Un anno di Coronavirus: tra chiusure e speranza per una nuova rinascita

Articolo di Cesare Natoli

Esprimere un giudizio sul 2020 è sin troppo facile. Scontato, direi. È stato un anno orribile, segnato dall’arrivo  della Sars-CoV-2 e da tutto quello che essa ha comportato: morte, lutti, sofferenza, crisi democratica ed economica. Qualcuno tra i più superstiziosi lo aveva detto, si dirà: anno bisestile, palindromo, e così via. Per altri, più attenti alla dimensione convenzionale del calendario, si è trattato solo di 366 giorni senza una particolare valenza specifica.

Di fatto, oggettivamente, sono stati dodici mesi molto difficili, per tutti. Ne abbiamo ricevuto una lezione, o qualcosa di positivo che possa comunque restare anche per tempi migliori? Non lo so, francamente. Anzi, sono scettico, in proposito. E lo sono perché credo che la caratteristica più evidente dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle sia stata davvero qualcosa di diabolico, nel senso etimologico del termine. La parola diavolo, infatti, deriva dal verbo greco διαβάλλω (diabàllo) che significa separare, dividere, porre barriera, porre frattura. Ecco, penso che la cosa peggiore del 2020 sia stata la divisione.

Da quando sono apparsi i primi segni dell’epidemia ci si è subito divisi. Securitaristi e libertari, omologati e complottisti, impanicati e negazionisti, restacasisti e untori. Termini  in gran parte odiosi e fuori luogo ma sdoganati dai media prima e dai social poi con disarmante quanto nauseante facilità. Molte amicizie, o presunte tali, si sono rotte, tanti rapporti incrinati, numerosi sodalizi finiti. E sulle ceneri di tali rotture si sono innescate dinamiche perverse, che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano il confronto pubblico sulla pandemia. Prendiamo, ad esempio, l’ultima della coppia di opposti citata. Potremmo chiamarla anche restacasisti/c’ètroppagenteingiro.

In tale contrapposizione artificiale, il mezzo – restare a casa – si è trasformato in fine e se ne è impossessata la maggioranza. Tanto è vero che chiunque ha provato – e prova – a sollevare anche il minimo dubbio sulla gestione securitaria è venuto e viene automaticamente messo nel calderone dei cattivi e degli incoscienti. Riproponendo così, in piccolo, il meccanismo della character assassination, ossia della uccisione metaforica del personaggio da contestare, reo di essere, semplicemente, una voci fuori dal coro. Del resto, calunniare e denigrare rientrano perfettamente nel contesto semantico del verbo termine diabàllo e nel quadro concettuale del diabolico.

Ora, chiariamo: tutto questo è colpa del virus? Credo di no. Certo, la Storia delle pandemie ci racconta di fenomeni simili avvenuti anche secoli fa. Nel nostro caso però, nel nostro disgraziatissimo 2020 si è trattato di qualcosa di diverso. Il terreno era pronto, concimato, fertilizzato. Venivamo da almeno tre decenni di vuoto culturale, riduzione di un sano approccio complesso alla realtà, pericoloso abbassamento della soglia critica del cittadino medio. Occorreva solo qualcosa che scatenasse la crescita. O, per usare un’altra metafora presa a prestito da Schopenhauer, che squarciasse il velo di Maya dell’ipocrisia e mettesse a nudo un’essenza tutt’altro che benevola delle relazioni sociali.

In particolare, si è trattato e si tratta, probabilmente, di un’ennesima filiazione del nucleo ideologico stesso del populismo (cui non sono sfuggiti nemmeno coloro che, a parole e per altre questioni, ne prendono le distanze), in cui primeggia il bisogno quasi feroce di dividere i buoni dai cattivi. Un manicheismo à la page, insomma, condito da una buona dose di politically correct. Il tutto prontamente sfruttato da volgari demagoghi in cerca di consenso, tra chi governa e amministra (magari, per nascondere anche le proprie responsabilità) e da una stampa altrettanto giulivamente pronta ad assecondarlo e alimentarlo.

Ecco, credo che la cifra dominante del 2020, da punto di vista sociale, sia stata questa. E, ripeto, sono molto scettico sul fatto che da tale quadro delle relazioni umane si esca tanto facilmente. Tuttavia, voglio chiudere questa riflessione con una nota di ottimismo. Se è vero che molti rapporti si sono chiusi lo è altrettanto che altri sono nati. E che sono nati proprio grazie a nuove convergenze e consonanze sugli aspetti legati alle conseguenze sociali e antropologiche della pandemia. Consonanze preziose, in alcuni casi salvifiche, che spesso hanno lenito sofferenze e dolori dell’anima.

Il mio augurio per il 2021, allora, è quello di vivere queste nuove relazioni all’insegna della verità, della trasparenza e della schiettezza. Solo così, forse, avremo ricevuto una buona lezione dal virus.

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