Mario Monicelli: l’erotismo nella commedia all’italiana

Articolo di Gordiano Lupi

Mario Monicelli (Viareggio, 1915 – Roma, 2010) è un regista fondamentale nell’ambito della commedia all’italiana, un autore che lascia il segno  nel nostro cinema, realizzando una satira feroce e pungente dell’uomo italiano, definito privo di principi e interessato soltanto al suo particolare. Le sue pellicole sono un ritratto del costume nazionale, una sorta di piccola storia italiana degli ultimi cinquant’anni, un itinerario complesso tra vizi e debolezze, visti con lo sguardo mai indulgente, ma severo e perfido, della commedia.

   Mario Monicelli è figlio del critico teatrale e giornalista Tommaso, laureato storia e filosofia, scrive di critica cinematografica, si avvicina al cinema con un primo cortometraggio Cuore rivelatore,cui segue I ragazzi della via Paal (1935), un mediometraggio muto, entrambi girati con il cugino Alberto Mondadori. Il secondo film viene presentato e premiato a Venezia ed è importante come biglietto da visita per cominciare a operare nel cinema che conta. Lavora come aiuto, quindi dirige Pioggia d’estate (1937), il suo primo vero film con lo pseudonimo di Michele Badiek. Dal 1939 al 1949 è aiuto regista e sceneggiatore, collaborando ad almeno quaranta pellicole, molte di buona qualità. I suoi lavori di un certo interesse cominciano dal sodalizio con Steno, che copre il periodo 1949 – 1952, per una serie di otto film comici interpretati da Totò: Al diavolo la celebrità, Totò cerca casa, Vita da cani, È arrivato il cavaliere, Guardie e ladri, Totò e i re di Roma, Totò e le donne e Le infedeli. Ne abbiamo già parlato, sia nel capitolo dedicato a Steno che in quello sulle pellicole di Totò, e in questa sede ci limitiamo a rimandare a tali pagine per un commento esaustivo.

   Il 1953 è l’anno in cui Monicelli decide di mettersi in proprio e di fare sul serio, nel senso che comincia ad affinare una poetica che sarà il filo conduttore dell’intera opera. Abbiamo già dedicato un capitolo di questo libro a Totò e Carolina (1953), quindi non è il caso di soffermarsi oltre. Ricordiamo che Monicelli continua per tutta la vita a scrivere sceneggiature per altri registi, oltre a realizzare in proprio film che rappresentano un’epoca e che si caratterizzano quasi sempre per un grande successo di pubblico. In questa sede faremo una panoramica dei titoli, soffermando la nostra attenzione sui lavori che presentano una tematica vicina alla commedia erotica.

   Negli anni Cinquanta segnaliamo Proibito (1954), un melodramma che adatta al cinema il romanzo La madre di Grazia Deledda e segna il debutto di Lea Massari in vesti molto castigate. Un eroe dei nostri tempi (1955) è il primo incontro Monicelli – Sordi, ma non dimentichiamo la bravissima Franca Valeri, per realizzare un primo acido spaccato dell’Italia pre boom e una sferzante critica alla borghesia. Donatella (1955) è una sceneggiata napoletana che contamina il melodramma e fa un discorso femminista sull’emancipazione della donna. Molto brava Elsa Martinelli, ma nel cast femminile spicca pure Abbe Lane. Padri e figli (1956) è neorealismo rosa, commedia sentimentale nella quale Monicelli fa confluire la sua attenzione alla trasformazione sociale del paese. Il medico e lo stregone (1957) è una buona commedia di costume sull’arretratezza culturale di certe regioni del sud e sull’esigenza di modernizzare il paese. Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni e Marisa Merlini sono gli interpreti principali. I soliti ignoti (1958) rappresenta una tappa fondamentale per il cinema italiano, con Vittorio Gassman per la prima volta calato nei panni di un attore comico, definito dalla critica come la miglior commedia all’italiana di ogni tempo. I personaggi sono tutti azzeccati e gli attori in gran forma, dai veterani Mastroianni, Totò e Gassman, agli esordienti Tiberio Murgia, per finire con una giovanissima Claudia Cardinale. Nel cast femminile troviamo anche Carla Gravina. La grande guerra (1959) è un altro film epocale – Leone d’Oro a Venezia e nomination all’Oscar – interpretato da Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano e Romolo Valli. La commedia all’italiana contamina la tragedia storica, si permette di sbeffeggiare una guerra intoccabile, di raccontare tragedie ed errori della Prima Guerra Mondiale. Risate di gioia (1960) è uno dei film più sottovalutati di Monicelli, ma va citato perché è la sola occasione per vedere recitare insieme due grandi attori come Totò e Anna Magnani. Boccaccio ’70  (1961) si ricorda soprattutto per l’episodio girato da Federico Fellini (Le tentazioni del dottor Antonio), mentre Renzo e Luciana – il segmento di Monicelli – non è molto noto. In alcune copie del film non viene neppure inserito e al Festival di Venezia partecipa una versione mutilata dal contributo del regista. Renzo e Luciana ha come sottotitolo L’avventura di due sposi, che dopo essersi sposati non riescono a vedersi per colpa dei turni di lavoro che si sovrappongono. I compagni (1963) è un film che ottiene due nomination per l’Oscar ma viene osteggiato in Italia perché molto critico nei confronti del boom. Si tratta di un film politico che racconta le vicissitudini di un gruppo di operai che cominciano a prendere coscienza delle loro forze. Tra gli interpreti ricordiamo Marcello Mastroianni, Annie Girardot,  Renato Salvatori, Bernard Blier, Gabriella Giorgelli e persino Raffaella Carrà.

   Alta infedeltà (1964) è una commedia a episodi che comincia ad avvicinarsi alla tematica erotica, forse il primo film firmato da Monicelli che può considerarsi un precursore della commedia sexy. Si compone di quattro storie di corna, vediamo diverse coppie che si tradiscono reciprocamente, ma gli episodi sono sceneggiati a dovere e girati con intelligenza. Scandaloso è firmato da Franco Rossi (Nino Manfredi, Fulvia Franco e John Phillip Law) e racconta i problemi di un marito che diventa l’obiettivo erotico del presunto amante della moglie. Peccato nel pomeriggio è di Elio Petri (Charles Aznavour e Claire Bloom) e stigmatizza il tradimento di una moglie nei confronti del marito. La sospirosa di Luciano Salce (Monica Vitti, Jean-Pierre Cassel e Sergio Fantoni) è su gelosia e tradimento, anche se a tradire alla fine sarà la moglie. Gente moderna è l’episodio di Mario Monicelli (Ugo Tognazzi, Michèle Mercier e Bernard Blier), da un’idea di Cesare Zavattini. Protagonista un commerciante che si gioca il diritto di passare una notte con la moglie e si preoccupa dei pettegolezzi. Michèle Mercier è molto nuda e possiamo dire che anche per merito della sua procace bellezza il film rientra tra le protocommedie erotiche.

