappresenta un ritorno di Steno alla comicità dedicata ai bambini, semplice e genuina, tipica di Bud Spencer. La storia racconta le vicissitudini di un commerciante di banane che aiuta gli indigeni di una repubblica sudamericana contro una banda di trafficanti di droga. Il film lo scrive addirittura Bud Spencer ed è un trionfo di un personaggio a base di scazzottate e risse. Ta gli interpreti: Gianfranco Barra, Giorgio Bracardi, Enzo Garinei, Mario Scarpetta e Marina Langner.

   Sballato, gasato, completamente fuso (1982) di Steno è una commedia sexy poco riuscita. Stefano Vanzina mette insieme Edwige Fenech, Enrico Maria Salerno, Diego Abatantuono, Mauro Di Francesco e Giorgio Bracardi per impostare un discorso femminista nella redazione di un giornale. Rivisto oggi il film risente del tempo passato, le sole cose memorabili sono le gag di Abatantuono impegnato con il personaggio del terroncello “milanese al cento per cento”. La Fenech è Patrizia Reda, una giornalista di cronaca rosa de La Settimana che si vede affidare dal capo servizio Eugenio Zafferi (Salerno che ironizza su Scalfari) un’inchiesta sui desideri erotici del maschio italiano. In ballo c’è una scommessa singolare: se non riuscirà a portare a termine il lavoro dovrà andare a letto con il capo. Fa parte del gioco pure una giornalista femminista di nome Orietta Fallani, versione comica di Oriana Fallaci, femminista e giornalista d’assalto. Tutto il resto della redazione sono dei comprimari che quando parlano con la Fenech pensano a portarsela a letto e invece di guardarla negli occhi le ammirano il sedere. Patrizia Reda vuole dimostrare che non è vera l’equazione “bella uguale scema” e tenta di far capire al capo che ha un cervello. Lei è una giornalista divorziata che da buona donna in carriera vive sola, ha una segreteria zeppa di messaggi dell’ex marito innamorato e di maniaci sessuali. Edwige Fenech vuole vincere la scommessa, pure se il tassista Abatantuono le fa una corte spietata e a volte le mette i bastoni tra le ruote. Prima le fa saltare un appuntamento con Kissinger, poi la porta in giro per tutta Roma e prova a invitarla a cena per poi andare a letto con lei. Abatantuono è esilarante nelle vesti di un tassista che ha imparato le strade della capitale sulla piantina, ma che in pratica si perde sempre. Memorabili le battute di Abatantuono. A proposito dell’America del Sud e del Nord: “So’ stati uniti? Ma quando? Le due americhe so’ stati uniti?”. Ai cinesi che ostruiscono il passaggio: “Il taxi è giallo da tanti cinesi che ho schiacciato!”. Alla Fenech: “Lei mi lusinga. È molto lusinghiera”. E ancora: “Esigo una spiegazione per lo meno esilarante”. Oppure: “Fisicamente so’ ridotto che sembro lo straccio del benzinaio”. A una suora bruttissima: “Vade retro, Saragat!”. A Salerno: “Duccio è dodecafonico. Faccia smulinare la lingua esce sempre Duccio”. Le battute di Abatantuono sono la sola cosa per cui rivedere la pellicola e le parti recitate sul taxi con la Fenech sono un vero film nel film, tanto risultano avulse dal contesto principale. Notevole il desiderio erotico di Abatantuono che immagina la Fenech vestita da sexy suora davanti a un letto di ospedale. La Fenech improvvisa uno spogliarello, resta in completo intimo bianco e la macchina da presa indugia sulle giarrettiere che cadono. Non si vede altro, ma dobbiamo sottolineare che non esiste attrice erotica italiana che non si sia misurata almeno una volta con la parte della sexy suora. Vedere cosa c’è sotto un vestito da suora (specie se bianco o da novizia) è uno dei desideri erotici più frequenti e