Filologia. Dai filologi antichi al metodo di Lachmann: l’arduo compito del filologo

Articolo di Armando Giardinetto

Immaginiamo di avere davanti a noi dieci fogli che riportano, bene o male, lo stesso testo e immaginiamo che il testo iniziale sia un riassunto passato dalle mani dello studente-proprietario a quelle di un altro compagno di classe che, a sua volta, ha dato il suo personale testo a un altro compagno che lo ha ricopiato e così via per svariate volte. Uno studente alla volta, quindi, ha ricopiato sul proprio foglio il riassunto che gli è stato dato e durante la trascrizione ognuno, a sua volta, ha trovato sicuramente delle parole scritte male che ha riportato; delle frasi incomprensibili che ha liberamente interpretato e scritto; delle parti di testo mancanti che ha completato; dei brevi concetti esposti dal compagno, ma che a lui sembravano insensati e per questo li ha modificati a suo piacimento. Ora immaginiamo di mischiare il testo originale con le nove copie e di chiedere ad un altro studente estraneo ai fatti di cercare l’autentico. Come farà a risalire al testo autografo? In sostanza questo è il compito del filologo. Già alcuni studiosi di popoli antichi ebbero la passione per la filologia. I filologi alessandrini, per esempio, presero in esame le primissime edizioni dell’Iliade e dell’Odissea e adottando l’Usus scribendi – il modo di scrivere dell’autore – per ridare alle sopraccitate opere la loro originale correttezza formale, sintattica, grammaticale, morfologica, verosimilmente usata da Omero. Grazie a questa tecnica risalivano, infatti, alle vere espressioni omeriche evitando, così, di far circolare versioni non veritiere delle opere. D’altra parte, grazie a l’Usus scribendi, molti filologi, anche moderni, sono stati in grado di attribuire a questo o a quell’autore, o ad un determinato periodo, un’opera che appariva anonima. Tra gli antichi Romani, invece, ci fu Varrone che, applicando il metodo proprio degli alessandrini, si prodigò a determinare le opere originali di Plauto.

D’altra parte non possiamo non citare i monaci amanuensi del medioevo che pazientemente copiavano sui codici – anche se non sempre fedelmente – i testi antichi scritti su papiro che naturalmente andavano frantumandosi sotto il peso dei secoli. Importantissimo fu il lavoro del filologo romano Laurentius Vallensis (1407 – 1457) che riuscì a dimostrare la falsità della “Donazione di Costantino” perché scritto in un latino non in uso nel IV secolo pertanto il testo, nel 1440, venne ritenuto falso. Questo discorso ci introduce al “metodo stemmatico” – teorizzato dal filologo tedesco Karl Lachmann (1793 – 1851) – grazie al quale ancora oggi vengono rese pubbliche le edizioni critiche (pubblicazioni di testi che rispecchiano la forma originale dell’opera così come voluta dall’autore) di un testo dei classici greci e o latini. Nel 1850 per la prima volta, con l’edizione del De rerum natura di Orazio, vennero messe in atto le procedure di tale metodo. La prima fase del metodo di Lachmann è la “Recensio”, che chiama in causa i testimoni – copie del testo originale che è andato perduto – che, per l’appunto, testimoniano il contenuto del testo autografo e tutti i testimoni costituiscono la tradizione dell’opera.

La Recensio prevede varie operazioni tra cui la raccolta e il confronto dei testimoni. Oggi i filologi moderni, attraverso il confronto e la comparazione, individuano le differenze tra i manoscritti, elaborando le lezioni corrette, sospette o sbagliate e, durante la comparazione, vige la lectio difficilior potior , cioè le varianti più difficili sono probabilmente quelle originali. Sopra si è detto che spesso il testo originale risulta perduto e che bisogna attenersi alle copie. Ebbene, è il caso dell’Opera per eccellenza della letteratura italiana, la Divina Commedia, di essa non abbiamo l’originale tanto che oggi nessuno può dire quale delle numerosissime edizioni critiche si avvicina all’idea di scrittura iniziale del Sommo Poeta anche perché lo stesso Dante non diede avvio ad una diffusione dell’opera regolare poiché diffondeva, per esempio, gruppi di canti delle tre Cantiche piuttosto che l’opera per intero (alcuni canti dell’Inferno con alcuni di canti del Paradiso e altri del Purgatorio). A questo si aggiunga che i primi testi contenenti i 100 canti al completo venivano tratti da diversi codici che contenevano non tutti i canti per ogni Cantica, generando di conseguenza molti errori di contaminazione. Lo studioso, per fare esempio, prendeva 20 canti della prima Cantica da un codice, 5 da un altro e 9 da un altro ancora e così via per la II e la III Cantica. Boccaccio, dal canto suo, diede un’edizione critica della Divina Commedia dopo aver corretto “a suo piacimento” gli errori dati nei codici che prese in considerazione. Se è difficile dire quale dei dieci riassunti è quello originale, immaginiamo un po’ a costruire un’edizione critica di un testo molto antico, da cui sono state tratte molte copie. Pertanto si può dire che veramente è faticoso il lavoro del filologo.

Foto: studenti.it

Related Articles