Salvatore Quasimodo, un raggio di sole…ed è subito sera

Articolo di Gordiano Lupi

Nasco che il secolo è iniziato, siamo nel 1901, a Modica, provincia di Ragusa, piena estate rovente nella mia Sicilia, il 20 agosto, tra zagare e mandorli, un po’ più giovane di mio fratello Enzo, figlio di Gaetano che fa il capostazione e di Clotilde. Le mie origini lontane sono greche, ché mia nonna paterna, Rosa, di cognome fa Papandreu, figlia di profughi, reduci da Patrasso. Forse viene da lì la mia passione per la Grecia antica, per quei classici amati e poi tradotti, per la poesia che profuma di passato. Vivo il destino d’un figlio di ferroviere, mestiere da pionieri nel 1900, ché mio padre lo trasferiscono ogni anno, di paese in paese, là dove c’è da fare, in una Sicilia campestre e contadina. Aragona, Caldare, Sferro, i nomi dei paesi dove vivo, provincia di Agrigento e di Catania, poi a Comitini, un paio d’anni ci si ferma, il tempo di veder nascere Ettore e Rosina, i miei fratelli. Gela è il paese dove inizio la scuola elementare, bei ricordi in quel paesaggio lunare, in quel deserto tra campagna e mare. Il terremoto di Messina lo vivo nel capoluogo dello stretto, sono un bambino, rammento la città in un tempo triste, vivo in un treno merci in fondo a un binario morto, alla stazione, non ci sono case, in compenso vedo tanti morti, ladri fucilati dai soldati che rubano per case abbandonate. Apprendo la scienza del dolore anche se ho soltanto otto anni, la vita è dura, non è sogno, ma paura, adesso lo comprendo, angoscia, tristezza e poi dolore. Vedo tanti paesi, un altro ancora, Acquaviva Platani, separato dai fratelli che studiano a Palermo, quando son grande mi ritrovo nella mia Messina, dove studio cose tecniche allo Jaci, anche se comincio ad amare la letteratura, soprattutto lirica poetica, insieme a compagni che saranno amici per la vita: Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, formeremo insieme un fantastico terzetto. Amici importanti che discutono di lettere e politica, leggono Dante, Moro, Campanella, la Bibbia e Platone, Dostoevskij e Gorki, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine … va da sé che si comincia a scrivere. Ho sedici anni quando fondiamo il Nuovo Giornale Letterario e lo vendiamo nella tabaccheria dello zio di Giorgio, in viale San Martino, ritrovo di piccoli letterati; dura otto mesi il nostro giornaletto, ma raduna tanta gente in gamba di Messina, Fiumi e de Pisis, persino Ravegnani, anche Villaroel. E io scrivo le mie prime cose, pubblicate a Bari, da una rivista che si chiama Humanitas, forse un po’ retoriche, Canti marini e Aurora, poi Sera d’estate finisce su Italia futurista. Son poeta ma decido di studiare ingegneria, chissà perché, quindi vado a Roma, mi duole separarmi da Pugliatti e La Pira che restano in Sicilia per finire il classico, quindi fare legge, destino da professori, il secondo politico, sindaco di Firenze, uno dei più grandi che ci siano stati. La mia scelta si rivela subito sbagliata, ingegneria mica m’interessa, poi in casa soldi ce ne sono pochi, la vita è difficile, vivo disegnando, commesso in ferramenta, impiegato in Rinascente, ma il mio spirito ribelle appare quando organizzo uno sciopero e vengo licenziato, infatti poco dopo passa una legge che abolisce il diritto di scioperare. Ho vent’anni che son già sposato con Bice Donetti, moglie che tradisco con troppa leggerezza, lei non sarà capace di darmi neanche un figlio, li farò con altre, la discendenza è salva. La mia passione vera si manifesta con monsignor Rampolla, fratello del mio vecchio insegnante d’italiano, che mi avvicina allo studio del greco e del latino. Poi scrivo, la sola cosa che so fare, saggi su Roma e provincia, poesie – spesso rifiutate – sul Marchesino, L’Albatro e Pagina d’arte, riviste di