inconfessabili degli italiani. Ricordiamo in tal senso le ottime interpretazioni di Gloria Guida e di Laura Antonelli. Al termine del sogno c’è un vero incidente stradale e la Fenech finisce all’ospedale insieme al tassista. Un medico maiale le mette le mani un po’ ovunque, le palpa il seno e rimedia un sonoro ceffone. L’inchiesta della giornalista prosegue e Steno si diverte a ironizzare su Brian De Palma, camuffato da un improbabile Brian De Pino che la Fenech deve intervistare. Ma cita pure Shining (1980) di Stanley Kubrick quando ci mostra il folle De Pino che con la scure sfonda la porta per possedere Edwige Fenech. Più avanti Steno cita addirittura La  corazzata Potëmkin (1926) di Sergej M. Ejzenštejn quando mostra la Fenech in una stupenda mise intima di colore rosso che finisce lungo una scalinata a bordo di una lettiga da ambulanza. Nuova ironia sugli scandali del tempo quando si cita la P2 con la loggia retta da un innominabile Gran Maestro. La parte onirica che presenta l’incubo di Edwige Fenech è confusa ma interessante da un punto di vista erotico. Vediamo la giornalista che sogna di fare la mignotta, viene catturata dalla polizia, sul cellulare il questurino tenta di farsela, finisce sopra una carrozza a cavalli e anche a bordo di una moto, ma le accade la stessa cosa. In un’ambulanza si rende conto che il sogno del malato è quello di andare a letto con lei mentre suona la sirena, mentre i ladri di un grande magazzino le palpano le tette e la vogliono scopare pure se si finge un manichino. Durante il lungo sogno la Fenech esibisce il meglio di sé a base di tette al vento e sedere fasciato da ridottissimi slip rossi. In una breve apparizione di un motociclista coatto (Giggi er monnezzaro) Steno cita la serie del Monnezza interpretata dal grande Tomas Milian. Le avventure erotiche ideali degli italiani perseguitano la Fenech pure in sogno e le conclusioni dell’inchiesta sono che il maschio italiano è sballato, gasato… completamene fuso. Ma quanti luoghi comuni prima di arrivare a ripetere il titolo del film! Il pistolotto femminista è completato degnamente da una serie di banalità sull’uomo italiano sciorinate da Enrico Maria Salerno. Da notare che il direttore vince la scommessa ma rifiuta la Fenech, lui vuole che la ragazza si conceda solo per amore. Alla fine Patrizia Redi diventa famosa rubando un servizio importante a Orietta Fallani, ma il merito è di Abatantuono che provoca un incidente d’auto che coinvolge la famosa giornalista. La Fenech si sposa con il direttore, ma per sdebitarsi con il tassista accetta di fingere di essere sua moglie e di fargli fare bella figura davanti ai suoi compaesani. Abatantuono esagera perché fa recitare una parte da maggiordomo a Enrico Maria Salerno, lo comanda come se fosse un servo e infine palpa le cosce della moglie davanti a tutti. A questo punto viene sbugiardato dal marito e malmenato dai suoi concittadini che si rendono conto dell’inganno. Interessante il finale che presenta il desiderio erotico del direttore. Salerno fa stendere la Fenech completamente nuda sul letto, la ricopre di quotidiani e settimanali, li solleva uno alla volta, commenta ed elimina.  Sul petto della moglie ha messo Stop, ma lui non si ferma. A coprire il sesso (che non vediamo) c’è Topolino. Lo solleva e dice: “Ecco, sarà un desiderio d’infanzia ma io stanotte voglio leggere Topolino”. Abatantuono origlia alla porta e crede davvero che invece di fare l’amore con la Fenech il direttore legga Topolino. “Ecco perché poi scatta la viulenza!”, commenta. E se ne va sconsolato insieme al portiere dell’albergo. 