   Casanova ’70 (1965)è ancora un film che possiamo classificare come precursore della commedia sexy, anche se per Monicelli pare un lavoro alimentare. Protagonista è Mastroianni nei panni di un comico dongiovanni, un ufficiale della Nato che si eccita in situazioni di pericolo, ma deve vedersela con i mariti gelosi che non si rassegnano a portare le corna. Marco Ferreri (futuro regista) è il più deciso di tutti a vendicare il tradimento della moglie (Marisa Mell) con il bel Casanova, ma finisce ucciso dal trabocchetto architettato per liberarsi del rivale. Un processo farsesco, sceneggiato come un giudizio nordamericano, finisce per assolvere Mastroianni, anche se le vecchie conquiste e i mariti cornuti depongono contro di lui. Persino Marisa Mell accusa il Casanova di omicidio per amore, ma la testimonianza del domestico è determinante e permette di scoprire che il marito fingeva la sordità. Tra gli attori: Marco Ferreri, Bernard Blier ed Enrico Maria Salerno. Nel cast femminile ricordiamo le affascinanti Michèle Mercier, Marisa Mell, Beba Loncar, Margaret Lee, Virna Lisi, Rosemary Dexter, Liana e Moira Orfei. Margaret Lee ricopre un ruolo di secondo piano ma si lascia ammirare distesa sul letto completamente nuda, anche se per pochi secondi, vista la solerte censura del tempo. I fotografi di scena vanno a nozze, approfittano delle sequenze per immortalarle a futura memoria e per vendere le foto a tutti i giornali. Moira Orfei è la prostituta pugliese giudicata una iettatrice e riceve i clienti in un trullo mascherata da pedicure. Virna Lisi è la fidanzata di Altamura che sposa Mastroianni, pure lei concede alcune sequenze sexy, soprattutto alla fine della pellicola quando si muove nel letto in attesa del marito che per eccitarsi vuole entrare dalla finestra. Bravo Enrico Maria Salerno quando in tribunale si lascia andare a una filippica contro le donne che gli costa il ricovero in ospedale psichiatrico, nonostante la sua professione di psichiatra..

Casanova ’70 è strutturato come un film a episodi, girato in Puglia (Conversano, Alberobello, Locorotondo, Turi, Monopoli, Polignano a Mare, Altamura) e ricostruito in studio o in finti esterni per quel che riguarda le parti ambientate a Venezia e Milano. Molto interessante il clima da film gotico che Monicelli costruisce a casa del ricco marito veneto che si finge sordo e tenta di uccidere Mastroianni. Un’insolita commistione tra commedia e horror, anche se la pellicola è caratterizzata soprattutto da un blando erotismo, tra languidi baci, carezze, avance e tanghi rubati. Molta malizia ma anche tanti luoghi comuni sul gallismo italiano e sulla gelosia meridionale. Una nomination per il Premio Oscar 1966 come miglior sceneggiatura originale. Vince il Festival di San Sebastián come miglior regia e miglior interpretazione (Mastroianni). Soggetto e sceneggiatura di Tonino Guerra, Mario Monicelli, Giorgio Salvioni, Suso Cecchi D’Amico, Age & Scarpelli. Fotografia di Aldo Tonti, montaggio di Ruggero Mastroianni, musiche di Franco Bassi e Armando Trovajoli. Produce Carlo Ponti.

   L’armata Brancaleone (1965) è uno dei migliori film di Mario Monicelli, originale e divertente, anche perché si tratta di una commedia all’italiana di ambientazione storica. Interpreti: Vittorio Gassman, Carlo Pisacane, Catherine Spaak, Gian Maria Volontè, Enrico Maria Salerno, Barbara Steele, Folco Lulli, Maria Grazia Buccella, Ugo Fangareggi, Pippo Starnazza e Fulvia Franco. Brancaleone da Norcia (un irresistibile Gassman) e l’ebreo Abacuc (Pisacane) guidano un gruppo di sbandati tra mille avventure e stranissime peripezie che si concludono con l’arrivo in Terra Santa. Il film contempla interessanti momenti da commedia erotica negli episodi che mostrano le voglie di una vedova e il salvataggio di una vergine dai briganti. Uno dei film più belli del cinema popolare, grande incasso, titolo e canzonetta di testa che restano nella storia. L’idea di un dialetto inventato, a metà strada tra il latino maccheronico e il viterbese, è geniale. La rivisitazione storica in chiave nazionalpopolare conferisce alla pellicola un valore assoluto. Nel cast femminile spiccano le bellezze di Barbara Steele, Maria Grazia Buccella e Catherine Spaak. Le fate (1966) è girato in collaborazione con Antonio Pietrangeli, Luciano Salce e Mauro Bolognini. Monicelli firma Fata Armenia con la bellissima Claudia Cardinale che ridicolizza un ingenuo medico della mutua (Gastone Moschin). La tematica erotica è presente in tutti gli episodi, ma ne abbiamo già parlato nel capitolo dedicato ad Antonio Pietrangeli. Capriccio all’italiana (1968) è un altro film collettivo che vede Monicelli girare l’episodio La bambinaia con Silvana Mangano, ed è stato già analizzato trattando la filmografia di Steno. La ragazza con la pistola (1968) è il film che lancia Monica Vitti come attrice comica, dopo la felice esperienza drammatica con Michelangelo Antonioni. Commedia all’italiana pura che racconta le vicissitudini di una siciliana sedotta e abbandonata a caccia di vendetta nella metropoli londinese. Film che anticipa la lotta per l’emancipazione femminile e molte commedie post 1968, ma che mostra la corda per una fiacca prevedibilità. L’antagonista maschile è un buon Carlo Giuffrè, adatto al ruolo. Nomination all’Oscar come miglior film straniero. Toh, è morta la nonna (1969) è una farsa nera che si ricorda come il film di minor successo di Monicelli, ma contiene elementi che saranno sviluppati in seguito nella poetica del regista. Per Monicelli gli uomini sono sciocchi e avidi, mentre la famiglia è un’istituzione da abbattere. Quasi un’anticipazione di Parenti serpenti. Tra gli interpreti ricordiamo l’affascinante Carole André, ma anche la notevole Valentina Cortese e il bel Ray Lovelock.

