Tinto Brass: una passione libera – in forma di autobiografia

Articolo di Gordiano Lupi

Alcuni anni fa scrissi un libro sul cinema di Tinto Brass, intitolato Il poeta dell’erotismo, edito da Profondo Rosso, la casa editrice romana di Luigi Cozzi e Dario Argento. Non so davvero che fine abbia fatto, non ho neppure una copia in casa, non so dire se sia ancora in catalogo, mi è venuto a mente solo per il fatto che pure io – in buona compagnia – sono caduto nell’errore di scrivere che Tinto Brass è nato a Venezia. In realtà il Maestro è originario di Milano, ma il suo legame con la città lagunare è così forte che tutti ce lo scordiamo e appena pensiamo a lui ci vengono a mente immagini stupende delle calle veneziane, dipinte con quello stile tipico e quella fotografia che soltanto lui sa fare, con quel montaggio unico che è il suo vero marchio di fabbrica. Una passione libera è un libro che ogni appassionato di Tinto Brass non si può far mancare in biblioteca, perché il regista si racconta a cuore aperto, divide le fasi del suo cinema in maniera netta (prima e dopo Salon Kitty, per semplificare), affermando che quel che ha sempre voluto fare è trasgredire. Caterina Varzi, l’ultima musa del poeta dopo la scomparsa della cara Tinta, collabora alla scrittura e alla catalogazione dei ricordi. Apprendiamo dal testo che il Maestro avrebbe potuto girare Arancia meccanica e Nove settimane e mezzo, che per La chiave avrebbe voluto Silvana Mangano, in alternativa Sophia Loren, ma è comunque rimasto esaltato dalla prova fornita da una grandissima Stefania Sandrelli (che non l’ha mai rinnegato). Tinto Brass sfoga tutto il suo livore (giustificato!) contro una critica becera e da strapaese che non l’ha mai capito, mentre in Francia i suoi film sono molto apprezzati, da noi si è preso spesso l’accusa di pornografo. Non da Gordiano Lupi, per il poco che conto, da piccolo appassionato di cinema ho sempre amato i suoi film, sia la prima parte della carriera, psichedelica e surreale, che la seconda parte più improntata a un erotismo patinato e carnale. Indimenticabile Salon KItty con il suo discorso politico contro nazismo e dittatura, ma anche con un’interprete straordinaria come la bellissima Terese Ann-Savoy. E poi tutte le attrici scoperte e lanciate, come Debora Caprioglio in Paprika, altre rilanciate, come Sandrelli, Grandi e Galiena, in un mondo che le aveva in parte dimenticate. Leggete Una passione libera. Conoscerete il vero Tinto Brass.

Appunti sul cinema di Tinto Brass

Giovanni Brass, meglio noto come Tinto, nasce a Milano il 26 marzo 1933, da un famiglia borghese, ma presto si trasferisce a Venezia, suo vero luogo del cuore. Nelle sue vene scorre sangue d’artista, perché il nonno è il pittore Italico Brass, forse responsabile della sua voglia di raccontare per immagini. Non è facile credere che un uomo come Tinto Brass abbia studiato diritto, ma è così, perché nel 1957 si laurea in Giurisprudenza a Padova. La passione resta il cinema e il vero scopo della sua vita è sempre stato quello di lavorare nella fabbrica dei sogni. Alla fine degli anni Cinquanta Brass si trasferisce a Parigi, ricopre il ruolo di archivista presso la Cinémathèque e si avvicina agli ambienti della Nouvelle Vague. Cresce nella temperie culturale di una Parigi presessantottina, influenzato da Roland Barthes. Al ritorno in Italia, comincia a lavorare come aiuto regista, scuola basilare per chi vuole intraprendere la professione. I suoi maestri sono autori del calibro di Alberto Cavalcanti, Roberto Rossellini e Joris Ivens, dai quali apprende quasi tutto sulla tecnica e gli aspetti pratici del mestiere.

Il debutto alla regia avviene nel 1963, con il lungometraggio In capo al mondo (1963), noto anche come Chi lavora è perduto, apologo anarchico sul disagio giovanile, del quale cura sceneggiatura e montaggio. A proposito di questo film parte della critica parla di anarchismo umoristico, per classificare la storia di un giovane insofferente verso potere e istituzioni che non riesce a integrarsi nella società. Un vero e proprio sberleffo anarchico all’epoca dei miti e degli ideali, ma pure all’Italia del boom, realizzato da un edonista con una visione goliardica della vita. Tinto Brass mette su pellicola tutte le influenze francesi recepite durante l’esperienza parigina, usa il dialetto, esprime la storia secondo un flusso di pensieri non facile da seguire, anche per colpa di un montaggio frammentato ricco di soluzioni bizzarre. La censura del tempo resta scandalizzata, impone a Brass di girare da capo la pellicola, ma lui – irriverente e anarchico come pochi – si limita a cambiare il titolo da In capo al mondo a Chi lavora è perduto. Tutto il resto rimane immutato, anzi, il nuovo titolo rende il messaggio polemico ancora più esplicito. Il film vede la collaborazione in qualità di sceneggiatori di Franco Arcalli e Giancarlo Fusco, ma pure dell’ottimo musicista Piero Piccioni. Tra gli interpreti segnaliamo Sady Rebbot, Pascale Audret e Tino Buazzelli. L’ambientazione veneziana inaugura un legame tra Brass e la sua terra che non verrà mai meno e che ancora oggi risulta sempre più solido. Il protagonista (Rebbot) non ha voglia di impiegarsi in un lavoro che non ama e si lascia andare a un flusso di pensieri che ripercorrono episodi della sua vita. Una serie di flashback montati in modo rapido e frammentario raccontano la sua relazione con una donna (Audret), interrotta dopo un aborto a Ginevra, ma anche l’impegno politico di un amico (Arcalli) che viene rinchiuso in manicomio e di un altro (Buazzelli) che finisce in sanatorio. Il messaggio apolitico è chiaro: non è più tempo per le ideologie, così come non è il caso di illudersi per un finto boom che rientrerà presto.

In questo periodo Tinto Brass si concede un piccolo ruolo da attore nel film La donna è una cosa meravigliosa (1964) di Mauro Bolognini. All’interno dei suoi futuri lavori reciterà spesso preziosi cammei e lo vedremo in brevi apparizioni hitchcockiane.

