“Bar Samarcanda”, il nuovo libro di Luigi Palazzo

Articolo di Gordiano Lupi

Luigi Palazzo è un avvocato che insegna a contratto preso l’Università del Salento, già autore di Non raccontarmi il cielo (Manni, 2019), finalista al Premio De André e al Città di Borgomanero, organizzato da Atelier, pubblica poesia su Inverso, Il Visionario, L’Altrove, Salento Poesia, Atelier e La Repubblica edizione di Bari (rubrica curata da Vittorino Curci).  Abbiamo letto il suo Bar Samarcanda in una sola seduta, perché se fosse un disco sarebbe un concept album sul tempo perduto, dedicato agli sguardi e alle assenze di ieri e domani. Fonte di ispirazione il buon vecchio Proust, che ha influenzato diverse generazioni di scrittori e registi, ma anche alcuni cantautori italiani come Guccini e De André, per non parlare di Vecchioni, omaggiato sin dal titolo. Il frontespizio esistenziale gucciniano (Fingo di aver capito che vivere è incontrarsi, / aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, / bere, leggere, amare, grattarsi), estrapolato da Canzone quasi d’amore, apre la strada alla sola poesia in rima, scritta in quartine perfette, il prologo ambientato nel Bar Samarcanda. Il libro è composto da una galleria di personaggi sconfitti dalla vita che si danno appuntamento in un bar della memoria, percorrendo i ricordi di un passato non troppo lontano. Bar Samarcanda è una sorta di malinconico Spoon River salentino (apprezzabile in certi casi la citazione del dialetto), dove ragazzi degli anni Ottanta vagano in cerca del loro tempo perduto. Si chiamino Damiano, Federico, Uccio, Alfredone, Valentina, Rita … tutti devono subire un destino che non assomiglia per niente a quel che avevano immaginato mentre bevevano birra nel Bar Samarcanda. Non mancano i quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino che ricordano il De André de La città vecchia, giocano a carte e osservano il mondo prendere le sembianze di un piccolo paese. Sono nati negli anni Ottanta i personaggi della commedia umana di Palazzo e si sono fatti fregare, hanno perduto Pantani, Fantozzi, il proporzionale, persino i videogiochi e la pensione, le schede telefoniche, il festivalbar, le biglie e i marsupi. Tutta colpa del Duemila e di un mondo che tutti noi fatichiamo a decifrare, soprattutto noi nati anni Sessanta, orfani come siamo di Pasolini e Rivera, di Bianciardi e Mazzola, di Moravia e Burgnich. Per fortuna ogni tanto incontriamo un poeta vero – merce rara! – e ci consoliamo con la sua lettura.

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