   Bonnie e Clyde all’italiana (1983)è unatrasposizione farsesca del mito di Bonnie e Clyde in una commedia leggera e povera di felici intuizioni. Il pubblico in ogni caso premia un’insolita coppia, molto gradita per opposti motivi, composta da Paolo Villaggio e Ornella Muti. Altri interpreti: Jean Sorel, Ferdinando Murolo e Antonio Allocca. Bonnie e Clyde all’italiana racconta la storia di Leo Gavazzi, rappresentante di giocattoli in crisi per colpa dei giochi elettronici, e di Rosetta Foschini, ragazza miope e svampita che fa l’annunciatrice ferroviaria. I due frustrati si incontrano per caso durante una rapina in banca e vengono presi come ostaggi dai banditi. Si trasformano in due imbranati Bonnie e Clyde quando si impossessano del bottino e danno vita a una fuga rocambolesca dai malviventi che sono sulle loro tracce. La polizia si serve di loro per catturare la banda, ma il finale è ancora più surreale, perché Bonnie abbandona Clyde, si prende la refurtiva e scappa con il comandante della polizia. Esilissima sceneggiatura basata su un umorismo casereccio e plateale, sostiene Mereghetti. Il pubblico, però, ride molto.

   Mani di fata (1983) è un Renato Pozzetto movie, interpretato anche da Eleonora Giorgi, Sylva Koscina, Maurizio Micheli e Felice Andreasi. Steno ironizza sulla vita di una coppia dove la moglie (Giorgi) fa carriera nel lavoro, mentre il marito è un ingegnere vittima della crisi petrolifera che viene licenziato. Pozzetto si dedica alla casa sostituendo la collaboratrice domestica e intascando il suo stipendio, ma per guadagnare più denaro finisce per impiegarsi come cameriere presso famiglie nobili. Mitica la scena a letto dove si capovolgono i ruoli: la Giorgi legge Capital e studia finanza, lui indossa un pigiama sexy e chiede di essere spogliato.  Siamo nel campo della commedia sofisticata, all’americana, priva di agganci con la realtà e senza elementi sexy. Renato Pozzetto salva la baracca con la sua comicità lunare e strampalata, mai volgare, sempre sopra le righe. Il soggetto di questo film ispira la commedia statunitense Mister Mamma (1983) di Stan Dragoti, interpretato da Michael Keaton, dove vediamo la solita dinamica di un manager licenziato che diventa angelo del focolare, mentre la moglie fa carriera nel lavoro. 

   Mi faccia causa (1984) è una sorta di stanco remake di Un giorno in pretura interpretato da Christian De Sica, Stefania Sandrelli, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Giorgio Bracardi, Franco Fabrizi, Maurisa Laurito e Franco Javarone. Il pretore Pannisi (De Sica) vede sfilare una serie di sfortunati casi umani, piccoli delinquenti e truffatori sui quali è chiamato a decidere con indulgenza. Questo abusato meccanismo mostra la corda sin dalle prime sequenze e dà vita a una prevedibile commedia a episodi che si regge sulla bravura degli interpreti. Stefania Sandrelli rappresenta la componente erotica della pellicola come impiegata statale che arrotonda lo stipendio facendo massaggi molto particolari. Gigi Proietti è un ladro che diventa amico del figlio del derubato, mentre Enrico Montesano è un pugile suonato che stringe amicizia con un cane … Tra i protagonisti della varia umanità incontriamo un disoccupato che tira a campare, un mafioso, due tifosi di calcio, ladruncoli, imbroglioni e falsi testimoni. Non tutti gli sketch sono riusciti. La sceneggiatura è di Enrico Vanzina, ma il film non ha lo smalto del lavoro di riferimento e i collegamenti con l’attualità sono modesti.  

   In questo periodo la televisione assume un ruolo preponderante nella produzione di intrattenimento per famiglie e si sostituisce al vecchio cinema di genere. Steno ne approfitta per girare alcune fiction come Cuori di pietra (1985), L’ombra nera del Vesuvio (1986) e Big Man (1987).