Alcuni critici hanno cercato di ricondurre al discorso erotico anche la prima parte della produzione cinematografica di Tinto Brass, ma questa impostazione teorica non pare condivisibile. A nostro giudizio la carriera del regista  presenta due momenti abbastanza distinti. Salon Kitty (1975) fa da spartiacque tra il Brass sperimentale che ricerca una pura espressione formale e il regista che mette il sesso al centro della comunicazione. Questo non vuol dire che anche nel primo Brass non siano riscontrabili elementi erotici, spesso preponderanti e in bella evidenza, altre volte relegati in brevi sequenze. L’interesse per l’erotismo in Brass è sempre stato forte, come momento di trasgressione e libertà, ma il suo approccio alla materia si è andato modificando nel corso degli anni. Chi lavora è perduto presenta riferimenti erotici nei dialoghi, nei sogni, in alcune scene d’amore, ma anche nei momenti surreali con il protagonista che sogna di trasformare la casa paterna in un bordello. Non mancano accenni di voyeurismo, che Brass approfondirà nella fase matura, come ragazze in biancheria intima, seni nudi, rapporti sulla spiaggia, su un campanile e in casa. Ricordiamo anche la donna spiata con un cannocchiale mentre si pettina. 

Ça – ira il fiume della rivolta esce nel 1964 e compare nelle filmografie come il secondo lavoro del regista, ma è un lavoro di montaggio concepito nel 1962 e realizzato per dimostrare che “è più facile raggiungere la luna che la libertà e la giustizia”. Brass utilizza materiale di repertorio per montare un documentario trasgressivo, grazie al quale ripercorre la storia del Novecento, ma soprattutto delle rivoluzioni politiche e di costume. Si fa nemici sia a destra che a sinistra quando afferma che le rivoluzioni partono da un’aspirazione di libertà, poi si trasformano soltanto in mari di sangue destinati a creare altro potere. Brass vuol dimostrare che l’individuo non cambia mai ed è questo il grande problema dell’umanità, che non si può risolvere con la politica. Il sesso fa capolino come “infallibile deragliatore ideologico”, ma il tema resta nella fase di abbozzo. Sono tempi di ideologia e questo lavoro ha il limite del documentario didascalico, forse troppo tenero nei confronti di Lenin e Castro, terzomondista, incerto nel condannare l’invasione di Budapest, troppo prevedibile quando parla di Hitler e Mussolini. Il commento fuori campo è scritto da Gian Carlo Fusco, mentre lettori sono Tino Buazzelli, Enrico Maria Salerno e Sandra Milo. Produce Moris Ergas.

La mia signora (1964) è un film collettivo girato insieme a Luigi Comencini e Mauro Bolognini, composto da cinque episodi con protagonista Alberto Sordi e Silvana Mangano. Brass gira L’uccellino e L’automobile, due storie di diverso tenore rette dalla comicità di Sordi e dalla bellezza della Mangano. L’uccellino racconta l’esplosione di una furia omicida per colpa di un canarino, mentre L’automobile inserisce per la prima volta nel cinema di Brass il tema del tradimento, ma certo non impostato come nei lavori contemporanei. Il film è ancora convenzionale, segue i temi della commedia all’italiana classica, e presenta un Sordi che sopporta il tradimento della moglie, ma non regge al furto della sua automobile. Alberto Sordi e Silvana Mangano sono bravissimi. Tinto Bass si trova così bene con loro che decide di girare Il disco volante (1964) con identico cast artistico, integrato da Monica Vitti, Eleonora Rossi Drago, Piero Morgia ed Erika Blanc. Ci sono anche Carlo Mazzarella e Lello Bersani, ma nei panni a loro congeniali di due cronisti. Il soggetto è di Sonego, autore di fiducia del primo Sordi, ma non è il massimo dell’originalità perché si ispira a Un marziano a Roma di Flaiano. I marziani atterrano in un paese del Veneto, i carabinieri interrogano i testimoni, ma alla fine mettono tutto a tacere e le persone oneste finiscono in manicomio. Alberto Sordi è bravissimo a interpretare ben quattro ruoli distinti (prete, brigadiere, impiegato e nobile omosessuale). Niente di erotico, ma solo una sorta di fantascienza comica piuttosto scontata, a maggior dimostrazione che la carriera di Brass va separata in due fasi nettamente contrapposte. Antonio Tentori e Antonio Bruschini – propugnatori della tesi di una filmografia brassiana uniforme – individuano la tematica erotica nel personaggio di una marziana in tuta spaziale aderente con i seni protetti da sfere di vetro, ma la tesi appare un po’ sforzata. Secondo i due illustri autori il sesso esiste anche nei film che coprono il periodo 1963 – 1971, meno esplicito e usato come metafora, in funzione anarchica, contro ogni potere. Condividiamo il pensiero soltanto in parte, perché se è vero che esistono elementi erotici anche nel primo Brass è pur vero che rivestono un ruolo marginale rispetto alla ricerca stilistica e all’analisi di nuove forme espressive. Pare preferibile affermare che solo da Salon Kitty in poi il sesso diventerà fondamentale nel cinema di Brass, assumendo un ruolo di primo piano, sia come metafora contro il potere che come momento di totale liberazione individuale.

Yankee (L’americano) (1966) conferma la tesi esposta, perché è un classico spaghetti – western che presenta alcune sequenze girate con la cura per il dettaglio tipica del Brass erotico. Il cast è composto da Adolfo Celi, Philippe Leroy, Mirella Martin, Tomas Torres, Francisco Sanz, Franco De Rosa, Victor Israel, Pasquale Basile, Jacques Herlin e Giorgio Bret Schneider. Si tratta dell’unico western di Tinto Brass, che in questo periodo ama sperimentare i generi, anche se disconosce l’opera a causa di un’ingerenza produttiva in fase di montaggio. Brass esagera con lo sperimentalismo, vuol riproporre al cinema il linguaggio dei fumetti, fissando la macchina da presa su certi particolari (pistola, sperone…), spezzando il ritmo narrativo lineare tipico del genere. Il fumetto di Brass ricorda le suggestioni pittoriche di Dalì e De Chirico, ma soprattutto è arricchito dai disegni a colori di Crepax. Ne viene fuori un film interessante e insolito, anche se la produzione limita al massimo gli sperimentalismi perché vuole soltanto un buon prodotto commerciale. La mano di Brass si nota dal montaggio rapido, surreale, frenetico, ma pure nei dialoghi sopra le righe, da fumetto, e per un singolare uso delle luci. Secondo Bruschini e Tentori pure qui esiste una componente erotica, vero marchio di fabbrica brassiano, che va ricercata nel personaggio femminile di Mirella Martin, quasi sempre nuda e in atteggiamenti provocanti. Brass vorrebbe fare “un film a ideogrammi, come nella scrittura cinese, con un segno che indicava un concetto”. Non gli viene permesso. Il film è sceneggiato dal regista, con la collaborazione di Alberto Silvestri e Alfonso Balcázar Granda. Per i dialoghi collabora Giancarlo Fusco, mentre le musiche western sono di Nini Rosso. Yankee è Philippe Leroy, un americano che per intascare tutti i soldi delle taglie ingaggia una spietata lotta con il Grande Concho (Celi) e la sua banda. Puro cinema western, ricco di convenzioni e di schemi narrativi consolidati, con logico scontro finale in pieno attacco a un treno carico d’oro.

