L’osteria, un tópos di perdizione: a tavola con Renzo Tramaglino e Pinocchio

Articolo di Filippo Scimé

Luoghi confortevoli e goderecci, le osterie rappresentano nell’immaginario comune le tappe ideali per immergersi in un mondo lontano dalle sinapsi della globalizzazione. Se da un lato il suddetto luogo, inteso coi crismi dell’antica locanda nella quale si poteva mangiare e trovare alloggio, sopravvive ancora in piccole propaggini sparse per lo stivale, dall’altro lato, in letteratura, le parenti in cui alberga il sobbollire del calderone, il frastuono delle stoviglie, e l’euforia dei bevitori, si trasformano in uno stereotipo riconducibile a certe caratteristiche ricorrenti che ricreano i sintomi di un danno irreparabile. La mia umile questua si riduce a due casi di ricerca, dai quali penso di ottenere delle soddisfacenti oblazioni: alludo ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e Le Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi, le quali opere, a differenza di quanto si possa pensare, hanno molti punti in comune. Basti pensare che il grande Natalino Sapegno nel suo Compendio di letteratura italiana, del 1936, definiva Collodi un “manzoniano”. E tralasciando appunto i rimandi, espliciti o impliciti, o le tecniche letterarie adoprate, mi interessa in questo caso ricollegarmi proprio al tópos letterario dell’osteria, inteso come luogo in cui si perpetrano oscure macchinazioni e i personaggi sono annebbiati dal fumo delle illusioni.

È noto ai più che il giovane lecchese Renzo Tramaglino, ormai naufragata l’idea di sposare l’amata Lucia, dopo esser giunto in Milano, con ancora in corpo la palpitante audacia dei tumulti di San Martino, si avvia in una osteria (la prima di una lunga serie) per smaltire la boria accumulata che lo aveva erto capo di una vile turba di faziosi, pronti a una rivolta popolare. L’osteria con l’insegna della Luna Piena (circoscriviamo uno snodo riconducibile all’altezza dei capitoli XIV e XV dell’opera) è un ambiente ricco e variegato, nella quale Renzo, in compagnia di un personaggio ambiguo, Ambrogio Fusella, che si era proposto di guidarlo in un’osteria, decide di entrare, non disperando che prima o tardi potrà parlare della sua situazione personale, ormai diventata un petulante raspìo di cane alla porta.

Manzoni ci offre l’opportunità di vedere le caratteristiche di una tipica osteria lombarda del ‘600; la sua descrizione è ricca di dettagli che come segni distintivi qualificano l’ambiente: l’illuminazione (Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce); i presenti (Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza) l’arredamento (a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto); i rumori (Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere); e infine, il protagonista principale, l’oste che tutto guarda e a cui nulla sfugge (l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui). Infatti costui, abituato lungamente alle consuetudini del tempo è capace di non lasciar trasparire la minima emozione, quando riconosce il misterioso accompagnatore del povero Renzo, qualificandolo come un cacciatore (Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: — non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai) prefigurando nell’osteria lo spazio entro la quale avviene una battuta di caccia.

Renzo, consumato dai morsi della fame, decide di aprire le danze placando la sua sete e non a caso ordina del vino (“Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero,” disse Renzo: “ e poi un boccone.”), che inevitabilmente figura come uno degli elementi traditori e traviatori per eccellenza. Renzo infatti cadrà nella trappola abilmente intessuta dall’oscuro amico sbilanciandosi sulle idee politiche personali e finendo nelle stringenti maglie della giustizia. Il vino, come le acque del Lete per Dante, fa dimenticare l’odioso inghippo in cui è stato trascinato il poveretto, che ravvivato dell’immagine della panca torna indietro con la mente al tempo dell’innocente desco diviso con la amata Lucia e la madre di lei Agnese.

A questo stilema classico, incentrato sulla richiesta del vino, in un mondo dove le rotelle degli ingranaggi cominciano a muoversi spedite e a tessere l’ordito dell’inganno, il giovane lecchese comincia a trovarsi a suo agio e dimentico della necessaria prudenza da osservarsi lontano dai suoi monti, all’oste che non ha pane, ringalluzzito risponde: “Al pane, ci ha pensato la provvidenza.” E poi scrive il Manzoni: “tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: ecco il pane della provvidenza!”. L’unione con i presenti, cementata dalla convivialità trasforma la mitezza di Renzo in coraggio, che esce, fuori dalla sua giacchetta di panno, l’ultimo pane raccolto (anche qui la dietrologia cristiana del Manzoni lascia il segno).