   Brancaleone alle crociate (1970) tenta di bissare il successo de L’armata Brancaleone, ma non ci riesce, anche se il film ha molti estimatori che lo preferiscono al primo episodio della serie. Buon cast: Stefania Sandrelli come giovane strega e Beba Loncar nei panni di una bella principessa alzano il tasso di erotismo rispetto alla pellicola originale. Tra gli attori maschi citiamo un grande Vittorio Gassman, Adolfo Celi, Sandro Dori, Gigi Proietti, Gianrico Tedeschi, Lino Toffolo, Paolo Villaggio e Shel Shapiro. Il film ha il limite di ripetere aspetti e situazioni già viste in precedenza senza grandi elementi di originalità. Le coppie (1970) è un’altra commedia a episodi girata in collaborazione da Mario Monicelli, Alberto Sordi e Vittorio De Sica. Il frigorifero (Enzo Jannacci e Monica Vitti) è l’episodio firmato da Monicelli per stigmatizzare la civiltà dei consumi tramite due poveri immigrati sardi che farebbero qualsiasi cosa pur di pagare le rate di un gigantesco (e inutile) frigorifero. La moglie arriva persino a prostituirsi. Molto bravo Jannacci come venditore sardo di castagnaccio. Gli altri episodi sono meno interessanti ma ne abbiamo già parlato a proposito di Vittorio De Sica. La mortadella (1971) è una farsa sugli Stati Uniti visti dagli italiani, interpretata da Sophia Loren, Gigi Proietti, Danny De Vito, Susan Sarandon e William Dewane. La trovata di una grossa mortadella che blocca una ragazza napoletana alla dogana di New York è surreale. 12 dicembre – Documento sulla morte di Giuseppe Pianelli (1971) è un documentario che ai nostri fini non riveste interesse. Vogliamo i colonnelli (1973) è una commedia grottesca interpretata da Ugo Tognazzi, che mostra intenzioni di satira politica, ispirate al fallito golpe De Lorenzo. Ne parliamo in una scheda dedicata.

   Romanzo popolare (1974) è commedia all’italiana dagli interessanti risvolti erotici, interpretata da una giovanissima Ornella Muti nei panni dell’operaia Vincenzina, che deve restare incinta per dovere di copione e – vista la situazione – la bella attrice italiana non deve ricorrere al trucco. Si ricorda la colonna sonora scritta da Enzo Jannacci, basata sul tema della canzone Vincenzina e la fabbrica. Jannacci e Beppe Viola sono consulenti ai dialoghi e il loro contributo è importante per il dialetto meneghino. Romanzo popolare è un dramma della gelosia interpretato da un grande Ugo Tognazzi e un giovanissimo Michele Placido. Tognazzi è Giulio Basletti, un metalmeccanico milanese che rinuncia alla vita da scapolo per sposare la bella Ornella Muti (Vincenzina), una ragazza meridionale molto più giovane di lui. In questa situazione si inserisce il tradimento della ragazza e il rapporto con un poliziotto meridionale interpretato da Michele Placido. Film intelligente che analizza il modificarsi del rapporto uomo – donna e il problema della classe operaia unito alla migrazione da nord a sud. Il successo dell’opera di Monicelli è tale da trasformare Ornella Muti in una diva di prima grandezza ricercata dai migliori registi del mondo.

   Amici miei (1975) è una commedia simbolo del nostro cinema anni Settanta. Silvia Dionisio è l’elemento sexy della pellicola, perché interpreta una parte breve ma intensa nei panni della spregiudicata Titti, giovane amante bisessuale dello squattrinato conte Mascetti (Ugo Tognazzi), e non perde occasione per mostrarsi senza veli. Ricordiamo alcune sequenze sul letto completamente nuda e quando vaga per le case degli amici dove il conte si rifugia per sfuggire alla moglie. Silvia Dionisio è doppiata in toscano e forse la sequenza più vicina alla commedia sexy è quando Tognazzi la scopre ad amoreggiare con una provocante bionda. “Sei l’unico uomo della mia vita”, le aveva detto. Ed era vero, perché l’altro amore era una donna. Per parlare a dovere della saga Amici miei servirebbe un libro (ed è stato già fatto!), ma in questa sede ci limiteremo a dire che si tratta del racconto delle zingarate di un gruppo di cinquantenni che passa il tempo organizzando scherzi e burle ai danni di amici. Il tentativo è quello di esorcizzare la vecchiaia e la morte che in ogni caso procedono ineluttabili. L’idea è di Pietro Germi, ma la realizza Monicelli dopo la morte del grande regista. L’azione si svolge a Firenze, mentre nel progetto originale si parlava di Bologna. Gli attori sono bravissimi: Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Duilio Del Prete, Adolfo Celi, Bernard Blier, Milena Vukotic, Olga Karlatos. Piero De Bernardi, Leo Benvenuti e Tullio Pinelli sceneggiano uno dei film più importanti del periodo storico. Nei capitoli successivi – e meno riusciti – della serie troviamo Renzo Montagnani al posto di Duilio Del Prete. Nel primo film Renzo Montagnani è la voce fiorentina di Philippe Noiret che interpreta il giornalista Perotti. Amici miei è il testamento della commedia all’italiana, una pellicola intelligente e trasgressiva, capace di descrivere con cura il senso di amarezza e insoddisfazione che pervade la vita. La pellicola è percorsa da una velata tristezza e la musica di Carlo Rustichelli sottolinea bene il tono malinconico del vagare senza meta di amici che non vorrebbero accettare il passare del tempo. Ugo Tognazzi (il conte Mascetti) è un conte spiantato che ha dilapidato due patrimoni, Philippe Noiret (il giornalista Perotti) un irresponsabile eterno bambino che si fa criticare dal figlio e ha mollato la moglie, Moschin (l’architetto Melandri) un innamorato della vita e delle donne che perde facilmente la testa, Duilio Del Prete (il Necchi – negli altri episodi sarà Montagnani) un barista trasgressivo che compie scherzi atroci e Adolfo Celi (il Sassaroli) un chirurgo che antepone il piacere della zingarata al dovere delle operazioni. Il chirurgo si unisce al gruppo al termine di una zingarata finita con un incidente, perché gli amici si ricoverano nel suo ospedale facendo impazzire monache e inservienti. Il Melandri si innamora della moglie del Sassaroli, deve prendersi in casa il pacchetto completo di cane e figlie, oltre a invitare a cena il sarcastico chirurgo che lo critica per il modesto tenore di vita. Gli amici si riuniscono e mollano le donne: “Come si sta bene tra noi uomini. Ma perché non siamo nati tutti finocchi?”, dice Tognazzi. Bernard Blier è molto bravo nei panni di un cliente tirchio che non paga le consumazioni al bar del Necchi. La zingarata ai suoi danni è un atroce scherzo che cita il cinema noir e il poliziesco all’italiana. La tristezza aleggia sul film quando terminano le zingarate: “È come l’amore quando non c’è: inutile continuare. È stata una bella giornata, chissà quando ne capiterà un’altra…”. La morte di Noiret è un tocco di poesia comica, muore il personaggio che si comportava da ragazzino per non invecchiare, per esorcizzare l’incombente presenza della morte. “Levatevi dai coglioni, che devo morire”, mormora. Il giornalista prende in giro anche il prete al momento dell’estrema unzione e si fa beffe della morte con lo scherzo della supercazzora. “Ma è morto davvero?” si chiede un incredulo conte Mascetti. I quattro amici al funerale sono il degno finale di un grande film, quando si ritrovano a scherzare durante il trasporto della salma con l’inconsapevole Bernard Blier, proprio come avrebbe voluto il defunto. Il regista inquadra le loro espressioni che compongono un mix di commozione e divertimento. Alcune trovate linguistiche sono entrate nel parlare comune: zingarata, come se fosse antani, supercazzora…e resta indimenticabile la scena degli schiaffoni ai passeggeri di un treno alla stazione di Firenze. Aiuto regista è il giovane Carlo Vanzina. David di Donatello nel 1975. Mario Monicelli gira Amici miei – Atto II (1982), ma si rifiuta di girare Amici miei – Atto III (1985), che passa nelle mani del bravo Nanni Loy, perché ritiene ormai esaurito l’argomento. Pensare che nel 2011 Neri Parenti ha girato l’inutile prequel Amici miei – come tutto ebbe inizio.

