Quella letteratura che è fatta di vita e non solo di parole: Intervista a Frank Iodice, autore de “La città del cordoglio”

Articolo di Redazione

Quella letteratura che è fatta di vita e non solo di parole: Intervista a Frank Iodice, autore de “La città del cordoglio”

Nato a Napoli, l’otto febbraio 1982, è scrittore e traduttore. A vent’anni è partito per gli Stati Uniti, dove ha svolto i lavori più disparati. Ha pubblicato numerosi romanzi e racconti, tradotti in diverse lingue e adottati in programmi di letteratura italiana presso due università statunitensi. Tra i più importanti, ricordiamo: Le api di ghiaccio, Un perfetto idiota, La meccanica dei sentimenti, Matroneum, I disinnamorati. Dopo tanti anni a Nizza – città protagonista di gran parte delle sue opere – Frank si è trasferito ad Annecy (Francia) con la sua famiglia. È un autore molto discreto, espatriato quasi per tradizione familiare, figlio e nipote di emigranti in Venezuela nel dopoguerra, esule dal dibattito pubblico italiano e piuttosto anticonformista, a cominciare dal fatto che non è presente sui social network. Abbiamo parlato con lui del significato che dà al suo lavoro in occasione del lancio del nuovo libro, La città del cordoglio, ambientato a Napoli, in uscita per Eretica Edizioni.

Leggendo la tua biografia sul tuo sito sembra di trovarsi di fronte a uno dei tuoi personaggi, antieroi senza una patria, dal passato avventuroso e pieno di interrogativi irrisolti. Ma dove finisce l’opera e dove inizia la vita?

«In quanto tempo hai scritto Sulla strada? chiese Steve Allen a Jack Kerouac. Tre settimane. E quanto tempo hai vissuto tu sulla strada? Sette anni, rispose Kerouac… Ho paura che la risposta alla tua domanda non esista. Se esistesse, smantellerebbe metà della letteratura mondiale. Sono convinto infatti che la letteratura sia necessariamente fatta di vita e non solo di parole. Da lettore, amo circondarmi di libri “unici”, come li definisce Roberto Calasso, quei libri dove “si riconosce subito che all’autore è accaduto qualcosa, e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto”. Ieri ho riletto, forse per la terza volta, Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo. Davanti a un romanzo del genere, hai la sensazione che il protagonista, Rico, sia davvero esistito. Poi alla fine, in una nota dell’autore, scopri che per scrivere quel libro si è basato su riviste, giornali e opere incentrate sullo stesso argomento. E allora capisci che un pezzettino di Rico è vissuto in ognuno di quei documenti prima che Izzo lo ricostruisse nel suo romanzo. La vita che costituisce il lavoro letterario non è mai una sola, è sempre un miscuglio di tante vite. Forse è per questo che quando leggiamo ci sentiamo meno soli, comprendiamo meglio la nostra solitudine».

Quando avevi vent’anni sei partito per gli States, poi la Francia, e non sei più tornato. Prendi in considerazione un giorno di rientrare in Italia?

«È stata la scelta più facile. Sarebbe stato più difficile restare. Forse, se in futuro mia figlia esprimesse il desiderio di andare a vivere in Italia, Eleonora ed io troveremmo il modo per tornare scegliendo il meglio che il nostro paese avrà da offrirle. Per ora siamo felici qui. Adesso viviamo ad Annecy, non c’è il mare ma c’è un lago bellissimo».

In quale genere letterario si potrebbero inserire i tuoi romanzi?

«Non saprei dirti, sono tutti molto diversi l’uno dall’altro. La mia scrittura trae spunto dalla vita, se ne serve, ne fa materiale di ricerca. Poi investiga, scava, si pone domande profonde e universali, che restano necessariamente in sospeso. Lavoro molto sui ricordi, investigo le ossessioni e le sconfitte, che mi servono per costruire un percorso dal male al bene. Credo che i miei libri appartengano alla narrativa non di genere, ma naturalmente è solo una mia opinione».

In Matroneum la tua voce è completamente diversa, traspare una ricerca all’interno dell’universo femminile. Approfondisci il pensiero, i sentimenti e il linguaggio della protagonista immedesimandoti nella narratrice.