Col cuore in gola (1967) è ancora una volta cinema di genere. Brass sperimentare il giallo sexy, ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, dispone di un buon cast composto da Jean-Louis Trintignant, Ewa Aulin, Charles Köhler, Vira Silenti e Roberto Bisacco. Brass sceneggia il film con la collaborazione di Francesco Longo, Silvano Ippoliti e Pierre Lévy. Le musiche – intense e in sintonia con una storia a tinte cupe – sono del grande Armando Trovajoli. Brass si occupa come di consueto anche del montaggio, che caratterizza lo stile dei suoi film. La storia vede un attore francese (Trintignant) in tournée a Londra innamorarsi di una ragazza (Aulin) incontrata in stato di shock davanti a un cadavere. L’attore cerca di scagionare la donna dai sospetti, ma alla fine deve rendersi conto che è la vera assassina. Brass ricorre ancora una volta ai fumetti di Guido Crepax – consulente alla scenografia – inserendo disegni di raccordo tra le varie scene. Le tavole a colori realizzate dal popolare creatore di Valentina sono uno dei pochi esempi di lavoro a colori del fumettista erotico. Il film è un giallo tendente al noir con venature erotiche, a tratti classificabile come cinema pop sessantottino, ma ricco di scene intriganti interpretate dalla sensuale Ewa Aulin, in calze a rete bianche, legata e imbavagliata, addirittura irretita da un nano deforme. 

L’urlo (1968) è il classico film sessantottino, legato al periodo storico, un lavoro di protesta, anarchico, persino erotico, visto che è il primo film di Brass a mostrare nudi integrali e sequenze spiazzanti.  L’urlo è ambientato in un albergo infernale costruito a gironi, la protagonista fugge dal suo mondo borghese e dal matrimonio, realizzando un discorso di contestazione figlio dei tempi. L’erotismo diventa forte nella sequenza del treno, con la masturbazione di un prete davanti a una ragazza in calze nere che a sua volta si tocca. Si segnalano anche balli nudi di ragazzi beat, ma il culmine si raggiunge con lo stupro della protagonista da parte di un gruppo di soldati.

“L’urlo non è un film sul 68 è un film del 68”, chiarisce Brass, per dire che è stato realizzato in quel periodo e quindi non può che risentire di certe idee anarchiche e contestatrici. Resta un film provocatorio e libero, girato tra Roma e Londra, spesso improvvisando, interpretato da due bravi attori come Luigi Proietti e Tina Aumont (doppiata da Mariangela Melato). Il soggetto di partenza non supera le due pagine ed è tutto basato sulla fuga di una donna – non si sa quanto metaforica e quanto reale – che alla vigilia delle nozze decide di riappropriarsi della sua libertà, scappa via e manda all’aria tutto. La ragazza contestatrice segue un attore (Proietti) in un viaggio onirico, tra filosofi cannibali, case di piacere dai nomi assurdi (spermotel), soldati a caccia di hippie e un singolare manicomio. Tra i protagonisti troviamo anche Tino Scotti, Nino Segurini, Osiride Peverello, Germano Longo, Edoardo Florio, Giorgio Gruden e Attilio Corsini. L’urlo è un film surrealista sull’onda di opere come La montagna incantata e Sweet Movie, scritto e montato dal regista, che ne fa una sorta di Zibaldone al quale attingere per i film della maturità. I dialoghi sono di Proietti e Giancarlo Fusco, le canzoni di Fiorenzo Carpi, su testi di Brass. Il film è prodotto nel 1968, presentato a Berlino nel 1970, dove rischia di vincere l’Orso d’oro nonostante la contestazione, ma resta censurato in Italia fino al 1972.

Nerosubianco (1969) è il primo vero film erotico di Tinto Brass, realizzato con una tecnica fumettistica, ancora una volta ricorrendo a pregevoli inserti di Guido Crepax, divenuto famoso dopo il successo di Valentina. Il regista affronta il discorso del tradimento, visto non come trauma o tabù, ma come momento rivitalizzante della vita di coppia, tema che verrà sviluppato nel successivo Così fan tutte e sviscerato nelle opere dell’ultimo periodo (Monamour). Questo lavoro comincia a far capire l’ossessione erotica di Brass per il sedere femminile, fotografando Anita Sanders in plastici nudi, ma anche inserendo parti oniriche dove la protagonista sogna di avere rapporti con un uomo di colore. Nei titoli la parola eros è evidenziata in rosso, per mettere bene in chiaro il tema portante del film, che parla di sesso, amore libero e pacifismo. La pellicola è moderna: per la prima volta in un film italiano si racconta la storia d’amore e sesso tra una donna bianca e un uomo di colore. Brass perfeziona il suo progetto utilizzando la musica pop, un commento in diretta da parte di un gruppo musicale che mette in scena una sorta di minimusical. Siamo ancora sulla strada dei film sperimentali, della ricerca di linguaggio, dei nuovi mezzi espressivi, che prevaricano uno specifico discorso erotico. A Brass interessa cercare il modo migliore per esprimersi artisticamente più che il discorso da affrontare. Nerosubianco è uno dei suoi quattro film londinesi, città che affascina il regista per il clima trasgressivo e libertario. Il film è interpretato da Anita Sanders, Terry Carter, Nino Segurini, Umberto Di Grazia e dal gruppo musicale dei Freedom. Anita Sanders è un’affascinante signora borghese che esperimenta il libero amore insieme a un nero (Carter) nella cornice di una Londra in preda alle idee della contestazione giovanile. Le canzoni dei Freedom caratterizzano le atmosfere psichedeliche in voga nel periodo storico. Nerosubianco, visto con gli occhi dello spettatore contemporaneo, è un film datato, irrazionale, da controcultura pop. La critica del tempo non è tenera con un lavoro senza capo né coda che inserisce persino citazioni da Un chien andalou e da  Ça – ira il fiume della rivolta. Tinto Brass lavora anche al montaggio, come sua abitudine, e per la prima volta lo vediamo in un cammeo hitchcockiano, nei panni di un ginecologo. Sceneggiatura e soggetto sono di Tinto Brass, che per i dialoghi si avvale della collaborazione di Francesco Longo e Giancarlo Fusco.