   L’ultimo film di Steno per il cinema – che in pochi vedono – è Animali metropolitani (1987), interpretato da Donald Pleasence, Senta Berger, Ninetto Davoli, Enzo Braschi, Mara Venier, Maurizio Ferrini, Antonello Fassari, Karina Huff, Maurizio Micheli, Leo Gullotta, Antonino Iuorio, Galeazzo Benti e Jimmy il Fenomeno. Un gruppo di antropologi visita Roma per verificare la tesi secondo la quale l’umanità starebbe regredendo allo stato bestiale. Non si tratta di un capolavoro, ma di una serie di macchiette prevedibili, piccole parodie, momenti sexy e un po’ di satira qualunquista. Mara Venier è una marchesa sadomaso molto interessante che conferisce un taglio erotico alla pellicola. Senta Berger è un’altra interprete che ci riporta ai tempi della vera commedia sexy. Ninetto Davoli è un vigile urbano romano un po’ maneggione, Enzo Braschi è una sorta di Rambo dei poveri, e c’è pure Jimmy il Fenomeno nel suo ruolo consueto. Steno fa la parodia degli spot di Fellini ma il soggetto è modesto e il film non decolla. La sceneggiatura è di Steno in collaborazione con il figlio Enrico, ma il film rappresenta un mesto addio al cinema e inaugura una serie di pessime commedie che funesteranno gli anni Novanta.    Stefano Vanzina è stato sposato con Maria Teresa Nati e ha lasciato due figli – entrambi nel mondo del cinema – come lo sceneggiatore Enrico e il regista Carlo, che continuano la sua opera nel campo della commedia all’italiana. Steno muore a Roma il 13 marzo 1988. Nel 2008, vent’anni dopo la sua scomparsa, viene presentato alla Festa del Cinema di Roma il documentario a lui dedicato: Steno, genio gentile.

Mio figlio Nerone (1956) è una sorta di peplum comico con protagonista Alberto Sordi, che mette in evidenza la bellezza giovanile e discinta di Brigitte Bardot (Poppea), ma anche la bravura di Vittorio De Sica (Seneca) e di Gloria Swanson (Agrippina). Le follie di Nerone, il suo amore per il canto, i rapporti con le donne e la presunta codardia vengono messi alla berlina, ma il film delude le attese. Non è un kolossal, come si pensava, ma una semplice commedia, divertente, persino erotica (per i tempi), ma niente di trascendentale. Nerone vive circondato da amici fannulloni, vessato da una madre invadente, consigliato da un furbo Seneca e amato dalla fidanzata Poppea. Gli amici lo illudono di essere un grande cantante e lo esortano a occuparsi di arte invece di governare l’Impero. Agrippina richiama il figlio al dovere e vorrebbe farlo partire per la guerra, cosa che Nerone aborrisce al punto di tentare di liberarsi della madre. Nerone tenta di avvelenare Agrippina ma non ci riesce e finisce per prendersela con i suoi amici, che vorrebbe sterminare, ma Seneca rimedia in extremis. Nerone torna a cantare, organizza orge nel palazzo, con la bella Poppea che fa il bagno nel latte per conservare la pelle morbida. Tenta di far affogare la madre sabotando una nave, ma Agrippina si salva e torna a palazzo per fare un accordo con Seneca e Poppea. La madre promette che Nerone sposerà Poppea se gli amici riusciranno a farlo smettere di cantare. Quando Nerone sente dire che non sa cantare, in preda alla follia, brucia la città, fa fuori Agrippina, Poppea e Seneca. Nel finale vediamo Nerone soddisfatto tra i busti di cemento che immortalano le persone uccise.