Messina. Il mio diploma tecnico devo pur farlo valere, torno verso casa, a Reggio Calabria, dove son geometra del genio civile, la cosa mi piace soprattutto perché quando son di festa prendo il traghetto e vedo la mia Messina, dove incontro gli amici che non ho dimenticato. Pugliatti e La Pira son sempre gli stessi, vivaci e intelligenti, colti e intraprendenti, come tutti gli altri messinesi che riprendo a frequentare. La Sicilia è la terra del mio verso, la mia siepe, dove nascono i germogli di Acque e terre, le prime cose scritte da tenere. Devo dire che la mia fortuna si chiama Elio Vittorini che per un caso del destino sposa Rosina e diventa mio cognato, m’invita a Firenze e grazie a lui entro nell’ambiente letterario che più conta, nonostante il fascismo soffochi la vita e bruci le speranze. Il caffè della stazione e il Giubbe rosse sono il ritrovo di noi intellettuali, contro il regime, per la libertà, la nostra rivista è Solaria, ci scrivono Montale, Loria, Manzini, Carrocci e Bonsanti. Il mio mentore è Bonsanti, a lui affido i miei versi in una cartelletta un po’ sgualcita, lui sceglie tre liriche, insieme a Vittorini, escono su Solaria – che emozione! – la rivista più importante letteraria. Alberi, Prima volta e Angeli sono i miei figli che vedo spiccare il volo, poi esce la raccolta Acque e terre, per i tipi di Solaria, le mie liriche migliori scritte tra il 1920 e il 1929, un libro che viene accolto bene, recensito ovunque negli ambienti letterari, da L’Ambrosiano a Pegaso, passando per La Gazzetta del Popolo e Il Lavoro. I recensori son tutti amici miei, adesso sono scrittori importanti, gente come Natoli, Pugliatti, Capasso, anche Montale e Grande ne parlano bene. Devo continuare, forse ho trovato la mia strada, pure se mi mandano a Imperia – visto che son geometra – a costruire una strada militare, ma la mia vera vita è fiumi e alberi, le sole cose che non devono mancare. Imperia mi soffoca, ma Genova è vicina, qui conosco Sbarbaro, Grande e Barile, che mandano avanti Circoli, una rivista dove posso sentirmi vivo e occuparmi di quel che più so fare, non solo strade. Nel 1931 vinco un premio ambito, che fu di Montale, l’Antico Fattore di Firenze, per la raccolta Oboe sommerso, pubblicata da Circoli, una di quelle che più amo, con le poesie sulla mia terra dove irrompe il sole, urlano alberi per assonnate rive, dove la luce brucia foglie rosee e una città d’isola sommersa nel mio cuore, discende nell’antica luce. Son giramondo come mio padre, mi mandano in Sardegna, poi al genio civile di Milano, grazie a quel gran poeta di Novaro che intercede per me e per la mia vita, pure se il capo non mi può soffrire, mi confina a Sondrio, in Valtellina. Otto ore per riveder Milano, ogni sera, a parlar di lettere e poemi, per incontrare scultori, artisti, pittori, musicisti, gente considerata strana dai normali, persone come Flora, Carrà, Sironi, Tosi, Sassu, Cantatore, Messina e Zavattini. Ci vediamo alle Tre Marie, pure al Biffi, anche al Savini, locali dove faccio le cinque del mattino, poi prendo il treno, torno a Sondrio a lavorare. Fedele non son mai stato, non solo, pure disattento, ché da una delle tante donne che frequento nasce mia figlia Orietta, la battezza l’amico letterato Cantatore. Le donne mi piacciono, quasi quanto far poesia, conosco Rina Faccio – per voi Sibilla Aleramo – pure con lei sboccia una passione, che dura poco, il tempo di cinque liriche che mi dedica chiamandomi Virgilio. Sergio Solmi mi introduce Erato e Apòllion, che esce per Schweiller, editore per pochi eletti, di pura poesia, appena il tempo per gioire che vivo un nuovo amore, questa volta un po’ più duraturo. Maria Clementina Cumani, grande danzatrice, sarà la madre di mio figlio Alessandro, la mia seconda moglie, dopo la morte della paziente Bice. Un intero