Dropout (1970) è una nuova incursione nell’erotismo, caratterizzata dal solito approccio sperimentale e dalla ricerca linguistica. Tinto Brass è persino lirico nel suo elogio della follia e della poetica del quotidiano. Il soggetto e la sceneggiatura sono del regista, che si avvale della collaborazione di Francesco Longo e Roberto Lerici. Il montaggio è sempre di Brass che non si sognerebbe mai di affidarlo ad altri, perché ritiene la fase di assemblaggio immagini fondamentale per il ritmo e la riuscita del film. Gli interpreti sono: Franco Nero, Vanessa Redgrave, Luigi Proietti, Frank Windsor, Carlo Quartucci e Zoe Incrocci. Il film è ancora una volta ambientato a Londra e presenta qualche venatura da thriller – noir. Vanessa Redgrave è una signora borghese che si innamora del suo rapitore (Nero), un italiano scappato dal manicomio. Brass è tra i primi registi ad affrontare il tema della Sindrome di Stoccolma e riprende la singolare relazione amorosa che si sviluppa nel quartiere dei barboni (dropout). La signora borghese esce rivitalizzata dal rapporto, riscopre il piacere della vita e le gioie del sesso. Il film viene ignorato da critica e pubblico. Merita di essere riscoperto, sia per l’originalità della trama che per le interpretazioni dei protagonisti principali e di Proietti nella caratterizzazione di un cieco. L’erotismo di Dropout è malsano, in alcune sequenze di sadomasochismo e pissing fa presagire i film di critica al potere, che il regista svilupperà a partire da Salon Kitty in poi. Le storie narrate da Dropout sono racconti di emarginati, per dirla con Brass, di individui che gocciolano fuori dal sistema. Brass confida a Tentori e Bruschini: “A Vanessa Redgrave era piaciuto molto L’urlo. Avrebbe fatto volentieri un film con me, possibilmente insieme a Franco Nero. Ne venne fuori questo lavoro prodotto con poche lire, girato in sedici millimetri e poi gonfiato a trentacinque. Gli attori erano addirittura in partecipazione, ma non beccarono una lira, perché il film non ebbe alcun successo”.

Dropout è un film rivalutato dalla critica contemporanea. Basta consultare il Dizionario del Mereghetti per rendersi conto che – eccezionalmente – una pellicola di Brass ottiene due stelle e mezzo. 

In questo periodo Tinto Brass è un regista politicizzato. Nel 1971, ricordiamo la sua firma sulla petizione lanciata da L’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi e altri funzionari della questura e del tribunale di Milano. Nell’ottobre 1971 è tra i firmatari di un’autodenuncia pubblicata su Lotta Continua, nella quale esprime solidarietà verso militanti e responsabili del giornale inquisiti per istigazione a delinquere a causa del contenuto violento di alcuni articoli, impegnandosi a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato”. Il Tinto Brass di oggi non sembra la stessa persona.  

 La vacanza (1971) è interpretato ancora da Vanessa Redgrave e Franco Nero, che si erano trovati bene a lavorare con Brass. Il resto del cast è composto da Leopoldo Trieste, Corin Redgrave, Margarita Lozano e Germana Monteverdi. Si tratta di una nuova pellicola girata in sedici millimetri e successivamente gonfiata a trentacinque. La location è veneta, si gira a casa del regista, in presa diretta, senza ricorrere al doppiaggio, con un insegnante di dialetto che insegna alla Redgrave la corretta pronuncia. In questa pellicola, la Redgrave è una contadina veneta in libera uscita dal manicomio che si gode la vita insieme al bracconiere Nero e a un gruppo di balordi. Si tratta di un film più politico e di protesta rispetto al precedente, anche se la componente erotica è preponderante. La vacanza è un apologo – bizzarro ma col fiato corto – sulla follia come ribellione sociale ispirato a un ribellismo da osteria (Mereghetti). Il momento culminante de La vacanza è rappresentato da una contestazione in fabbrica che porta al rapido rientro in manicomio della donna. Soggetto e sceneggiatura sono del regista che collabora con Vincenzo Maria Siniscalchi, ma la storia è simile a Dropout, solo che la pazzia viene vista al femminile.

 La vacanza non ottiene alcun successo, produce scandalo al Festival di Venezia dove viene fischiato a scena aperta dal pubblico in sala. Brass risponde facendo il gesto dell’ombrello come Sordi agli operai sul finale de I vitelloni. Non crediamo che abbia voluto citare Fellini…

La vacanza segna la fine del primo periodo brassiano, quello della ricerca di una personale forma espressiva, del linguaggio e della sperimentazione dei generi. Nella seconda fase della carriera, è riduttivo dire che Brass “si converte al porno – soft” (Mereghetti), mentre pare più calzante affermare che si dedica alla pura comunicazione, realizzata con la scelta di una tematica erotica. Arrivano i film a grande impianto, non sperimentali, ma basati su solide storie, sceneggiate con cura, che lo portano a un dialogo serrato con il pubblico.

Il Brass del secondo periodo sarà oggetto di analisi dettagliata nel corso di questa trattazione dedicata a un regista esplicito e trasgressivo, sempre più interessato all’erotismo come mezzo per comunicare idee.    Tinto Brass realizza una polemica contro società e istituzioni servendosi del’erotismo, ponendo il sesso al centro della sua poetica. Analizzeremo le pellicole da Salon Kitty (1975) in poi mediante schede tematiche. In questa sede ci limitiamo a rapidi cenni per completare un quadro d’insieme sull’opera di Tinto Brass.