   Tralasciamo il documentario Il silenzio è complicità (1976) e diciamo solo due parole su Caro Michele (1976), un film intimista e riflessivo, tratto dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg, improntato sulla figura di una giovane ribelle interpretata da Mariangela Melato e sul cambiamento della nostra società dopo il 1968. Signore e signori buonanotte (1976) è una pellicola che abbiamo già analizzato parlando di Luigi Magni. Un borghese piccolo piccolo (1977) è un Sordi movie, già trattato parlando dell’attore romano, un lavoro insolitamente drammatico che non presenta elementi di commedia.  I nuovi mostri (1977) è un film a episodi di cui abbiamo già parlato, girato da Ettore Scola, Dino Risi e Mario Monicelli. Elementi erotici vengono dalla partecipazione di Ornella Muti nell’episodio Autostop girato da Monicelli, dove la bella attrice romana nei panni di una sexy autostoppista subisce pesanti attenzioni di Eros Pagni e finisce uccisa per aver resistito. Ornella Muti è protagonista anche di Senza parole di Dino Risi, come sensuale hostess sedotta da un terrorista che le lascia una bomba nell’aereo. Per il resto molti critici dicono che il film segna la fine della commedia all’italiana, ma in ogni caso mette in campo il meglio dei suoi protagonisti: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Un film a scopo benefico, fatto per pagare le cure mediche allo sceneggiatore Ugo Guerra, gravemente ammalato.

   Viaggio con Anita (1978) è un film grottesco che calca la mano sull’umorismo nero, pensato da Tullio Pinelli come seguito de La dolce vita (1960) di Federico Fellini. Gli interpreti principali sono Giancarlo Giannini, Goldie Hawn e Claudine Auger. La tematica erotica è presente, perché il protagonista (Giannini) amoreggia con una turista americana (Hawn) durante il viaggio per recarsi ai funerali del padre. Viene scoperto dai familiari, ma lui non si scompone, mette in piazza alcuni torbidi segreti del padre e svela le ipocrisie piccolo borghesi della famiglia. Temporale Rosy (1980) è una commedia sofisticata poco apprezzata in Italia, interpretata da Gerard Depardieu e Faith Minton. La storia racconta le vicissitudini di un ex pugile che s’innamora di una campionessa di catch femminile, Temporale Rosy, ma la gelosia rovina il loro rapporto. La donna si unisce al suo allenatore, ma dopo alcuni anni i due si ritrovano, ripensano ai tempi passati e si sposano. Monicelli è bravo a ricostruire un mondo di perdenti con toni poetici e crepuscolari.  Camera d’albergo (1981) è una satira sul mondo del cinema che colpisce duro su registi, critici, morale e logica commerciale. Molto bravi gli interpreti: Vittorio Gassman, Monica Vitti, Enrico Montesano, Gianni Agus, Ida Di Benedetto, Nestor Garay e Daniele Formica. La storia racconta di tre cinefili che vorrebbero girare un grande film, un’opera d’arte che dovrebbe restare nella storia del cinema, e alla fine incontrano un produttore cialtrone (Gassman) e finiscono per girare una sorta di pellicola sui vizi erotici con una macchina da presa nascosta in una camera d’albergo. Il marchese del Grillo (1981) è un film ambientato nel 1809 che serve a Monicelli per raccontare vizi e difetti della Roma papalina, sulle orme di Luigi Magni, ma soprattutto la pellicola vede Alberto Sordi nei panni del mattatore. Grande successo di pubblico, ma ai nostri fini niente di erotico.

   Amici miei – Atto II (1982) cerca di bissare il successo del primo capitolo e ci riesce in termini di pubblico, ma la storia è più debole e le trovate sono meno originali. In ogni caso è una commedia velata di soffusa amarezza, come ogni vera commedia all’italiana, dove si ride ma pensando ai grandi problemi della vita e gli scherzi servono a esorcizzare la paura della morte. Monicelli dà il via alle danze citando l’inimitabile primo capitolo e la scena degli schiaffi alla stazione di Santa Maria Novella. Il giornalista (Noiret) è morto e i superstiti (Tognazzi, Montagnani, Moschin e Celi) si ritrovano sulla sua tomba a ricordare scherzi e zingarate. Il primo tragico scherzo è al cimitero dove il serioso medico Adolfo Celi fa disperare un vedovo inconsolabile (Alessandro Haber) facendogli credere di aver avuto una storia con sua moglie. Gli amici ricordano Noiret, la sua amante moglie del fornaio, i problemi con il figlio e la separazione dalla consorte, ma mettono in burla pure la tragica alluvione di Firenze (scene d’epoca). Memorabile lo scherzo ai cardinali con il coro dei finti madrigalisti che cantano “Mavaffanzum, oh bucaiola, tu mi tradisci…” invece di un inno sacro. Non è da meno la zingarata alla Torre di Pisa pericolante con i turisti costretti a sorreggerla con ogni mezzo. Gli avventori del ristorante gestito da Renzo Montagnani e signora si vedono rubare le macchine fotografiche che servono a immortalare sederi e membri virili come foto ricordo. Molti gli scherzi memorabili. Gastone Moschin si converte per amore e viene preso a sassate dagli amici mentre recita la parte di Cristo durante la processione del venerdì santo. Non meno ilare la sequenza del battesimo che finisce con i tre amici ad affogare il compagno nel fonte battesimale. Milena Vukotic è la moglie di Tognazzi che vorrebbe suicidarsi ma il gas è finito. Altra amarezza quando la figlia handicappata partorisce un figlio e non si trova il padre. Un minimo di commedia sexy è costituito dal rapporto tra il conte Mascetti (Tognazzi) e una contorsionista che porta il nobile decaduto a indebitarsi con uno strozzino (Paolo Stoppa). Lo strozzino è oggetto di atroci scherzi di carattere medico, pure se è un osso duro e non molla sul denaro che deve avere. Il personaggio del conte Mascetti è intriso di grande umanità, vive di ricordi nobiliari ma è un povero spiantato. Alla fine è colto da ictus e finisce in sedia a rotelle, ma gli amici lo sostengono e non lo lasciano solo. Il film è amaro, l’ironia e il sarcasmo che lo pervadono sono atroci e senza speranza. Monicelli pare voler affermare che la vita va presa alla leggera perché non è una cosa seria, l’amicizia e l’autoironia sono la sola cosa che conta. “Sono sempre stato inutile, questo è vero, ma prima ero libero!” esclama Tognazzi ridotto in sedia a rotelle dopo aver subito l’ictus. “I quattro poveri bischeri”, nonostante tutto, restano ancora uniti e gli amici tifano per lui che corre spingendo la carrozzina durante le olimpiadi dei paraplegici.  

      Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) è un tentativo poco riuscito di sfruttare la formula di Brancaleone, ma la storia non è il massimo dell’originalità, anche perché sul tema in passato sono uscite altre pellicole. Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Lello Arena si danno da fare ma la comicità è stanca e le battute sono fiacche. Un altro film che non presenta collegamenti con la commedia erotica è Le due vite di Mattia Pascal (1985), interpretato da Marcello Mastroianni, Laura Morante, Bernard Blier e Senta Berger. Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello arriva sul grande schermo, impersonato da un bravissimo Mastroianni gran seduttore di donne. Monicelli se la cava anche come regista televisivo, perché cura la versione da 150’ per il piccolo schermo. Speriamo che sia femmina (1986) è un gran bel film, forse uno dei migliori dei grigi anni Ottanta, molto femminista, a tratti crepuscolare, amaro, persino cattivo nei confronti dei personaggi maschili. Le donne sono il nucleo portante della famiglia, le sole che restano a tirare avanti la baracca con grande coraggio. La morale del film è che le donne possono farcela anche da sole e che gli uomini non servono a molto, se non a fare imbrogli. Il finale spiega il titolo, perché tra le donne che restano sole nella grande casa di campagna una è incinta. Visti i presupposti tutte sperano che il nuovo arrivato sia femmina… Il soggetto è di Tullio Pinelli, sceneggiato da Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico e Monicelli. Stupende musiche di Nicola Piovani, grande fotografia di Camillo Bazzoni. Sette David di Donatello e tre Nastri d’argento. Grandi interpreti: Liv Ullmann, Philippe Noiret, Giuliana De Sio, Lucrezia Lante della Rovere, Stefania Sandrelli, Paolo Hendel, Catherine Deneuve, Bernard Blier, Giuliano Gemma, Athina Cenci, Carlo Moni e Ron. I picari (1987) è un film storico ambientato nella Spagna del 1600 e interpretato da Giancarlo Giannini, Giuliana De Sio, Enrico Montesano, Vittorio Gassman, Bernard Blier, Nino Manfredi, Bianca Marsillach, Paolo Hendel e Vittorio Caprioli. Monicelli racconta la storia di due vagabondi che incontrano una prostituta e vivono di espedienti. Giuliana De Sio è bella e prosperosa nei panni della donna di strada che si unisce ai picari. Monicelli cerca ancora una volta di ritrovare la forma di Brancaleone, ma anche questo film non è epocale. Ai nostri fini notiamo alcuni elementi di erotismo e il tentativo di riportare in auge la commedia all’italiana in una cornice storica artefatta. La moglie ingenua e il marito malato (1988) è un nuovo lavoro per la televisione che esula dalla nostra trattazione. Il male oscuro (1990) è il romanzo di Giuseppe Berto portato al cinema che presenta un approfondimento per immagini del male di vivere, somatizzato da protagonista in una serie di malanni immaginari per colpa di un rapporto irrisolto con il padre. Il film presenta momenti di buona commedia all’italiana e i protagonisti sono bravi. Tra tutti spiccano Giancarlo Giannini e Stefania Sandrelli, ma non sono da meno Vittorio Caprioli e Rocco Papaleo.  Rossini! Rossini! (1991) è un noioso film storico sulla vita del compositore e soprattutto sugli amori del passato. Philippe Noiret è il protagonista assoluto, ma sono importanti anche Jacqueline Bisset, Sergio Castellitto, Sabine Azéma, Giorgio Gaber e Assumpta Serna. Bel cast femminile.

   Nel 1991, alla Mostra del Cinema di Venezia, Mario Monicelli riceve il Leone alla Carriera, vera e propria consacrazione per un autore che ha dato molto alla commedia all’italiana con stile dissacrante e amaro, a tratti persino cattivo e corrosivo.

   Parenti serpenti (1992) è il film più importante di Mario Monicelli nel corso degli anni Novanta e gli dedichiamo un capitolo a parte, perché contiene molti elementi di commedia erotica.

   Cari fottutissimi amici (1994) è scritto da Rodolfo Angelico, sceneggiato da Suso Cecchi D’Amico, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Mario Monicelli. La fotografia è di Tonino Nardi, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le musiche sono di Renzo Arbore (consulente per i pezzi d’epoca) e Alessandro Mannozzi. Interpreti: Paolo Villaggio, Paolo Hendel, Massimo Ceccherini, Beatrice Macola, Novello Novelli, Antonella Ponziani, Eva Grimaldi, Elijan Raynard Childs, Vittorio Benedetti, Stefano Davanzati, Giuseppe Oppedisano, Sergio Pierattini, Marco Graziani, Alessandro Paci. Cari fottutissimi amici è commedia all’italiana di buon livello, anche se parte della critica stronca senza appello uno degli ultimi lavori di Mario Monicelli. Siamo nel 1944, in una Toscana appena liberata, dove l’ex pugile Dieci (Villaggio) compone una sorta di Armata Brancaleone pugilistica che si sposta da una città all’altra per combattere sul ring. Il prezzo pagato per incontri, spesso combinati, in gran parte farseschi, sono generi alimentari, vestiti e prodotti di prima necessità. La fortuna dello sgangherato gruppetto consiste nell’incontrare gli americani che in cambio di una serata pugilistica riempiono il camion dei disperati di ogni ben di Dio. Villaggio è molto bravo come capo gruppo che raduna attorno a sé una serie di persone disposte a tutto pur di sopravvivere, recita una parte da vero attore e non da caratterista. La frase simbolo del film viene affidata addirittura a Cecchierini che nel finale ricorda il passato, dice che erano tempi diversi, non solo perché aveva vent’anni, infine aggiunge: “Forse è vero che sopravvivere è meglio di vivere”. Ottima l’ambientazione nella Toscana del 1944 con gli americani che stanno liberando la penisola, i partigiani che danno la caccia ai fascisti e la gente che cerca di sbarcare il lunario. Grande ricostruzione d’epoca tra casolari abbandonati, linee ferroviarie dissestate, camionette distrutte che arrancano a fatica per le colline senesi bruciate dal sole. Molto bravo Ruggero Mastroianni al montaggio e ottima la fotografia di Tonino Nardi. Indispensabile la consulenza musicale di Renzo Arbore che compone una colonna sonora a base di gustosi brani d’epoca. Tutto è recitato in un convincente vernacolo toscano, a parte Villaggio che parla genovese, ma il personaggio glielo consente. Molto bravi Ceccherini, Novelli ed Hendel, perfettamente a loro agio con i personaggi interpretati. Non abbiamo più visto un Ceccherini così diligente e disciplinato. Un vero attore comico. Belle presenze femminili come Eva Grimaldi, Beatrice Macola e Antonella Ponziani. Da citare alcuni frangenti indimenticabili: la pisciata in compagnia (persino il cane e una ragazza vestita da uomo che si nasconde dai partigiani), il commento sarcastico sulla Coca Cola che sa di petrolio e di ascella (“Lo vedi è una purga, c’è scritto Caca Cola!”), l’interprete siciliano che conosce l’inglese, la scoperta della minestra in polvere che portano gli americani, lo scherzo dei partigiani che mettono in scena una finta fucilazione. Al campo americano tutto finisce in rissa, ma il regista fa in tempo a ricostruire la presenza di cibo in scatola, gomma da masticare, hamburger, hot dog, latte in polvere, cioccolata e altre prelibatezze ignote agli italiani. Un film on the road, stile Amici miei e L’armata Brancaleone, che parla di amicizia, guerra, amore, tradimenti e voglia di sopravvivere, con delicatezza e poesia. Ottima la sceneggiatura, scritta da professionisti come Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti e De Bernardi, priva di tempi morti e ricca di suspense, senza pecche la regia. Il film per Monicelli si dovrebbe intitolare Bazza di vetro o Dieci, ma la produzione opta per Cari fottutissimi amici. Paolo Mereghetti distrugge il lavoro di Moncelli concedendo una sola stella: “Tutto già visto. Commedia stanca, senza idee nuove, indulgente e nostalgica. Un road movie picaresco che è l’ennesimo ritratto dell’Italia strapaesana, retta dall’incrollabile arte di arrangiarsi e osservata con l’occhio falso-cinico-grottesco dell’ex commedia all’italiana riciclata”. Per fortuna Morando Morandini concede due stelle e mezzo: “Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando”. Nella mia analisi spero di essere stato più chiaro e diretto di Morandini ma la sostanza è che al colto critico il film è piaciuto. Pino Farinotti arriva a tre stelle: “Monicelli firma un film molto particolare e originale, sfortunato al botteghino. Bravo Paolo Villaggio”. Non dice molto, tanti aggettivi a sproposito, ma promuove il lavoro di Monicelli. Da rivalutare.