Un film che le cronache raccontano di difficile gestazione. Anita Ekberg era la prima scelta per il ruolo di Poppea, ma alla fine si optò per la poco nota Brigitte Bardot, che è di una bellezza conturbante. Tutti la ricordiamo quando fa il bagno nel latte, ma anche in numerose scene dove mostra le lunghe gambe, mentre in un frammento di sequenza si intravede un seno. Gloria Swanson pretendeva attenzione, si dava arie da attrice inglese di gran classe, relegata a un set di attori non internazionali. Steno ebbe il suo bel da fare per convincerla a recitare le battute previste dal copione; si può dire che – visto il suo carattere – fosse perfetta per interpretare la perfida Agripina. Vittorio De Sica si limitò a recitare il suo ruolo, con grande classe, come sempre, senza interferire nella direzione del film. Il ruolo di Seneca gli calza a pennello, soprattutto quando fa sfoggio di abilità oratoria. Alberto Sordi regala un’interpretazione perfetta parodiando un Nerone imbelle, dedito al vizio, un po’ folle, strampalato, bambinone, ossessionato da piccole manie. Un’interpretazione memorabile. Per molto tempo, noi ragazzi degli anni Sessanta, abbiamo avuto in mente il Nerone di Sordi ogni volta che dovevamo fare i conti con il personaggio storico. Il soggetto di Sonego è ironico, farsesco, leggero, pesca dalle leggende e non si cura di rispettare la verità storica, realizzando un ritratto caricaturale dell’Imperatore romano. Fotografia ed effetti speciali sono di Mario Bava: lo spettatore smaliziato se ne rende subito conto dai colori intensi e dai trucchi artigianali.

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella): “Fiacchissimo tentativo  di mettere in farsa le follie di Nerone e i suoi complicati rapporti con le donne. Sordi recita con il pilota automatico, anche quando compone una sinfonia con accompagnamento di maiale, coniglio, capra e gufo; la Swanson pensa evidentemente solo all’ingaggio e la Bardot è sempre tropo vestita”. Morando Morandini (una stella per la critica, tre stelle per il pubblico): “Voleva essere forse una satira: è la più bolsa e scadente delle farse”. Pino Farinotti, controcorrente, concede tre stelle, ma non motiva. Proviamo a farlo noi che siamo dalla sua parte. Il film gode di un’ottima fotografia, una sceneggiatura impeccabile, una recitazione perfetta, ergo il divertimento è assicurato. La critica alta non sopporta la farsa, che, con buona pace di Mereghetti e Morandini, presenta antecedenti nobili, basti pensare alle commedie di Plauto.  Da recuperare.

Regia: Steno (Stefano Vanzina). Soggetto: Rodolfo Sonego. Sceneggiatura: Alesandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra, Rodolfo Sonego, Steno. Fotografia: Mario Bava. Montaggio: Mario Serandrei, Giuliana Attenni. Effetti Speciali: Mario Bava. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Scenografia: Piero Filippone. Costumi: Veniero Colasanti. Produttore: Franco Cristaldi. Case di Produzione: Titanus/ Vides – Les Films Marceau. Distribuzione: Titanus. Durata: 94′. Colore. Produzione: Italia/ Francia. Interpreti: Alberto Sordi (Nerone), Vittorio De Sica (Seneca),Gloria Swanson (Agrippina), Brigitte Bardot (Poppea), Ciccio Barbi (Aniceto), Arturo Bragaglia (senatore), Giorgia Moll (Lidia), Amalia Pellegrini (Acerronia), Amedeo Trilli (soldato), Mino Doro (Corbulone), Giulio Calì (carpentiere), Agnese Dubini (Ugolilla), Memmo Carotenuto (Crepereio), Mimmo Poli (costruttore teatro), Barbara Shelley (ospite), Mario Mazza (Tacito). Doppiatori: Tina Lattanzi (Bardot), Fiorella Betti (Swanson), Luigi Pavese (Barbi), Glauco Onorato (Carotenuto).