Salon Kitty (1975) rappresenta il primo grande successo di pubblico per il regista veneziano, è una grossa produzione che gode di una robusta sceneggiatura pensata da un professionista come Ennio De Concini. Il cast è eccellente, composto da grandi nomi come Ingrid Thulin ed Helmut Berger, ma buona parte del successo sta nella scelta della protagonista femminile, una semisconosciuta Thérèse-Ann Savoy che sfoggia un talento naturale, ma pure un fascino ambiguo e perverso. Salon Kitty sfida la morale e la censura, inaugura il sotto genere del nazi – erotico (da molti erroneamente definito nazi – porno) e subisce vistosi tagli per poter uscire. La pellicola rappresenta la prima vera lotta tra Brass e la censura, ma quest’ultima ha la meglio al punto che il regista decide di non riconoscere la versione proiettata nelle sale. Salon Kitty è un film morboso che racconta un sesso malsano, tra amplessi, orge, uccisioni, sadismo e accoppiamenti con mostri. Questa pellicola inaugura la trilogia sulla follia del potere che si completa con Io, Caligola (1979) e Action (1980). opere dai toni cupi, nelle quali il sesso è uno strumento per far capire le perversioni del potere.

 Io, Caligola (1979) viene massacrato dalla censura, forse più di Salon Kitty, perché quel che resta del film non mostra niente di ciò che avrebbe potuto essere se il regista fosse stato lasciato libero di esprimersi. Il film viene girato nel 1976 ed esce in due versioni, entrambe non riconosciute da Brass che entra in polemica con il produttore Bob Guccione e con lo sceneggiatore Gore Vidal. Io, Caligola non è più un suo film, restano poche scene rimontate a segnare il suo stile inconfondibile, ma lo spirito anarchico e contro il potere che Brass voleva inserire si perde per sempre. Tra le scene migliori ricordiamo il rapporto incestuoso tra Caligola e la sorella, l’orgia con  i nani deformi, gli uomini in trappola e poco altro. Da segnalare le grandi interpretazioni di Malcom Mc Dowell nei panni di Caligola e di Thérèse-Ann Savoy come perversa sorella incestuosa. Il film dà vita al sotto genere (di breve durata) dei Caligola movies, capitanati da Caligola… la storia mai raccontata (1982) di Joe D’Amato, che si ritaglia un posto di primo piano nella ridda dei pedissequi imitatori. Salon Kitty e Io, Caligola sono due kolossal sul potere, che dovevano completarsi con un film a grande impianto produttivo sulla vita dei Borgia, il vero terzo capitolo sulla follia del potere, ma questo lavoro è rimasto nel libro dei sogni di Tinto Brass. Il progetto Borgia viene a lungo vagheggiato dal regista veneziano, ma allo stato attuale esiste solo il copione. Si tratta di un duro attacco al potere temporale della Chiesa, difficile da realizzare visto il clima del tempo, ma impossibile a riprendere in mano oggi, visto il tipo di film che il mercato richiede. Alessandro Borgia viene visto nel suo ruolo storico di pessimo pastore di anime, forse ne verrebbe bene una fiction televisiva, ma non ci pare che Brass sia il regista più adatto per il mezzo televisivo. In realtà l’idea del film sui Borgia viene prima di Salon Kitty, che rappresenta un ripiego di lusso.

 Nel 1980 il regista veneziano gira Action, metafora sul potere a basso costo, ancora una volta in sedici millimetri e poi gonfiato a trentacinque. Pure in questo film, il sesso non è usato in senso erotico ma come metafora della violenza sessuale, come sfogo nei confronti del mondo cinematografico, soprattutto come atto di accusa verso i produttori. Brass esibisce il suo status di cinefilo, di divoratore di pellicole, interpreta il ruolo di regista di un finto poliziesco e rende un surreale omaggio al cinema. Luc Merenda è il protagonista di Action, film irrazionale che segue le azioni del protagonista in una Londra cupa e periferica. Ricordiamo una parte brillante sul set di una produzione hard dove il regista sottolinea la differenza tra porno ed erotismo.

Action non va bene al botteghino e delude la critica che deve attendere anni per rivalutarlo e capirlo fino in fondo. Per questo motivo Brass si ferma qualche anno, pure per colpa delle vicende giudiziarie legate a Io, Caligola. Tra l’altro nelle sale italiane esce prima Action, perché il film prodotto da Bob Guccione subisce uno stop di due anni, esce per una settimana, fa un incasso favoloso e viene sequestrato. Brass viene condannato a Bologna per oscenità, rifiuta l’amnistia e finalmente è assolto in Cassazione.

La chiave (1983) fa uscire Tinto Brass dallo stallo ed è un grande successo che riporta in auge Stefania Sandrelli in un ruolo malizioso e sensuale da splendida quarantenne. La bella attrice toscana accetta di interpretare un ruolo morboso e senza veli soltanto perché attraversa un momento delicato della sua carriera. Non viene neppure pagata molto, perché ha bisogno di lavorare per non essere dimenticata. La sua scelta sarà felice perché La chiave è una svolta per la sua carriera. Il film inaugura un nuovo periodo nella produzione artistica del regista veneziano, segnato da un erotismo vitale, gioioso, liberatorio e anarchico. Da La chiave in poi il sesso è sempre in primo piano e non viene più utilizzato come metafora o strumento per dire qualcosa di diverso da una semplice esibizione dei corpi. L’erotismo non è più un mezzo ma un fine, la sola cosa che conta nella vita, pare dire il regista, ed è importante viverlo senza inibizioni.

La chiave è uno dei film più riusciti di Tinto Brass, ispirato al romanzo di Tanizaki, ma ambientato a Venezia nel periodo fascista per realizzare una credibile cornice storica italiana. Brass insiste sulla caratterizzazione di ambienti ricchi di luci, specchi e rifiniture d’epoca, il tutto ben fotografato e reso credibile da un intrigante sottofondo musicale. La macchina da presa comincia a muoversi sempre di più nei dettagli dei corpi, spia in profondità le parti intime della protagonista femminile e riprende espressioni lussuriose di masturbazioni e penetrazioni. Brass racconta la storia di un marito che per analizzare i rapporti con la moglie scrive un diario e ricorre a una serie di provocazioni. La moglie diventa uno strumento per la sua eccitazione, prima con le foto, poi facilitando il tradimento con il fidanzato della figlia. La moglie sta al gioco, pure lei annota le sue emozioni su un diario – escamotage prelevato dal romanzo di Tanizaki – e si lascia andare al vortice dei sensi. Il protagonista soffre di cuore, ma non si limita e resta vittima della sua trasgressione, muore mentre fa l’amore vestito con calze e giarrettiere della moglie. L’ambientazione fascista alla vigilia della seconda guerra mondiale cerca di contrapporre il disordine morale di un uomo che arriva a spingere la moglie nel letto di un altro, con il presunto ordine morale fascista. Inutile dire che Brass giudica più criminale il falso ordine che il vero disordine.