   La carriera di Monicelli prosegue The Royal Affair (1995) – film che non possiede un’edizione italiana – e Facciamo paradiso (1995), interpretato da Margherita Buy, Lello Arena e Moni Ovadia. Facciamo paradiso racconta la vita di Claudia Bertelli, una femminista milanese di estrazione borghese che sposa un medico e diventa suora mistica. Il film è tratto da un racconto di Pontiggia, ma il suo tentativo di aggiornare la commedia all’italiana non va a buon fine. Esercizi di stile (1996) è un film a episodi di cui abbiamo già parlato nel capitolo dedicato a Luigi Magni. Monicelli gira il segmento Idillio edile, che racconta la corte di un muratore alla figlia del capomastro. Un omaggio a Raymond Queneau. I corti italiani (1997) è un film a episodi che vede Monicelli all’opera per Topi d’appartamento.

   Panni sporchi (1999) è di nuovo un film interessante interpretato da Mariangela Melato, Michele Placido, Paolo Bonacelli, Gigi Proietti, Alesandro Haber, Ornella Muti, Kassandra Voyagis, Marina Confalone, Pia Velsi, Gianfranco Barra, Benedetta Mazzini, Francesco Guzzo, Angelo Orlando e Gianni Morandi. Il film racconta la crisi della famiglia inseguendo fatti di cronaca e cercando di fare satira sul cambiamento dei costumi. Monicelli racconta l’Italia che cambia con la cattiveria necessaria, fa un discorso interessante sulla pubblicità invasiva, sui matrimoni di interesse e su un certo tipo di delinquenza che proviene dall’est. Non tocca i livelli di poesia di Parenti serpenti e di altre opere più celebrate, ma confeziona un film elegante e sincero. Ornella Muti ricopre un ruolo limitato come amante di Michele Placido, figlio dell’industriale Paolo Bonacelli, che cerca di salvare dalla distruzione l’azienda del padre, ridotta in briciole dalla megalomania di un nipote cocainomane. Molto bravi Luigi Proietti nei panni di un professore gay lasciato dal fidanzato e Mariangela Melato come moglie isterica e madre poco presente di due figli disadattati. Alessandro Haber è la pecora nera, l’artista della famiglia che vive di espedienti, emette assegni a vuoto e alla fine si suicida per disperazione. Monicelli è bravo a mettere in scena lo scontro generazionale, la caduta dei valori, la miscredenza dei giovani che seguono satanismo e culti esoterici ma rifiutano il cristianesimo. Da buon maestro della commedia all’italiana, cita persino la pochade e le comiche del muto con un intermezzo di torte in faccia durante il matrimonio del nipote megalomane. Alla fine un gruppo di albanesi diventa padrone dell’azienda, perché il figlio intellettuale prima di morire ha sposato un’albanese parente di mafiosi. Non resta che una soluzione: dare fuoco a tutto e ripartire da zero. 

   Fare cinema è sempre più difficile e Mario Monicelli si rifugia nel documentario: Un amico magico: il maestro Nino Rota (1999), Un altro mondo è possibile (2001), La primavera del 2002 (2002), Lettere dalla Palestina (2002), Firenze, il nostro domani (2003). Tutti girati in collaborazione, fatta eccezione per il ricordo del compositore Nino Rota. Le rose del deserto (2006) è l’ultimo lungometraggio interpretato da Giorgio Pasotti, Alessandro Haber, Michele Placido, Fulvio Falzarano, Moran  Atias, Claudio Bigagli, Tatti Sanguineti, Nicola Acunzio, Roberto D’Addario, Nicola De Summa, Francesco Guzzo e Paolo Lombardi. Monicelli ha novantuno anni quando decide di adattare Il deserto di Libia di Mario Tobino e Guerra di Albania di Giancarlo Fusco per ricavarne un film che è il suo testamento spirituale. Monicelli racconta la Seconda Guerra Mondiale partendo dalle piccole storie di vita quotidiana, narrando l’inefficienza e i problemi che tormentano i nostri soldati. Tutti vogliono tornare a casa prima possibile, ma la realtà sarà ben diversa e consegnerà alla storia momenti di quotidiano eroismo. Mario Monicelli conclude una lunga carriera con due cortometraggi che citiamo per completezza: il documentario Vicino al Colosseo… c’è Monti (2008) e la breve fiction La nuova armata Brancaleone (2010). Mario Monicelli, da tempo gravemente malato, muore suicida il 29 novembre 2010, gettandosi dal quinto piano del reparto urologia del San Giovanni di Roma.

   Gianni Canova scrive di Mario Monicelli: “Autore eclettico, capace di passare dall’acre sarcasmo della commedia al registro malinconico del dramma intimista, dal farsesco intriso di acide notazioni sociali alla ricostruzione storica lucidamente e criticamente partecipe, con le sue oltre cinquanta regie e con un numero imprecisato di lavori televisivi e teatrali sa rispecchiare e interpretare come pochi altri autori gli slanci, le contraddizioni e i cambiamenti dell’Italia moderna” (fonte: Garzantina Cinema).    Gian Piero Brunetta aggiunge: “Mario Monicelli appare come un regista poco propenso a subire imposizioni produttive. Regista dotato di mobilità narrativa e malleabilità stilistica, riesce a dominare tutti i registri e a passare con semplicità e sicurezza dai toni alti dell’epos, al grottesco e alla farsa. In lui la curiosità e il gusto per le intersezioni tra petite histoire e grande storia è un valore distintivo che ne accompagna tutta l’attività sin dagli anni Sessanta. Non rimane mai prigioniero di una formula vincente, ma concepisce ogni nuovo film come esperienza a sé stante”. (fonte: Storia delcinema italiano).