I tartassati (1959) è un buon film interpretato da Totò nei panni di un evasore fiscale, in coppia con Aldo Fabrizi, maresciallo di finanza che cerca di incastrarlo. Terzo attore comico, voluto dalla produzione francese, un ottimo Louis De Funés, come consulente fiscale. L’amore che sboccia tra i rispettivi figli (Luciano Marin e Cathia Caro) complicherà le cose, ma servirà a far diventare amici i due rivali. Steno lascia liberi i due comici di scatenarsi in una serie di duetti esilaranti e Totò conferma la predilezione per un regista che lo dirige nei suoi migliori personaggi. I tartassati è un Guardie e ladri (1951) in tono minore, più leggero, in sintonia con i temi del neorealismo rosa e non ancora vera e propria commedia all’italiana. Se nel famoso film del 1951, Totò rubava per necessità, quindi era moralmente giustificato, qui truffa per avidità, non versando all’erario quanto dovuto. I toni sono più leggeri, spesso farseschi, ma Totò è grande nei panni di un laido evasore fiscale che tenta con ogni mezzo di corrompere  il maresciallo. Il personaggio di Aldo Fabrizi è ben delineato da Steno come un uomo povero ma incorruttibile, deciso a fare il suo dovere e a respingere ogni tentativo di amicizia interessata. Ottima anche la parte da neorealismo rosa, l’amore tra i rispettivi figli, che non fa cambiare idea al maresciallo, deciso a multare Totò per le inadempienze. Lieto fine assicurato, con Totò che pare redimersi dopo aver tentato di rubare al maresciallo la borsa con i documenti che lo incastravano. Commedia degli equivoci, malintesi, doppi sensi, comicità tipica di Totò, verbale e fisica, gli ingredienti di un film riuscito ci sono tutti. Oltre a questo c’è una storia che affronta un problema reale, raccontata con garbo e sceneggiata senza punti morti o lungaggini eccessive.

La pellicola vive su momenti di puro teatro comico, presenta dialoghi esilaranti tra Totò e Fabrizi, ma anche molti scambi di battute tra il Principe e De Funès (“Ragioniere, ragioni!”). Totò dice del collega francese: “Il linguaggio della comicità è universale. Ci capiamo bene anche se io non so una parola di francese e lui non conosce l’italiano”.  Il film esce in Francia come Fripouillard et Cie, sempre nel 1959, ma con un montaggio diverso e alcune scene aggiuntive che accentuano la presenza di De Funès, attore molto noto in patria. Vediamo diverse sequenze in galera, dove il consulente fiscale viene condotto dopo essere stato arrestato come bracconiere. Altri paesi dove il film è esportato, nella versione italiana: Portogallo, Brasile, Spagna e Grecia. Incasso notevole (oltre 392 milioni di lire per circa due milioni e mezzo di spettatori), grande successo di pubblico e buona attenzione critica. Una commedia garbata che fa leva su personaggi indovinati per raccontare una piccola storia italiana di ordinaria evasione fiscale. Terzo film interpretato da Totò e Fabrizi insieme, dopo Guardie e ladri (1951) e Una di quelle (1953), diretto dallo stesso Aldo Fabrizi. La coppia Totò – Fabrizi funziona bene come quella Totò – Peppino, anche se i ruoli sono leggermente diversi. La caratteristica di Fabrizi è di essere meno succube (in tutti sensi) di Totò rispetto al collega De Filippo, l’attore romano dà vita a personaggi di forte personalità che non cedono di fronte alla furbizia del comico napoletano. Alcune sequenze del film vengono inserite in un video promozionale del Ministero delle Finanze per convincere gli italiani a pagare le tasse. Tre stelle è il giudizio quasi unanime della critica italiana, a parte Mereghetti che si ferma a due. Da rivedere.

Regia: Steno. Soggetto e Sceneggiatura: Aldo Fabrizi, Roberto Gianviti, Ruggero Maccari, Vittorio Metz, Steno. Fotografia: Marco Scarpelli. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Piero Piccioni. Scenografia: Giorgio Giovannini. Costumi: Ugo Pericoli. Trucco: Marcello Ceccarelli. Produzione: Mario Cecchi Gori per Maxima Film, CEI Incom, Champs – Élysées Productions. Distribuzione: CEI Incom. Interpreti: Totò, Aldo Fabrizi, Ciccio Barbi, Miranda Campo, Anna Campori, Cathia Caro, Louis De Funès, Luciano Marin, Piera Arico, Elena Fabrizi (Sora Lella), Cesare Fantoni, Ignazio Leone, Anna Maria Bottini, Fernard Sardou, Nando Bruno, Jean Bellenger, Gianna Cobelli, Lamberto Antinori, Jacques Dufilho.

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