Il regista avrebbe voluto girare un film come La chiave sin dai tempi di Chi lavora è perduto, perché nel 1965 legge il romanzo di Tanizaki e se ne innamora al punto di opzionare i diritti. Brass non trova produttori abbastanza coraggiosi per realizzare il progetto, ma forse è meglio così perché negli anni Sessanta sarebbe stata un’operazione destinata al fallimento. Brass lascia scadere l’opzione e il film viene realizzato dai giapponesi, ma il regista veneziano non si dà per vinto e alla fine degli anni Settanta acquista a caro prezzo i diritti di utilizzo dell’opera dalla moglie del defunto scrittore. Giovanni Bertolucci è l’unico produttore che si discosta dal coro dei no, accetta di realizzare La chiave e vince la scommessa, perché riscuote un grande successo. Brass s’inventa che Tanizaki avrebbe vinto un Nobel per la letteratura, il produttore ci crede al punto che lo scrive persino sui manifesti. La Stampa di Torino scopre il piccolo inganno, ma è troppo tardi, ormai la gente affolla le sale, non tanto per il presunto Nobel di Tanizaki, quanto per una Stefania Sandrelli nuda e maliziosa come non si era mai vista. Per la bella attrice viareggina comincia una seconda giovinezza e arrivano una serie di proposte finalizzate a ribadire un identico ruolo da donna intrigante e sensuale (Una donna allo specchio del 1984, realizzato da Paolo Quaregna, ma anche L’attenzione del 1985 di Giovanni Soldati). Joe D’Amato – grande imitatore dei maestri e dei generi – si ispira al Tinto Brass de La chiave per realizzare film erotici apprezzati da critica e pubblico come L’alcova (1985), Il piacere (1985), Voglia di guardare (1986), Lussuria (1986), interpretati da attrici sensuali come Lilli Carati, Laura Gemser e Jenny Tamburi.

Miranda (1985) mostra ancora di più un sesso giocoso, solare e liberatorio, senza implicazioni intellettuali, a parte un minimo riferimento alla commedia di Goldoni. La pellicola lancia Serena Grandi nel mondo del cinema, accentua i giochi di specchi, le riprese ginecologiche, l’esibizione in dettaglio dei corpi femminili e il ruolo libero della donna all’interno del rapporto. 

Capriccio (1987) si ricorda per il lancio di Francesca Dellera, nuova maggiorata scoperta da Tinto Brass, mai fotografata così bene come in questo lavoro ricco di sequenze maliziose e sensuali. Il riferimento letterario è Lettere da Capri di Mario Soldati, ma Brass si ispira molto liberamente al romanzo, permea il film della sua filosofia inserendo il tema del tradimento come rimedio alla crisi di coppia e capovolge il finale, a suo modo di vedere troppo pessimista. Soldati non concorda con l’adattamento cinematografico, per questo Brass modifica il titolo, elimina il senso di colpa che pervade il romanzo (inconcepibile, visto che il tradimento è una botta d’allegria), lo semplifica e lo rende più sereno. La Dellera che orina nel radiatore di un’auto è ancora più trasgressiva della Sandrelli che fa pipì tra le calli veneziane.

Snack Bar Budapest (1988) rappresenta un passo indietro ed è un film che non riscuote alcun successo, forse perché il pubblico di Brass si attende un nuovo eccesso erotico invece di un noir interpretato da Giancarlo Giannini che riporta alle atmosfere cupe e angosciose di Con il cuore in gola. Brass è affascinato dal cinema nero noir e di tanto in tanto torna al genere, ma i risultati stilistici non sono esemplari.

Paprika (1991) è di nuovo un successo. Brass lancia Debora Caprioglio come nuova sensuale bomba erotica e rende omaggio al mondo delle puttane in un’operazione che ricorda il Fellini di Roma (1972) e di Amarcord (1974), pur con i distinguo intellettuali del caso. La Caprioglio è la nuova formosa bellezza con il volto da bambina maliziosa che ricorda le maggiorate dei fumetti porno anni Settanta – Ottanta. La sua solare ingenuità da ventiduenne, un corpo stratosferico, il sorriso malizioso, intrigano il pubblico che riempie le sale per assistere al nostalgico inno ai casini e a un annunciato scandalo antifemminista. Brass racconta le case chiuse, le ricorda con nostalgia, come un fenomeno positivo legato ai tempi, un luogo dove si faceva erotismo vero, da riscoprire. La sua puttana, infatti, compie una scelta di vita e non si ritiene sfruttata, è solare, giocosa, ama far l’amore, pensa che quel mestiere sia un modo come un altro per mettere da parte un po’ di soldi. Brass confessa di essere stato un assiduo frequentatore dei casini, non ne rimpiange la chiusura, dice che adesso non avrebbero più senso, ma che sono stati un luogo importante ai tempi in cui le donne non la davano. Brass descrive le puttane dal suo punto di vista, con gioiosità, perché non tutte sono state vittime, come certo cinema e certa letteratura le hanno rappresentate. “Gli operai non sono meno vittime quando vendono le loro braccia”, sostiene Brass.

Lo slogan di lancio “Tinto Brass riapre le case chiuse”, dà il via a polemiche sulla stampa e a numerosi sit-in di protesta da parte delle femministe. Si comincia a riparlare anche di un’anacronistica riapertura dei casini, argomento che di tanto in tanto torna alla ribalta della cronaca. “A suo tempo il casino ha svolto un’importante funzione sociale come unico sfogo maschile. La donna doveva essere vergine e moglie fedele. Per fortuna adesso il problema della verginità è risolto…”, commenta Brass.

