“Drive my car”, un intenso melodramma teatrale sull’elaborazione del lutto

Articolo di Gordiano Lupi

Un film da vedere preparati, perché – da un po’ di tempo a questa parte – per noi italiani non è consueta una pellicola che duri 180 minuti, inoltre nel nostro (modesto) cinema contemporaneo non vediamo un regista capace di narrare una simile storia senza annoiare a morte o (peggio) cadere nel ridicolo. Un tempo anche in Italia fiorivano registi da lunga durata come il giapponese Hamaguchi, penso al Visconti di Morte a Venezia, all’Antonioni de L’avventura, al Bertolucci di Novecento, adesso non pare proprio obiettivo realizzabile. Drive my car è un intenso melodramma teatrale sull’elaborazione del lutto e sulla cognizione del dolore, una storia scritta da Haruku Murakami (in Uomini senza donne), sceneggiata a dovere, montata a ritmi compassati – da cinema d’autore stile Bergman o Wender -, interpretata da attori straordinari che recitano con il solo sguardo. Yusufe Kafuku è un regista di fama nazionale, un interprete teatrale noto per Zio Vanja di Checov, che deve affrontare la morte della moglie, amatissima quanto traditrice, metabolizzare il dolore e confrontarsi con un suo giovane rivale. La storia è ambientata quasi completamente a Hiroshima, dove il regista è invitato da un festival teatrale a dirigere una rappresentazione di Zio Vanja e a scegliere un gruppo di giovani attori che si esprimono con diversi linguaggi. Personaggi ben delineati, che si presentano in un prologo lungo 40 minuti, per far capire il legame profondo che unisce la sceneggiatrice Oto e il regista Yusuke, caratteri che vengono approfonditi nel resto del film dove nessuna sequenza appare inutile. Yusuke incontra una ragazza che a Hiroshima diventa sua autista, perché soffre di un glaucoma a un occhio, tra i due si crea una complicità nel dolore, entrambi sono stati privati degli affetti da una vita che comunque bisogna vivere, pur soffrendo. Un altro rapporto di complicità si crea tra il regista e il giovane attore che amava sua moglie, entrambi si raccontano le storie che Oto inventava durante i rapporti sessuali e che gli amanti dovevano ricordare. Un personaggio non meno importante è la vecchia Saab 900 che il regista usa come uno studio mobile per memorizzare la parte – grazie a una cassetta audio incisa dalla moglie – e che serve per stabilire un rapporto con la giovane autista. Infine abbiamo un’attrice sordomuta che parla il linguaggio dei segni, un personaggio importante che nel finale della rappresentazione abbraccia Yusuke/Vanja consolandolo per il suo dolore. Hamaguchi racconta la storia di Yusuke in parallelo allo scorrere di Zio Vanja, sia con l’ausilio delle parti registrate, sia con le sequenze che scorrono sul palcoscenico e durante le prove. Yusuke soffre calandosi nei panni di Zio Vanja perché troppe cose gli ricordano Oto e molte similitudini lo uniscono al personaggio. Vincitore morale del Festival di Cannes, dove viene premiato come miglior sceneggiatura, il regista bissa il successo a Berlino vincendo l’Orso d’Argento con un’altra pellicola (Il gioco del destino e della fantasia). Il suo primo film, Happiawa del 2015 – dopo molti documentari – dura ben 5 ore, ma in patria e al Festival di Locarno (dove viene premiato) non è un problema. Ha girato solo quattro film, il secondo è Netemo sametemo (2018) che partecipa al Festival di Cannes. Da vedere.

Regia: Ryūsuke Hamaguchi. Soggetto: Haruki Murakami (racconto omonimo contenuto in Uomini senza donne). Sceneggiatura: Takamasa Oe, Ryusuke Hamaguchi. Fotografia: Shinomiya Hidetoshi. Montaggio: Azusa Yamazaki Scenografia: Seo Hyeonsun. Musiche: Eiko Ishibashi. Produttore: Teruhisa Yamamoto. Case di Produzione: C&I Entertainment, Culture Entertainment, Bitters End. Distribuzione Italia: Tucker Film. Interpreti: Hidetoshi Nishijima (Yusuke Kafuku), Toko Miura (Misaki Watari), Masaki Okada (Kashi Takatsuki), Reika Kirishima (Oto Kafuku), Park Yurim (Lee Yoon-a), Jin Daeyeon (Yoon-su). Duarta: 179’. Genere: Drammatico. Paese di Origine: Giappone, 2021.

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