L’Opera dei Pupi: tachigrafia di un illustre superstite

Articolo di Filippo Scimé

Qualche articolo addietro ci siamo dilungati, senza voler annacquarne il contenuto, su una delle opere più interessanti di Gesualdo Bufalino, figlia di una sperimentazione linguistica a metà fra il recupero delle memorie di un infante e un linguaggio sepolto da secolari stratificazioni linguistiche. Nell’opera in questione, i Guerrin Meschino, un valido esempio di prosimetro letterario, si ravvisavano in apertura e in chiusura dei versi che scandiscono l’inizio e la fine dell’opera letteraria: stiamo parlando del Lamento e del Congedo del vecchio puparo sulla base delle quali possiamo cogliere nuove considerazioni riguardanti l’opera dei pupi e le tracce di un incontrovertibile declino. Il nobile teatro delle marionette proclamato bene protetto dall’Unesco nel 2001 (e inserito tra i Patrimoni Orali e Immateriali dell’Umanità nel 2008) vive una crisi causata dal progressivo impoverimento culturale della società e dall’assenza delle istituzioni – dalle comunali alle nazionali – .

Ho deciso di prendere in considerazione quanto rievocato dalle parole di Bufalino per affrontare un vecchio problema (perché nuovo non lo è mai stato); disquisisco, senza tanti clamori, sulla perdita dell’identità culturale, nonostante essa sia il tessuto di preziosi filati, intrecciati, come in un gheriglio di noce, attraverso il silente lavoro di polverose culture, totalmente diverse tra loro, e tutt’al più riconducibile a un solo spazio geografico.

È impressionante come le due poesie, sebbene a distanza di trent’anni, fotografino una situazione pressoché cristallizzata. Cominciamo dal Lamento, nel quale il contrasto fra modernità e tradizione s’incastona in questa chiusa poetica:

“La gente che viene è sempre di meno.
Ieri erano tre, stamani un solo bambino,
con un cartoccio di semi accanto.
S’è seduto sulla panca e aspetta,
ma forse ha solo male ai piedi,
fra un minuto se ne andrà.
Prima che se ne vada, incominciamo.”1


La progressiva diminuzione degli spettatori è una testimonianza tangibile che il concetto di spettacolo è cambiato nel corso del tempo, o che forse l’Opera dei Pupi non ha avuto la fortuna necessaria per estendere le sue propaggini, chiusa e confinata nella sua isolitudine; fatto sta che essa, in quel miscuglio di voci e in quell’imbroglio di fili, rappresenta buona parte dell’identità siciliana, come leggiamo dalla monumentale opera dell’etnologo Giuseppe Pitrè: “Questo teatro ha una ragione storica nello spirito del popolo meridionale d’Italia; ed è mantenuto vivo da ragioni psicologiche ed etniche a un tempo, e in tutto relative all’indole della gente nostra”.2

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1 G. Bufalino, Il Guerrin Meschino, 2019 Bompiani.

L’Opra rimarcava dunque i problemi della società, la mancanza di lavoro, la povertà, ed era a tutti gli effetti una protesta sociale sospinta dalla “voce” degli eroi. Il ciclo delle gesta dei paladini di Francia coinvolgeva il pubblico a sperimentare ogni giorno questa appassionante storia come se fosse vera, anche se si trattava, in realtà, di un gioco fatto con i pupi. Tale gioco è compiuto da una marionetta che rappresentava l’uomo con tutti i valori e i sentimenti (ammesso che la marionetta non sia un uomo con tutti i valori e i sentimenti). Pertanto l’eroe era utile alla società, perché aiutava i giusti e castigava i potenti.

Così l’anima dei pupi divenne l’espressione dei sentimenti e delle aspirazioni di giustizia di una classe sociale, come se dentro quelle piccole cotte metalliche si dimenassero dei cuori palpitanti per sete d’amore o di giustizia. Durante le rappresentazioni i vecchi opranti riuscivano ad infondere nell’animo dei pupi quell’espressione di sentimenti, giustizia e libertà, di cui il popolo si fece portatore nella Sicilia dell’800, una Sicilia ancora fortemente arcaica, ma ribelle pronta a scoprire la sua natura ferina arabo-normanna. Al centro di questo meraviglioso mondo era presente un cantastorie, erede dei cantori medievali e l’unico vero padre dell’Opra, chiamato precisamente cuntastorie, nato intorno all’anno Mille; questo rapsodo raccontava le gesta e le imprese al tempo di Carlo Magno, in gergo dialettale definiti cunti (si noti l’assonanza con la lingua francese per le espressioni di racconto, raccontare e cantastorie: conte, raconter, conteur le quali sottolineano un’identità europea comune, mutuata soprattutto dalla presenza dei francesi nell’isola dal 1266 al 1282 l’anno dei Vespri; d’altronde l’etimologia della parola canto va ricondotta indietro nel tempo, fino addirittura al verbo latino cănĕre =cantare, il cui supino è appunto cantum. E se volessimo proseguire ancora più a ritroso troveremmo una comune radice, derivante addirittura dalle lontane valli dell’Indo, con il sanscrito: kan-; il mondo linguistico non conosce alcuna barriera).

Tornando a noi, i cantastorie veri e propri, quelli da noi conosciuti, adombrati dai racconti del nonno o da qualche parente, superstite alla morsa ferina del tempo, nascono dopo – a distanza circa di cinquecento anni – e fanno i cronisti, raccontando fatti successi, e si aiutano con un cartellone e descrivono fatti delittuosi. Tale figura si avvicina in modo particolare al puparo descritto da Gesualdo Bufalino nel Guerrin Meschino. Ripescando proprio questa fiaba cavalleresca, abbiamo ricordato in un articolo precedente che la suddivisione organica del testo avviene, per scelta dell’autore, in “cartelli”. Una scelta terminologica precisa che si riferisce chiaramente ai cartelli utilizzati negli spettacoli.