Debora Caprioglio, dopo questo film, viene contattata per altri erotici maliziosi come Saint Tropez Saint Tropez (1992) di Castellano e Pipolo e soprattutto per il morboso Spiando Marina di Sergio Martino (1994). Riuscirà a tirarsi fuori dal cliché erotico grazie a Francesca Archibugi (Con gli occhi chiusi, 1994) e a molta fiction televisiva. Debora Caprioglio, prima della scelta di Brass, si era fatta notare soltanto come moglie del sessantenne Klaus Kinski, che l’aveva voluta accanto in Paganini (1990) e in Nosferatu a Venezia (1988) di Augusto Caminito. Nell’intervallo tra i due film aveva interpretato anche un piccolo ruolo ne La maschera del demonio (1989) di Lamberto Bava, remake del capolavoro paterno.

Così fan tutte (1992) lancia un’altra attrice erotica come Claudia Koll, adesso convertita sulla via di Damasco e dedita a ben altre attività,  ma soprattutto approfondisce la tesi del tradimento come momento vitale per la coppia. La macchina da presa si spinge a perlustrare in profondità i corpi femminili e le rotondità delle natiche. Brass mostra il mostrabile, gira con una tecnica vicina al porno, ricca di giochi di luce, specchi, fotografia soffusa e inquadrature ruffiane. Claudia Koll è una bellezza diversa dal tipo di dona abbondante amato da Brass, ma irretisce il pubblico grazie a un fascino conturbante. La pellicola affronta il discorso dell’immaginario erotico femminile soffocato per decenni. “La fedeltà è contro natura, sia per l’uomo che per la donna, è soltanto un retaggio della religione ebraica”, afferma Brass. Il titolo è un omaggio a Mozart in occasione del bicentenario.

In questo periodo della carriera di Tinto Brass si inserisce una pellicola cominciata e mai portata a termine: Tenera è la carne (1993), della quale restano solo poche foto di scena e un po’ di materiale girato. Brass tenta di adattare al grande schermo Il macellaio di Alina Reyes, operazione riuscita nel 1998 ad Aurelio Grimaldi con modesti risultati. Brass vorrebbe ambientare la storia a Venezia, invece che nella Parigi nebbiosa descritta dalla Reyes ne Le boucher (1989), per trasformarla in una torrida storia erotica. Il copione parla di una giovane ragazza insoddisfatta della relazione con un coetaneo che nel periodo estivo si impiega presso un macellaio e viene concupita dal garzone di bottega. L’interprete principale avrebbe dovuto essere una giovane attrice spagnola scoperta da Brass, ma nel cast spiccavano Renzo Rinaldi (proprietario della macelleria), Gloria Sirabella e Barbara Cavallari. Il film non giunge a termine per la morte improvvisa del produttore, Giuseppe Giovannini, dopo due settimane dall’inizio delle riprese. Dalle poche immagini che restano si arguisce che Tenera è la carne non aveva niente delle cupe e angosciose atmosfere de Il macellaio di Aurelio Grimaldi, interpretato da un’inespressiva Alba Parietti.

 L’uomo che guarda (1994) fa esplodere la tematica della sessualità femminile sulle orme di un romanzo di Moravia che mette in primo piano la vitalità della donna. L’uomo non comprende e si limita a guardare, perché la vita intorno a lui viaggia ad altri ritmi. Il protagonista maschile è un uomo in crisi, condizionato da una donna che sa quello che vuole e che finisce per spiazzarlo. La figura paterna, invece, incarnata da Franco Branciaroli, rappresenta l’uomo d’un tempo, libertino e tutto d’un pezzo. Tinto Brass prova a dire che uomo e donna hanno pari diritti, il rapporto non va impostato come una guerra, ma secondo la reciproca possibilità di cambiare partner. Il film è voyeuristico sin dal titolo e tenta (ma non ci riesce) di lanciare una nuova star come Katarina Vasilissa.

Tinto Brass pare vivere di rendita, nei film successivi si cita spesso, si interessa di visioni erotico – sessuali esibite con sempre maggior libertà, impostando le storie su tematiche consolidate.

 Fermo posta Tinto Brass (1995) è una pellicola insolita, una sorta di film a episodi che nasce dalle lettere ricevute dalle spettatrici e racconta le fantasie erotiche e le perversioni del pubblico femminile. L’attrice lanciata dalla pellicola è la bionda Cinzia Roccaforte, segretaria priva di mutandine che non impressiona più di tanto l’immaginario erotico maschile. Il film passa in rassegna storie di esibizionisti, scambisti, voyeurs e semplici prostitute, ma alla fine vediamo pure il regista nelle vesti di domatore con in mano un fallo proboscide per tenere a bada il suo harem femminile. Non è un lavoro memorabile.

In questo periodo Tinto Brass avvicina Alba Parietti e tenta di concretizzare un progetto di realizzare un film insieme, ma non si tratta de Il macellaio, come parte della critica erroneamente sostiene. Brass non reputa adatta la Parietti per quel ruolo, anche se Grimaldi la utilizzerà al meglio delle sue doti fisiche. Il regista corteggia  a lungo la soubrette ma l’approccio finisce in lite perché tra i due non c’è feeling. La Parietti rifiuta di concedere il suo posteriore alla macchina da presa di un maestro dell’erotismo, ma finisce nel cast del pessimo lavoro di Grimaldi per poi scomparire definitivamente dal mondo del cinema. Forse ha ragione Brass quando dice che la Parietti è un’ottima show woman, ma una modesta attrice. Il regista veneziano voleva fare con lei Invisible lovers (Una coppia senza volto), pellicola che resta nel libro dei sogni e che possiamo apprezzare soltanto come abbozzo di sceneggiatura. Alba Parietti avrebbe dovuto essere una madre di famiglia che si fa convincere da un’amica stilista a utilizzare internet, così facendo conosce un regista teatrale e resta coinvolta in un rapporto virtuale. L’uomo racconta alla donna le sue fantasie erotiche e la spinge a metterle in pratica in un crescendo di sensuale morbosità.

Monella (1998) è un nuovo film erotico giocoso e liberatorio ambientato nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, che vede il ritorno di Serena Grandi nei panni della madre di Monella. Anna Ammirati – a detta di Brass una ragazza napoletana scelta per caso – è la nuova protagonista femminile, ma il suo successo è effimero e a distanza di dieci anni nessuno si ricorda più di lei. Il film si segnala per un’esposizione sessuale sempre più libera, dettagli anatomici a livello ginecologico e vere sequenze di pissing (ormai un topos del regista). I confini tra l’erotismo estremo di Brass e l’hard si fanno sempre più labili, pure se è vero che conta molto il linguaggio con cui si racconta una storia, non tanto ciò che si racconta.