epistolario – dopo morto diventerà un best-seller per curiosi -, è il nostro amore che non dura poco, ma procede intenso e passionale. Carlo Bo, invece, lo incontro a Sestri Levante, pure lui certo è importante, per le mie lettere, adesso che voglio far soltanto quello … Ho deciso. Basta col genio civile e coi progetti! Nel 1938 mi dimetto da questo lavoro assurdo che non mi si addice, non fa per me, pure se ho imparato a farlo, devo andarmene senza liquidazione, mi metto a fare il segretario a Zavattini, c’è più gusto, si parla di libri e cinema, qui alla Mondadori. E mi pubblicano il libro Poesia con un saggio di Macrì che lo introduce, un’antologia delle mie cose migliori, mentre collaboro con Letteratura, l’erede di Solaria decaduta. Zavattini e Bernari mi fanno assumere da Tempo, se non ci fossero gli amici che mi proteggono da chi mi vuol licenziare … non ho un buon carattere, non riesco a fare lavori di routine, non sono impiegato, ma poeta. Al massimo posso fare revisioni – barba e capelli – d’un testo letterario, diciture da sommario, ché son uomo essenziale, scrivere conciso mi vien bene. Traduco i lirici greci mentre nasce Alessandro, è il 1939, l’anno dopo li pubblico per Corrente, prefazione di Luciano Anceschi, lo so che polemizzeranno, ci metto del mio, non sono mica un mero traduttore, reinterpreto secondo la mia sensibilità, il mondo classico, la letteratura antica, quel che vien fuori è tutta cosa nuova. E nel 1941 mi fanno professore, pure se son geometra del genio, ingegnere mancato per poca volontà, le lettere posso dir di averle amate, mi mettono a insegnare per chiara fama al conservatorio Verdi di Milano, dove starò fino alla mia morte. Ed è subito sera, il mio capolavoro, esce a Milano, nel 1942, son tempi tristi; contiene tutto il meglio del mio scrivere, collana Lo Specchio Mondadori, ci sono anche Nuove Poesie mai pubblicate, si vende pure, in sei mesi è esaurito. I fascisti restano in agguato, il mio circolo letterario milanese vien perseguitato, non faccio politica ma scrivo, fatto di per sé pericoloso, una notte mi ferman gli squadristi del gruppo Corridoni, mi pestano a sangue, mi lasciano per strada, lacero e sporco. Parole ad una spia, sarà la poesia che dedicherò al vigliacco che un giorno scrisse di me cose impossibili, che mi fece perseguitare. Attendo la fine della guerra traducendo il Vangelo, che mi fa star bene, pure Omero e Catullo non son da meno, poi le Georgiche, tutte cose che escono nel primo dopoguerra, quando decido che è venuto il tempo del mio impegno. Prendo la tessera del Partito Comunista, ma non sono uomo di fedi durature, scrivo pure per Milano Sera e di letteratura, su Petrarca e solitudine. Col piede straniero sopra il cuore è la raccolta della mia guerra infinita – prima Quaderni del costume, poi Mondadori – esce come Giorno dopo giorno, ma è la lirica del come potevamo noi cantare, di quando le nostre cetre alle fronde dei salici erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Traduco Edipo Re di Sofocle, Romeo e Giulietta, quindi Ruskin, collaboro con Omnibus dove scrivo di teatro, quindi mi sposo per la seconda volta, ché la povera Bice mi abbandona, la prescelta è Maria, madre di mio figlio. La vita non è sogno, Calderon, la vita è verità e dolore, così come l’esistenza umana è passione, difficoltà da sopportare. Esce il mio libro, traduco le Coefore di Eschilo, Machbet, Elettra di Sofocle, Riccardo III, Neruda; scrivo su Tempo, vinco tanti premi, conosco Dylan Thomas, pubblico Il falso e il vero verde con Schwarz, poi con Mondadori. La poesia dev’essere civile, scrivo, e un po’ ci credo, anche se spesso ho scritto lirica soltanto, senza badare a lotte proletarie. Traduco molto, persino Molière col suo Tartufo e la grande Antologia palatina, quindi per la prima volta