Continua a non farti prendere Bob

Articolo di Luca Miele

Ci piace immaginare che a questo profluvio di parole e omaggi che hanno preceduto, accompagnato e che seguiranno i suoi 80 anni, Bob Dylan abbia reagito a suo modo. Con un ghigno. Un rimbrotto. Uno sberleffo luciferino. Perché uno che ha vissuto la sua vita marchiando a fuoco il suo tempo – ma sempre con la tentazione feroce di sparire, di non farsi trovare, di essere dove nessuno se lo aspetta, di sfuggire alle gabbie, di seminare falsi indizi, di indossare maschere – le celebrazioni suonano più come un epitaffio che come un rilancio. E di rilanciare Bob Dylan sembra non si sia stancato ancora.

Cosa dire di questo titano, di questo gigante che, dopo oltre mezzo secolo di musica, sembra ancora rinchiuso in uno stato di alienità, come provenisse da un’altra galassia, come se fosse dentro una sfera di vetro, fiammante e irraggiungibile?

Dylan è, è stato e sarà la cartografia di un passato che non passa, il tracciato di una scossa tellurica, di una incandescente colata che ha conquistato il mondo. Chiamatela “cultura di massa” o come volete: certo è che quella macchina mitopoietica che è stata la cultura americana ha conquistato davvero il mondo (“ma le cose sono cambiate” vero Mr. Dylan?). Dentro quella colata, Dylan è stato come un dinamitardo folle: ha seminato fiori del male, ha inquietato narrazioni, ha illuminato angoli bui, ha indagato la sconfitta.

Ma cosa fu il principio? Il principio fu Elvis, Elvis che ancheggiava in Tv. Elvis, il corpo, il rock, la liberazione. Una rivoluzione. Un nuovo soggetto si andava affermando, conquistava la scena, rivendicava diritti, proponeva stili di vita, fabbricava sogni, progettava futuri. I giovani. Tempeste ormonali e tempeste sociali e politiche. Ma a quella generazione – che pretenderà con Dylan di rimanere “per sempre giovane” – che stava per affacciarsi sulla storia, a quel rock che scuoteva i corpi, a quei tempi che pretendevano di cambiare, serviva una lingua. E quella lingua l’ha plasmata Bob Dylan. Dylan ha preso il blues (per inciso senza blues non ci sarebbe Elvis, non ci sarebbe niente di niente) e la Bibbia, la poesia e il gergo di strada, l’alto il basso, il folk e Shakespeare, flirtando saccheggiando rubando amando mescolando, e ha trasformato tutto in una colata folle, orgiastica, oscura e diamantina. Dylan ha disegnato il nuovo perimetro dentro il quale la canzone americana potesse muovere, ne ha letteralmente fatto esplodere i confini. Come ha scritto Sean Wilentz “non esiste un’unghia di canzone Americana che lui non possa chiamare sua. Ruba ciò che ama e ama ciò che ruba”.

Ma che ne è oggi del rock? Che ne è dell’America? Che ne è del mito che l’ha nutrita e fatta apparire, rimbalzare, sfolgorare ovunque?

Non avete anche voi la sensazione che sia ormai avvolta nella luce del tramonto?

I was born here and I’ll die here against my will
I know it looks like I’m moving, but I’m standing still
Every nerve in my body is so vacant and numb
I can’t even remember what it was I came here to get away from
Don’t even hear a murmur of a prayer
It’s not dark yet, but it’s getting there

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