«La prima figura femminile della mia vita, mia madre, mi ha insegnato la costanza. Mia madre rimaneva in piedi fino alle due di notte per scrivere le sue lunghe relazioni mediche. Me le leggeva ad alta voce, le correggeva e le ricorreggeva, scriveva su fogli A4 che numerava in un angolino con le lettere, a, b, c, d… Non sapeva scrivere bene, o meglio, non in maniera creativa, era molto tecnica, ma efficace, scriveva come un medico. Io la ascoltavo e le suggerivo qualche correzione per quanto ne capissi a quell’età. In realtà in quegli anni mi stavo appassionando al mestiere di scrivere. Intanto, di giorno, mi convincevo che fosse mio padre a trasmettermi questa passione. Mio padre faceva il giornalista, passava intere giornate alla macchina da scrivere, a casa o in redazione. La verità è che con lui stavo acquisendo le tecniche della scrittura, stavo imparando a scrivere. (Sto ancora imparando, beninteso!) Ma senza l’esempio del sacrificio di mia madre non me ne sarei fatto nulla. Sono riuscito a fare certe scelte estreme, certe rinunce, e a dare alla scrittura il rispetto che merita, solo grazie a quella costanza ereditata da mia madre. Il fatto di aver appreso qualcosa di così importante per il mio mestiere grazie a quella romantica quanto involontaria scambievolezza tra mia madre e mio padre, mi ha insegnato a considerare la figura della donna come centrale in tutto ciò che scrivo. Mi sono calato nei panni di Camilla Faà, una dama di corte vissuta quattro secoli fa, investigando il suo linguaggio e il suo modo di pensare. Camilla è stata un esempio di coraggio irriverente. Si è ribellata alla società del suo tempo, per certi versi simile a quelle attuali… La sua storia mi ha appassionato molto, credo che sia stato questo coinvolgimento il motore scatenante della scrittura al femminile. Ma non è stato facile, non saprò mai se ci sono riuscito».

Nel nuovo romanzo, La città del cordoglio, parli della tua Napoli. In che modo?

«Ho descritto quei luoghi appartenenti alle memorie di famiglia, ormai sopravvissuti solo nei miei sogni, molti spariti o totalmente cambiati oggi. Infatti, il romanzo è ambientato tra gli Anni ’50 e gli Anni ’90. Napoli è la città in cui sono nato e alla quale sono particolarmente legato. Ciò la rendeva nel mio immaginario una figura lontana eppure familiare. È stato come parlare di una donna misteriosa che avevo visto solo una volta, da bambino, e mi sembrava di conoscere intimamente. Gli italiani sparsi in giro per il mondo da tutta la vita mi capiranno. A loro non ho bisogno di dare spiegazioni. Chi invece non ha avuto la vigliaccheria di partire come ho fatto io, rimarrà forse disorientato nel vedere questa città ritratta in maniera un po’ particolare. La mia Napoli è poco poetica rispetto alla retorica romantica che la dipinge come la patria della pizza e del mandolino. Allo stesso tempo, non è così cruenta e hollywoodiana come la interpreta certa fiction. È una Napoli dell’insofferenza spirituale di tante persone escluse, incomprese, schiacciate dalla coltre di nebbia del successo spietato e del riscatto sociale che offusca la mente della maggior parte di noi. Una città ancora capace di provare sentimenti come la pietà, la compassione, l’empatia che ho cercato di analizzare. Il libro ruota intorno al concetto di ereditarietà della colpa. Si chiede fino a che punto le colpe dei genitori riescano a rovinare la vita dei figli. E trova una possibile spiegazione nell’elaborazione di una certa forma di perdono. Ninetto Cordoglio, detto Ninù, è nato e cresciuto nel Real Albergo dei Poveri. Si salva dalla miseria per qualche anno lavorando a bordo di navi cargo. Un giorno riceve la notizia della morte di entrambi i genitori ed è costretto a tornare a casa. In quel momento inizia la sua storia, una storia di oppressione e liberazione, che è anche la storia di Napoli».

Chi è in realtà Ninetto Cordoglio?

«Ninù incarna le paure che ci tormentano e ci tengono svegli, i sensi di colpa tramandati di generazione in generazione. Come gli dice a un certo punto il vecchio Bidello, Ninù ringhia ma non sa contro chi sta ringhiando, perché in fondo è arrabbiato solo con se stesso, come tanti arrabbiati. Anche lui è un antieroe, ruba, picchia, beve, e si chiede di continuo il perché. Il perché del silenzio, il perché dell’abbandono, della violenza, persino il perché dell’amore. Il suo compito è di farci calare nei suoi panni per chiederci come reagiremmo se capitasse a noi tutto il male capitato a lui. Il suo passato, se non giustifica, spiega le sue azioni. È una storia costruita su due binari paralleli, l’infanzia e l’età adulta, la memoria e il presente, che si alternano in ogni pagina e s’incontrano solo nell’epilogo».

Eretica Edizioni è molto attenta ai dettagli, ha una bella linea editoriale e si distingue nella moltitudine di altre realtà. Come sei riuscito a farti pubblicare?

«È un’ottima casa editrice perché è determinata e sa dove vuole arrivare. Ho inviato un’e-mail col manoscritto de La meccanica dei sentimenti, nel 2017, ero negli Stati Uniti. Ricordo che in quel primo messaggio parlavo di ritornare metaforicamente in Italia attraverso i miei scritti. Da lì è iniziato tutto, questa è la quinta avventura insieme».

Hai nuovi progetti in corso?

«Nella seconda metà dell’anno uscirà un altro romanzo. S’intitolerà Gli impotenti e sarà pubblicato dalla Iacobellieditore. Ancora non ci credo».

Prima di salutarci, daresti qualche consiglio a un giovane scrittore o una giovane scrittrice alle prime armi?

«Sono sicuro che loro saprebbero darne a me… Ad ogni modo, il mio consiglio è sempre lo stesso: leggi, leggi tanto e bene. Ringrazio il Salto della Quaglia. Sono felice di aver dato il mio piccolo contributo a questo progetto. La Quaglia è nata libera e volerà alto».

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