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2 G. Pitrè, Usi e Costumi, Credenze e Pregiudizi del popolo siciliano vol. I, cit., pag. 278

Passando dunque alla “componente materiale” non possiamo infatti parlare di Opra senza ricordare l’importanza artistica dei cartelli che come scriveva il Pitrè sono: “dipinti ad acquarello ritraggono varie scene della storia in corso di rappresentazione, e servono a chiamare l’attenzione de’ ragazzi, i quali si fermano a bocca aperta a contemplarli e spiegarli”.3

La storia dei cartelloni dell’Opra, degna di uno dei migliori racconti di Piero Chiara, va brevemente ricordata. Diciamo che l’alba di cotale fenomeno inizia solamente grazie all’idea di un frequentatore assiduo della Storia dei Paladini di Francia che la leggenda vuole fosse rappresentata a Catania agli inizi del secolo scorso. Il tale fu un certo Francesco Vasta, uomo di umili origini, ma di buon cuore, con una spiccata abilità per il disegno ad acquerello e a mano libera. Costui, non potendo pagare tutte le sere il biglietto d’ingresso per assistere agli spettacoli, che si ripetevano entro uno spazio improvvisato, spesso ai crocicchi delle strade più frequentate, propose al mastro-puparo, un gigantesco colosso bonaccione di carnagione bruna, quasi figlio per meiosi dell’Etna, di farlo entrare gratis al prezzo di una contropartita ben congegnata: il Vasta avrebbe fatto, a sue spese, le locandine per pubblicizzare l’evento della giornata.

Fu così che nel 1908 il Vasta iniziò a dipingere i cartelloni unendo due fogli di carta d’imballaggio con la colla, sui quali in un secondo momento dipingeva con la tempera le scene prima tratteggiate con un breve tratto di matita. Le scene avevano un filo logico ricercato costantemente, perché ogni scena rappresentava la scena madre di ogni capitolo della storia. Oggi le sue opere sono state documentate nel volume: “Eroi di Sicilia” dal professor Aurelio Rigoli. Del Vasta inoltre, che non pensava di passare alla storia di certo per essere il primo, e il più ingegnoso, degli spettatori non paganti dell’Opra, si sono conservate molte opere, di cui è proprietaria la regione Sicilia, che ne ha costituito un fondo.

Dopo la breve parentesi narrativa, oggi possiamo tristemente affermare che non s’intuisce più l’importanza culturale della trasmissione dell’epopea carolingia in Sicilia, e nondimeno dei fasti di un’arte affermatasi nella prima metà del XIX secolo. Tra le tante voci, che per la prima volta si sono agitate senza muovere i fili dei loro pupi, si annovera quella dell’antropologo Alessandro Napoli, che insieme ai suoi fratelli fa parte della Marionettistica F.lli Napoli4, il quale ha vissuto in primis questa crisi e ha rilevato la necessità di salvaguardare il teatro dei pupi e il “magistero del puparo”. A proposito di questi due elementi ne evidenziava l’indissolubilità e noi del resto non possiamo negare che il teatro dei pupi abbia solamente due ingredienti fondamentali: i materiali di produzione (dal metallo vile alle stoffe riciclate) e il magistero delle competenze del mastro puparo, accumulato da anni d’esperienza, vera fucina di storia medievale e tradizione sicula; i primi, quantunque logori o consunti, possono anche resistere nel tempo, o forse migliorarsi dato l’impulso delle nuove tecnologie e di una conoscenza più specifica nel modellismo dei caratteri; l’arte però, intesa come patrimonio di nozioni complesse non solo culturali ma anche umane e sociali, e figlia di uno studio meticoloso tramandato di padre in figlio, come un qualsiasi racconto orale, può scomparire non lasciando più tracce e ingiallirsi, sbiadire, scomparire.

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3 G. Pitrè, Usi e Costumi, Credenze e Pregiudizi del popolo siciliano vol. I, cit., pag. 160.
4 La marionettistica F.lli Napoli è la compagnia più importante a Catania; fondata da Gaetano Napoli nel 1921, è giunta alla quarta generazione senza interruzioni.

L’indole della gente nostra, citando nuovamente Pitrè, è un lontano ricordo, se si pensa che, nell’epoca di internet e della multimedialità, questa manifestazione artistica è riconosciuta a malapena (in tal caso la tirata sarebbe lunghissima e altresì veemente). La distanza fra tradizione e modernità è lo specchio del disinteresse odierno della società nei confronti del suo passato, della sua tradizione, della sua identità spirituale riposta come ciarpame in un ripostiglio.

“Puparo, non te n’andare”. “No”, ho risposto a tutt’e due.
“Quando una cosa finisce, finisce.
“Ma allora”, mi dissero, “anche Guerrino il Meschino?…”
E indicavano il pupo, penzoloni con gli altri da un chiodo della baracca.
“Morendo io, muore anche lui,”
Risposi e lo staccai dal muro, gli ruppi con due dita la noce del collo.
“Che fa, non l’avevate capito? Sono io, Guerrino il Meschino.”

E noi l’abbiamo capito che perdendo i pupari perdiamo una piccola parte di noi stessi? La memoria civica, sociale e civile, se non rinfocolata, smette d’ardere e si spegne. E non ci sarà nessuno araba fenice pronta a risorgere, a meno che una voce si levi ancora a raccontarla.

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