Fenomenologia di “Un giorno da pecora” & C.

Articolo di Paolo Landi

Il “tapiro” a Ambra Angiolini (al museo! al museo!) ci ha fatto fare un tuffo nel passato, riportandoci a venti anni fa, agli anni dello strapotere berlusconiano, alla nipote di Mubarak, a Striscia la Notizia (un titolo così vintage per una trasmissione che, in effetti, credevamo non esistesse più da molto tempo, ora che Zuckerberg ha rivoluzionato il mondo della comunicazione con notizie che non si strisciano più). Poi, ascoltando alla radio Un giorno da pecora di Geppi Cucciari e Giorgio Lauro abbiamo riflettuto amaramente sul qualunquismo che questo tipo di programmi fomenta, dove la politica è usata per fare “intrattenimento”, dove non si capisce se i politici che intervengono siano imitazioni o siano invece quelli veri, ma ciò che dicono è talmente deprimente che sarebbe meglio fossero imitazioni. Sono però sempre “tutti uguali”, quelli di destra e quelli di sinistra e c’è da giurare sul lavoro di par condicio che devono calibrare i due poveri conduttori, senza probabilmente rendersi conto che la gente con pochi strumenti che li ascolta già fa di ogni erba un fascio e pensa già per conto suo che i politici siano tutti ignoranti, corrotti e fannulloni e non ci sarebbe bisogno perciò di estrapolare frasi in cui emergano palesemente la supposta ignoranza, arroganza, latitanza dal parlamento che contraddistinguerebbe i politici, di qualunque partito essi siano. Più tardi, sulla radio del quotidiano della Confindustria, si resta basiti a seguire “La zanzara” un programma che non si può credere sia italiano, se l’Italia è davvero la settima potenza industriale mondiale e non una cittadina di provincia, come sembra ascoltando la varia umanità che va in onda, tirando fuori il peggio da sé stessa. Radio che ci respingono agli anni ’80, alle prime emittenti “libere”, quando avevamo scambiato la libertà di cazzeggio con la libertà tout court, ma allora eravamo ragazzi e le radio commerciali rompevano per la prima volta il monopolio dell’informazione statale, eravamo pionieri insomma. Oggi ascoltare due persone più che adulte dire sconcezze e scemenze, aizzando quei poveretti che telefonano cadendo come fessi nel trabocchetto, provoca più che altro un senso di smarrimento. Com’è possibile che la radio di un quotidiano serio come Il Sole 24 ore scenda così in basso? Ma soprattutto: chi fa ridere? A “Striscia la notizia” mi capitò di vedere, vent’anni fa, un breve reportage di denuncia di metodi camorristici in una cittadina dell’entroterra napoletano. Poteva essere un servizio serio, ma il giornalista che parlava davanti alla telecamera aveva un impermeabile giallo e uno sturacessi in testa perché era importante sottolineare che il mondo va così, che tutto è serio e niente è grave e la tragedia convive sempre con la farsa. Eppure ci sono persone anche di una certa cultura che dicono che la “vera” informazione in tv (e alla radio) la fanno trasmissioni come queste, Le Iene che inseguono i pedofili e i truffatori per strada, come se spettacolarizzare la miseria umana ci aiutasse ad essere migliori. Il governo Draghi ha avuto, tra i tanti, il merito di mettere il silenziatore alle televisioni e ai social: improvvisamente perfino Lilli Gruber e Marco Travaglio sono diventati più educati, dopo un paio d’anni di tronfia baldanza grillina che li faceva straparlare, spalleggiandosi. Finita la propaganda martellante di Casalino, con l’Avvocato del popolo tutte le sere a dirci quanto erano bravi, lui e Arcuri, su tutte le trasmissioni è sceso il gelo educato di Draghi, con quella “distanza” che dovrebbe avere un capo di governo, poche parole e dette quando occorre dirle (e certamente non negli studi della 7). La Gruber, Travaglio, Scanzi, Padellaro sono rimasti interdetti, non sapevano più che pesci pigliare prima di rimettersi in carreggiata esibendo il sarcasmo degli sconfitti, tuttavia senza più prevaricare e offendere gli ospiti che invitavano, come facevano quando si sentivano coperti. “L’ha imparato l’inglese?” chiedeva la Gruber al Ministro degli Esteri, senza rendersi conto della gaffe micidiale. E lo sventurato rispondeva “Si”. Sipario su questo provincialismo d’accatto, Draghi ha costretto tutti ad alzare il livello. Un modo di fare e di concepire la politica che ha completamente sconvolto Matteo Salvini, entrato in una crisi d’identità profonda, senza più salami da baciare e rosari da esibire. L’unica che sembra non essersi accorta che il vento tira da un’altra parte è “Io sono Giorgia”, ora anche remixata in spagnolo per far sghignazzare ancora di più i radical chic che si scompisciano nei salotti dei centri-città, mentre nelle periferie quella invasata con gli occhi di fuori che urla “Yo soy una mujer, yo soy cristiana” non riesce davvero ad attecchire nel substrato profondamente scettico di chi deve ogni giorno mettere insieme il pranzo con la cena. Ora ci aspettiamo che il direttore di Radio Rai metta il silenziatore a Geppi e a Giorgio, spostandoli per esempio a condurre “Fahrenheit” su Radio 3, dove tutti parlano uno per volta e quell’isteria da giorno da pecora è vista malissimo, perché vige la regola che si deve conversare con calma, cercando di farsi capire, senza dire spiritosaggini e soprattutto senza ridere dopo averle dette, che è la morte di qualunque tipo di comicità. Ormai la vera comicità sembra essere quella involontaria della Giorgia, di Vanna Marchi, di Alessandro Di Battista, di Mario Giordano: come fanno ridere loro non c’è nessuno, si capisce quindi la crisi di programmi come “Un giorno da pecora” e “La zanzara”, costretti ad alzare sempre il tiro per tentare di esistere. C’era una volta la comicità, oggi ci sono rimasti solo Virginia Raffaele e Maurizio Crozza, il resto sarebbe meglio che fosse silenzio.

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