Dopo aver urlato l’importanza del pane acquistano a buon mercato, e sostenuto dalle voci dei compagni d’osteria (i quali fungono quasi il supporto corale della carità cristiana) il nostro Renzo, sulla cresta dell’onda della perdizione e sospinto dalla “cura amorevole della sua guida”, decide di pernottare e all’oste che porta penna e calamaio -segno tangibile della truffa messa su carta- risponde stizzito. Vuotato il terzo bicchiere di vino, antifona della perdizione, risponde di farsi beffe delle grida e del protocollo imposto. In quel frangente comincia un lungo sproloquio di Renzo che rievoca la beffa subita in nome di quella grida, tanto impastocchiata dall’Azzeccagarbugli, che finisce per ricapitolare gli esordi della sua triste vicenda: “quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome.” e qui finì la frase con un gesto: “se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi”. Con sommo dispiacere del Manzoni, Renzo trova ancora l’aiuto del vino a fortificare il suo animo, ringalluzzito dal sostegno dell’uditorio. Al che uno dei compagni sibila: “ La ragione è questa, ” disse colui: “che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.”. Tralasciando la successiva questione sulla giustizia promossa da Renzo e del poeta di Pindo, che meriterebbe un altro umile articoletto, la guida sconosciuta con quella scaltrezza che l’agio del cacciatore e la gozzoviglia del vino dissuade, prende fiato e propone una sua personale idea di giustizia: “ Eh! se comandassi io, ” disse, “ lo troverei il verso di fare andar le cose bene. ” e in seguito mette in atto l’astuto tranello per ottenere il nome del povero contadino: “ Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per…. il vostro nome? “Lorenzo Tramaglino, ” disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone.” Ecco che avviene il totale compimento della perdizione; si abbatte sulla storia del protagonista un punto di non ritorno che macchierà il buon nome del contadino; congedatosi infatti dal teatro dell’inganno il povero Renzo dorme senza minimamente immaginare che il suo risveglio sarà un incubo.

Da una perdizione passiamo a un’altra meno devastante ma ugualmente deleteria, rievocando l’opera di Collodi e il riferimento all’Osteria del Gambero Rosso che si trova presente nel capitolo XIII. Si noterà, indubbiamente, un’atmosfera decisamente diversa dal passo del Manzoni, non tanto perché orientata verso una ricezione diversa, quanto invece più bisognosa di cercare altri significati, di essere più genuina entro quel mondo di cose apparentemente semplici e a misura di burattino. Detto ciò, non si può fare a meno di rievocare, a questo punto dell’opera, il memorabile saggio dell’umorismo di Collodi: “Entrati nell’osteria, si posero tutt’e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito. Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana”. Lo scrittore fiorentino procede per antifrasi cercando di suscitare l’ilarità del lettore con un’ironia aggressiva che ingigantisce l’ingenuità del burattino e prepara il posto alla farsa che sta per colpirlo. Il passo può apparire prosaico, trattare di temi più umili, ma in fondo Pinocchio persegue anche uno suo personale ideale di giustizia: riconquistare la fiducia del babbo riportando una notevole somma di zecchini da investire quanto prima per la sua veneranda persona, capace di morire dal freddo per istruire il figlio (e quanti padri ancora oggi regalano questo eroico sforzo ai figli indolenti come tanti Pinocchi!). Venendo al sodo, Pinocchio sale lentamente gli ultimi gradini della perdizione, per l’ansia frenetica che lo prepara al grande gesto mangia poco, e affiancato dal Gatto e dalla Volpe rimane imbrigliato proprio dai maneggi di quest’ultima che di sponda lavora con l’oste, il più compiacente possibile nei confronti dei due astuti avventori; appunto leggiamo nelle parole seguenti: “Ricordatevi, però, che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio. — Sissignore — rispose l’oste, e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: Ho mangiato la foglia e ci siamo intesi!”.

Qui l’inganno perpetrato si giova di una sottesa alleanza, quasi segreta o antica, ai danni della preda, che garantirà all’oste un cospicuo saldo. A suggello della beffa, anche in questo caso il protagonista decide di pernottare, ma se in Renzo il risveglio era stato traumatico perché le guardie lo avevano strappato violentemente dal letto, per Pinocchio, invece, allo scoccare della mezzanotte ne inizia un altro di risveglio non meno problematico, giacché s’avventura a notte fonda in un viaggio tra le tenebre della paura, stimolando nel lettore una simil catarsi tragica: quanti rimandi e simboli ha in serbo per noi Collodi!

Pagato il conto Pinocchio vidima la condanna, conferma pertanto la perdizione di quell’autentica ingenuità fanciullesca ormai perduta, ponendo a garanzia del suo prezioso zecchino un altro sé, un’altra larva lasciata alle sue spalle e avanza (cammina, cammina, cammina scriverà Collodi, laddove l’iterazione del verbo riproduce un movimento della narrazione) verso quel lungo cammino di redenzione, di crescita, o perché no di oblio, che speriamo possa fiorire in noi sempre.

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