Regia di Mario Monicelli. Soggetto e Sceneggiatura: Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli, Mario Monicelli. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musiche: Carlo Rustichelli. Fotografia: Alberto Spagnoli. Produttori: Pio Angeletti e Adriano De Micheli. Interpreti: Ugo Tognazzi, Carla Tatò, Duilio Del Prete, Antonino Faà di Bruno, Giancarlo Fusco, Giuseppe Maffioli, Camillo Milli, François Périer, Pino Zac, Lino Puglisi, Claude Dauphin, Pietro Tordi, Vincenzo Falanga e Luciano Catenacci.

Mario Monicelli si dedica alla satira politica, superficiale quanto si vuole e a tratti ai limiti della farsa, ma ispirata a eventi reali e decisamente critica verso il sistema di potere democristiano.

Ugo Tognazzi è l’onorevole Giuseppe Tritoni, ex generale dell’esercito, nostalgico fascista eletto nel collegio di Livorno, che abbandona il partito e si mette a capo di una banda di cialtroni decisi a compiere un colpo di Stato per restaurare ordine e disciplina. La scintilla che spinge a muoversi i gruppi eversivi è un attentato a Milano, eseguito da un gruppo di estrema sinistra, che vede come bersaglio il Duomo e la statua della Madonnina. Tognazzi è bravissimo, recita in livornese come se fosse toscano, confonde il vernacolo fiorentino con quello della provincia labronica, ma non è un problema. Perfetta la sua interpretazione da capo golpista tutto d’un pezzo, grande scopatore e combattente coraggioso che deve portare la croce di un figlio studioso e poco incline alla lotta. Il film è condotto come se fosse un reportage giornalistico, procede per immagini sotto forma di diario degli eventi e analizza i fatti con lo stile di un documentario politico. Carla Tatò è un’ottima attrice di teatro, alla seconda prova cinematografica dopo Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio, che nel film ha un ruolo sexy molto interessante. È Marcella Bassi Lega, figlia di un generale che muore d’infarto perché la scopre a far l’amore con Tritoni, è l’amante per niente fedele del capo golpista. La castigata parte erotica della pellicola è nelle sue mani, perché spesso la vediamo in atteggiamenti intimi con l’amante di turno. Molto suggestivo un valzer lento sulle note di Vecchio scarpone di Gino Latilla. ballato dalla Tatò e da Tognazzi dopo l’ennesimo tradimento. La figlia del generale è un’amante focosa, ma ha il difetto non da poco di darla via con grande facilità e di far l’amore nei luoghi più impensati.

Monicelli fa satira graffiante sulla situazione politica italiana e immagina un gruppo di nostalgici fascisti che vogliono riprendere il potere. Non era difficile, perché nel nostro paese c’erano stati il tentato golpe De Lorenzo (1969) e il comico progetto eversivo del principe Junio Valerio Borghese (1970). Il regista e gli sceneggiatori utilizzano resoconti di stampa (soprattutto L’Espresso) per costruire nei dettagli più ridicoli il tentato golpe neofascista. Tritoni recluta generali in pensione, giovani arditi, persone di destra e qualunquisti, preparati a base di vecchi discorsi del duce e addestrati alla dottrina della disuguaglianza. “Soltanto i coglioni sono uguali!”, “Dobbiamo distruggere un mostro chiamato democrazia!”, grida Tognazzi al colmo dell’euforia. Il programma di governo è retrogrado e populista, alla base di tutto ci sono ordine e disciplina, ma anche ordine e potere. Per questo il piano eversivo prende il nome di Orpo, che è una sigla ma pure un’imprecazione popolare.  Slogan fascisti inneggiano ai colonnelli, perché il riferimento temporale più vicino è il golpe militare in Grecia che portò al potere l’estrema destra. Il ridicolo colpo di Stato prende il via dal Piano Volpe Nera, prevede un attacco alla Rai, agli obiettivi strategici e alla residenza del Presidente della Repubblica. Il motto dei cialtroni non può che guardare indietro: “C’è un grande passato nel nostro futuro”, dicono. Alcuni generali rimbambiti lo dicono al contrario e provocano l’effetto comico. Le truppe golpiste sbarcano e commettono errori su errori: i paracaduti finiscono in una stalla, alcuni militi si perdono nel buio dello Stadio Flaminio e catturano il custode, un commando giunge alla Rai quando i programmi sono finiti ed è inutile trasmettere comunicati perché i televisori sono spenti. La polizia arresta tutti e fa irruzione nella residenza del Presidente della Repubblica fermando definitivamente il commendo golpista. L’onorevole Tritoni viene arrestato a casa della sua donna, nascosto sotto il letto, ma non può sostenere che ha passato la notte con lei, perché dall’armadio esce un amante. Un golpe pagliacciata finisce nel nulla, ma il Ministro degli Interni (Lino Puglisi) ne approfitta per dare una sterzata eversiva al paese. La vera satira politica di Monicelli è tutta nel finale amaro, tipico della sua poetica senza speranza. I golpisti nostalgici servono come giustificazione al potere democristiano per stringere i freni e invocare misure eccezionali per riportare l’ordine. Il Presidente della Repubblica muore d’infarto (come accadde ad Antonio Segni nel 1964) e lascia il posto a un governo di transizione voluto dalla grande destra che arriva a proibire le riunioni al bar come adunate sediziose e a limitare il diritto di sciopero. Tognazzi finisce a tentare di vendere il suo progetto eversivo a due esponenti di destra di un giovane Stato africano. Non ci riuscirà.

Il film è girato a Roma e negli studi di Cinecittà. Aiuto regista è un nome che sarà importante nella nuova commedia all’italiana: Carlo Vanzina. Tra gli attori ricordiamo Camillo Milli, caratterista interessante della commedia sexy, utilizzato nei panni dello stratega di un piano che fallisce su tutta la linea. Il disegnatore satirico Pino Zac (lo ricordiamo ne Il Male) è un pararazzo che fotografa i golpisti, li denuncia, ma non viene creduto dal ministro e in compenso prende un sacco di botte dai fascisti. Lo scrittore Giancarlo Fusco è il golpista sardo Gavino Furas, mentre Antonino di Faà di Bruno è un generale piemontese in pensione. Duilio Del Prete è un Monsignor Sartorello che non disdegna le belle donne.

Vogliamo i colonnelli è un lavoro di fantapolitica, ispirato alla realtà italiana, critico, farsesco, ironico, ancora divertente e utile come documento per capire un periodo difficile della nostra storia costituzionale.