vado in Grecia, la terra dei miei avi. La terra impareggiabile mi fa vincere il Viareggio mentre con Poesia italiana del dopoguerra dico per sempre cosa sia per me far poesia, dopo il 1940, dopo la sventura del fascismo. Cerco il reale, cerco il mio obiettivo, traduco Cummings e le sue poesie; nel 1958 viaggio in Russia ed è proprio lì che non sto bene, un infarto maligno mi trattiene per sei mesi in un ospedale comunista, assistito da un’amorevole infermiera – che ricorderò in Dare e avere – e dalla generosità dei colleghi russi che pagano per la mia degenza. E poi l’evento della vita, quello che cambia tutto e ti fa ricordare, a Stoccolma, è il 1959, il 10 dicembre, quando vinco il Nobel, proposto da Francesco Flora e Carlo Bo. L’invidioso Cecchi scrive sul Corriere della Sera che a caval donato non si guarda in bocca, forse quel Nobel pensava gli spettasse di diritto, invece l’ho vinto io, geometra del genio, mancato ingegnere, figlio di ferroviere. Ah, com’è triste il mondo delle lettere, non diverso da tutti gli altri mondi, se ti scopri oggetto del malanimo e perfidie! E così mi metto in viaggio, via da quest’Italia strapaese che non sa apprezzare i suoi migliori, scappo in Europa e in America dove m’invitano a parlare, traduco Otello e Ovidio, così, per non pensare. M’incupisco così tanto che finisce anche con Maria, mi separo, lei va a vivere a Roma con Alessandro, io scappo in Grecia, scrivo saggi su poesia e politica, a Messina mi fan dottore honoris causa, mentre scrivo per Le ore la posta del lettore. Primi anni Sessanta, viaggio molto, Spagna e Berlino, Londra e Dublino, Norvegia e Jugoslavia, scrivo di teatro, traduco Arghezi, un poeta romeno. Vado a Parigi, torno a Palermo nella mia Sicilia, dove assisto ad Amore di Galatea; Bulgaria e Messico son altre mete, mentre al Festival di Spoleto conosco Neruda, Evtushenko e Pasolini. Mi hanno già fatto cittadino onorario di Palermo – cosa che mi fa così felice – quando mi coglie una perfida ischemia e mi ricoverano a Sesto San Giovanni. Ho appena il tempo di pubblicare Dare e avere, le poesie di viaggio, le riflessioni degli ultimi tormenti, dei miei itinerari misteriosi, alla ricerca del senso della vita. A Oxford mi danno un’altra laurea, conosco Ginsberg, che viene a casa mia, in quel di Milano. È il 1968, anno importante, di contestazione, quando il mio tempo termina, d’estate, ad Amalfi, son lì presidente di giuria d’un premio di poesia da assegnare, mi portano a Napoli, clinica di Mergellina. Ormai è finita. Emorragia cerebrale che non perdona. Il mio corpo tornerà a Milano. Cimitero monumentale, dove ancora adesso osservo volti, contemplo quel che resta della vita. La poesia non è consolazione. La poesia è azione e non consola, non abitua l’uomo alla sua morte, non promette Paradisi, non protegge da tremendi Inferni. La poesia è riflesso della vita che un uomo vive, è canto di dolore, è grido, è pianto, è pure l’acciaio che cola da un altoforno, è una sera mano nella mano con la tua donna. Un poeta vive la poesia come impegno con la vita, come se la vita fosse arte e pone la sua siepe come confine del mondo conosciuto. Tutti abbiamo una siepe che delimita le azioni, il nostro fare quotidiano, il nostro vivere; la mia siepe è stata la Sicilia, una siepe che racchiude antiche civiltà e necropoli e cave di salgemma e zolfare e donne in pianto per figli uccisi e banditi per amore o per giustizia. Son poeta ma non certo dannunziano, cerco la quantità della parola, il suo peso, il suo posto nel verso, non la qualità, mica la forma; poi non credo di mutar le cose, muteranno me, questo lo so, ormai l’ho capito. Oscuramente forte è la vita, adesso l’ho imparato, come so bene che ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

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