Sulla chiusura della censura di Stato

Articolo di Frank Iodice

Paul Verlaine parlerebbe oggi delle natiche e di quel “burrone d’ombra leggiadra in cui era il desiderio impazzito”. Parlerebbe all’Italia cattolica e ai suoi esponenti elogiando le chiappe bianche che nessuno si è mai preso l’ardire di schiaffeggiare. Mi riempirebbe l’udito con la sua musica, “avant toute chose”, e riderei senza alcun pregiudizio nei confronti del sesso e delle sue infinite declinazioni. Io direi a Verlaine che nei nostri tempi si sarebbe divertito altrettanto follemente di quando nella sua epoca bigotta e asservita al perbenismo borghese si è fatto beccare da Madame Mathilde tra le cosce di Rimbaud e si è fatto cacciare di casa con un esposto al tribunale. Chissà come avrebbe commentato, il nostro, la recente decisione di mettere fine alla censura di stato. Avrebbe di sicuro storto il naso perché la vera censura non è quella dei tagli ma quella dei tabù. In altre parole, caro amico assuefatto dall’acre odore della vagina e dall’acido ghiaccio, residuo dell’assenzio che tanto amiamo io e te, debbo dirti che hai ragione. Perché dopo la censura resta ancora da eliminare l’autocensura (vedi moralismo) quella che conviene, quella che fa favori e riceve favori, quella tutta corretta, diciamo così, e affatto sconcia, né zozza, né scabrosa. Dalla lingua e dalla bocca, “ebbre di tanta fortuna”, saremo noi autori a mettere fine alle tante censure che ci perseguitano, e a quelle nella nostra mente, annidiate in quel posticino sconosciuto e non individuabile, dove risiede la signora coscienza, un po’ suocera, un po’ sorella, che stentiamo a tradire quando prendiamo la penna in mano. Oh Verlaine! Maestro di libertà e d’immoralità, guida la nostra mano e aiutaci a scrivere veri libri, libri ribelli, puttane d’inchiostro dai nostri occhi, monache create dall’uomo padrone, peccaminose con i veri scrittori, che – così pare – da qualche parte vivono ancora.

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