Regia: Mario Monicelli. Soggetto: Carmine Amoroso. Sceneggiatura: Carmine Amoroso, Suso Cecchi d’Amico, Piero De Bernardi e Mario Monicelli. Fotografia: Franco Di Giacomo. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musica: Rudy De Cesaris. Scenografia: Franco Velchi. Costumi: Lina Nerli Taviani. Effetti: Paolo Ricci. Interpreti: Marina Confalone, Pia Velsi, Paolo Panelli, Cinzia Leone, Alessandro Haber, Monica Scattini, Eugenio Masciari, Tommaso Bianco, Renato Cecchetto, Riccardo Scontrini ed Eleonora Alberti. 

   Parenti serpenti è un film che ha il torto di uscire nei primi anni Novanta, un periodo di crisi nera per il cinema italiano, ma si segnala per il grande mestiere che Mario Monicelli mette nelle sue opere. 

   Il regista gira la pellicola a Sulmona, contraddicendo la volontà del soggettista Carmine Amoroso che aveva ambientato la storia a Lanciano, ispirandosi ai suoi pranzi familiari durante le festività natalizie. Sulmona ha tutto per rappresentare i vizi della provincia ed è perfetta come location che contiene in poche centinaia di metri la casa dove si svolge l’azione, la chiesa e la piazza centrale.

   Il film si sviluppa seguendo la voce narrante di un bambino che racconta un Natale a casa dei nonni, forse il Natale più nero del cinema italiano. Paolo Panelli è nonno Saverio, un ex carabiniere rincoglionito, mentre Pia Velsi è nonna Trieste, donna in gamba che prepara il pranzo di Natale e ospita le famiglie dei figli.

   I gruppi familiari che si riuniscono sono quattro: Lina (Marina Confalone) con il marito Michele (Tommaso Bianco), geometra a Teramo, e il figlio Mauro (Riccardo Scontrini, voce narrante). Milena (Monica Scattini) e Filippo (Renato Cecchetto), una coppia stressata che non può avere figli. Gina (Cinzia Leone), moglie un po’ puttana dell’impiegato Alessandro (Eugenio Massari), che hanno come figlia Monica (Eleonora Alberti), aspirante ballerina. A complicare le cose si scoprirà che Gina – donna dal passato molto chiacchierato – ha una relazione segreta con Michele, marito di Lina. Alfredo (Alessandro Haber) completa il quadro, come single omosessuale, professore di italiano in un istituto femminile che convive con un vigilantes.

   La trama comincia secondo i canoni della commedia all’italiana che racconta vizi e difetti dei protagonisti, ma si conclude come un noir ironico e imprevedibile. Nonna Trieste chiede ai figli di prendersi cura di loro in cambio della casa, scatenando una guerra tra parenti durante la quale nessuno è disposto ad accogliere in casa i genitori. Alla fine si troveranno uniti nel proposito di sbarazzarsi dei vecchi con una stufa a gas manomessa. La voce narrante del bambino legge il tema scolastico sulle vacanze, rivelando il crimine quando scrive che la stufa non era vecchia e difettosa, ma nuova e regalata dai parenti.

   La pellicola gode di un’ottima ambientazione provinciale, la storia si sviluppa con ritmi teatrali in un Natale nevoso e freddo, tra dialoghi sulla politica e ricordi del passato. “Il muro è crollato. Chi vi difende più?”, è una frase inserita in un dialogo che ricorda la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo. Monicelli si sofferma sulle caratteristiche tipiche del Natale in famiglia, tra alberi da addobbare, dialoghi senza importanza, donne che parlano di matrimoni e malattie, uomini che si dedicano alla politica e al calcio. Non manca la processione da seguire in silenzio e al buio, prima del bacio ai genitori, anteprima del pranzo di Vigilia. La televisione comincia a essere una presenza ingombrante, leitmotiv borbottante che fa da sottofondo ai dialoghi dei protagonisti e condiziona le cose da dire. È un vecchio discorso felliniano (La voce della luna, Ginger e Fred) che Monicelli dimostra di condividere. Alfredo – il più intellettuale – cita George Bernard Shaw (“Le cose buone della vita sono immorali o fanno ingrassare”) e la zia Gina ribatte: “Carina. Chi l’ha detto?”. Le frasi fatte sono all’ordine del giorno, cose come “Tenersi per mano e darsi tanto amore”, ma c’è chi afferma che “Siamo dei replicanti: sposarsi, mettere al mondo dei bambini…”. Il Natale di provincia è fatto di palle di neve, pupazzi, partite a carte tra uomini, pettegolezzi e tombolate. Il rito si completa con la messa di mezzanotte dove tutti sono elegantissimi, ma ognuno spettegola sul conto dell’altro.

   Monicelli descrive bene i personaggi, amalgama con mestiere un cast composito e affiatato, costruisce un film corale dove ogni scena è studiata nei minimi particolari. Niente è lasciato al caso, soprattutto le presenze secondarie e i personaggi che si muovono sullo sfondo. Monica Scattini è brava nella parte di Milena, una nevrotica che non può avere figli. Alessandro Haber è un ottimo gay intellettuale che imita le gemelle Kessler e rivela la sua natura solo quando non può farne a meno. Panelli è un credibile nonno rincoglionito, al suo ultimo lungometraggio cinematografico, visto che dopo farà solo due serie di Pazza famiglia per la televisione. Pia Velsi è una buona caratterista che proviene dalla scuola del teatro napoletano e si mette in luce come comica di varietà. I due vecchi sono i soli personaggi positivi del film, capaci di credere ancora in una famiglia che medita come liberarsi di loro. Marina Confalone è un’attrice di teatro che debutta con Eduardo De Filippo, si afferma nel cinema come coprotagonista e spalla di comici (Sordi, Villaggio, Panelli…), spesso diretta da grandi registi come Steno, Nanni Loy e Mario Monicelli. Cinzia Leone è ben calata nella parte e anche lei vanta un passato teatrale di tutto rispetto, ma pure Monica Scattini non è da meno. Riccardo Scontrini è il narratore, un bambino che racconta lo sfacelo in maniera asettica.

   Il film è molto teatrale, quasi tutto girato in interni, graffiante, caustico, cattivo, non lascia un barlume di speranza. Monicelli rappresenta una famiglia come un’armata (e in questo ricorda L’armata Brancaleone), parla di vecchiaia e critica i rapporti tra genitori e figli. Parenti serpenti è un film cult, anche se non convince la critica contemporanea che lo definisce “un bozzetto grottesco dal ritmo fiacco e dotato di una sceneggiatura debitrice di Cupo tramonto” (Paolo Mereghetti). Il pubblico premia la pellicola soltanto nelle varie edizioni Home Video, perché scompare presto dalle sale, poco distribuita e vittima della crisi cinematografica degli anni Novanta. Parenti serpenti fotografa bene la cinica realtà di provincia, mette in scena la crisi della famiglia e – secondo una lezione ormai consolidata – aggiunge elementi tragici alla commedia.

   Mario Monicelli è un regista autore di grandi successi nazionalpopolari, ma la definizione va intesa secondo la lezione di Antonio Gramsci, non certo quella di Pippo Baudo. La sua opera è un patrimonio culturale che ci rappresenta tutti, perché realizzata dall’artista meno provinciale del cinema italiano.

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