Corti-circuiti erotici (1999) si compone di dodici cortometraggi erotici usciti in cinque cassette, ma non è un lavoro memorabile di Brass che si lascia andare a un erotismo prevedibile difficilmente giustificabile. Il regista intervalla le sequenze narrative con frasi sullo stile e sul vero erotismo, sulla forma e sul contenuto, ma non convince. Gli episodi sono interessanti per gli amanti dell’ultimo Brass, vicino al cinema hard e poco interessato ai contenuti narrativi.

Nel 1999 Tinto Brass interpreta la parte di un giudice sporcaccione in una divertente parte onirica del modesto film Lucignolo, diretto e interpretato da Massimo Ceccherini.

Tra(sgre)dire (2000) rappresenta un piccolo passo avanti a livello di storia, ma siamo sempre alle prese con un Brass tutto sesso che ripete e cita se stesso, giocando a scandalizzare per le situazioni estreme contenute nella pellicola. La nuova bellezza svestita si chiama Yuliya Mayarchuck e le sue grazie generosamente esposte servono ancora una volta ad affermare che il tradimento salva il rapporto di copia. Si sprecano le riprese ginecologiche con primissimi piani sui genitali e sul sedere della bionda ucraina. Il film rimastica cose già dette.

Senso ’45 (2002) non convince critica e pubblico, ma rappresenta un deciso miglioramento rispetto alla media della sua produzione dopo L’uomo che guarda. Prima di tutto abbiamo il ritorno a un film con una produzione importante, si tenta di raccontare una storia d’amore e guerra, vengono utilizzati attori degni di questo nome, sceneggiatura e fotografia sono molto curati. Sembra di tornare ai tempi di Salon Kitty anche perché la storia è ambientata a Venezia nel 1945, in piena invasione nazista. Anna Galiena è la presenza femminile che tenta di ricalcare le orme di Stefania Sandrelli al tempo de La chiave, ma non ci riesce, sia perché i tempi sono cambiati, sia perché non è l’attrice più adatta a interpretare scene erotiche. Gabriel Garko è il bel nazista che concupisce la matura italiana, portandola via a un funzionario fascista ben interpretato da Antonio Salines. Brass sceneggia, gira e monta il racconto Senso di Camillo Boito, già alla base del grande film di Luchino Visconti (1954), ma non vuole fare un semplice remake, bensì dare una sua interpretazione alla storia. Il film è decisamente erotico, ricco di dettagli anatomici e di sequenze bollenti, secondo lo stile dell’ultimo Brass. Anna Galiena è molto nuda ma non sempre a suo agio nelle scene di sesso, tanto che spesso viene controfigurata. Gabriel Garko se la cava bene e non ha molte remore a mostrarsi come mamma l’ha fatto. La recitazione non è ai massimi livelli, così come i dialoghi non sono immuni da pecche, ma Brass ha voluto conservare il sapore originale del racconto. Non condividiamo gran parte della critica che contesta persino il finanziamento pubblico, perché Senso ’45 non è un lavoro inutile e descrive un periodo oscuro della nostra storia. 

Il disinteresse della critica e la freddezza del pubblico nei confronti di quello che consideriamo il miglior film del Brass ultimo periodo, porta il regista a rientrare nei ranghi del consueto discorso erotico.

Vengono fuori due lavori modesti come Fallo! (2003) e Monamour (2005) che ripetono schemi e situazioni del passato, producendo solo distacco e disinteressa da parte del pubblico.

Fallo! è un film a episodi che vede interpreti Sara Cosmi e Raffaella Ponzo, ma ripete sino alla noia il vecchio tema del tradimento come metodo rigeneratore per una coppia in crisi.

Monamour è un film ispirato al romanzo Amare Leon di AlinaRizzi,adattato alla solita tematica del tradimento, ma questa voltaBrass non prova neppure a proporlo nelle sale e lo fa uscire solo in dvd. Le attrici protagoniste sono la russa Anna Jimskaya e la slava Nela Lucic, ma è finito il tempo che ogni nuova fiamma di Brass diventava famosa.

Il 9 agosto 2006, a Merano, muore la moglie di Tinto Brass, la veronese Carla Cipriani (detta Tinta), assistente e collaboratrice in quasi tutti i suoi film. Brass non sarà più lo stesso.

Nel settembre 2006, Brass presenta a Napoli un libro di ventidue pagine dall’emblematico titolo Elogio al culo, vero e proprio testamento spirituale delle sue passioni. Non mancano frasi storiche come “il culo è lo specchio dell’anima” e “mostrami il tuo culo e ti dirò chi sei”. Nel 2007, Tinto Brass si trova al Festival del Cinema Mediterraneo di Montpellier e coglie l’occasione per annunciare che sta scrivendo il soggetto di un nuovo film: Vertigini, ambientato nella Venezia contemporanea. Vertigini dovrebbe raccontare la storia di un anziano professore veneto che, caduto in depressione, ritrova la vitalità quando scopre di provare forte attrazione erotica per la giovane nuora. Il progetto non parte ed è ancora riposto nel libro dei sogni.

Nel 2008, Brass annuncia un nuovo film: Ziva, l’isola che non c’è.  Il soggetto racconta le vicissitudini di una donna che, durante la seconda guerra mondiale, vive su un’isola croata insieme al marito. Ziva conosce alcuni soldati di varie nazionalità, e li convince a disertare la guerra. La protagonista è Caterina Varzi, un’avvocatessa che Brass dice di aver incontrato per caso, proprio come Anna Ammirati, interprete di Monella. In realtà la Varzi curava gli interessi legali di una società di distribuzione che voleva realizzare un dvd dedicato alla carriera di Brass. Le riprese del film sono contemporanee alla scrittura di questo testo (2009) e gli esterni vengono girati in Croazia e a Venezia.

Tra tanti progetti incompiuti, Brass realizza Il favoloso mondo di Tinto Brass (2009), ultima produzione in ordine di tempo, destinata ai canali satellitari di SKY e al mercato dvd, come nuova variazione sul tema dell’erotismo, simile ai Corti-circuiti erotici di dieci anni prima. Tra le attrici degli episodi troviamo anche Caterina Varzi, la futura  (mancata) interprete di Ziva, l’isola che non c’è.

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