“Dagli Appennini al Tirreno”, poesie in forma di racconto tra Piombino e le Marche

Articolo di Redazione

Pensati in classe, tredicenne,/ mani strette in grembo,/ pensati in uno stadio,/ dopo la partita, sotto la doccia,/ pensati in riva al mare,/ costume disciolto,/ vergogna e pensieri,/ pensati con tuo padre,/ domenica mattina,/ non a messa, per mano,/ a messa non andava, lungo/ le strade, in corso, camminare,/ calcio e partite, pensati/ nella città di mare[…] nel passato sfumato/ di ricordi, voce nel vento,/ tigli e cancelli bronzei/ d’una scuola antica./ Pensati bambino, gabbiani/ malati, cappotti di passanti/ mossi dal vento, spighe/ di gramigna, cardi e ortiche./ Pensati nel Luna Park/ del tuo ritorno, San Rocco,/ Campo degli Ulivi, Bar Stella,/ sassi e ricordi, polvere antica.

C’è in questo bellisimo prologo poetico di Gordiano Lupi tutto il suo mondo interiore, la sua storia individuale, la sua geografia psichica, e tutto contestualizzato nel paesaggio fisico, che diviene quello esistenziale, da lui trascorso, summa di ricordi e speranze e nostalgia. Nostalgia… etimologicamente il ritorno al paese+ il dolore, la tristezza. Tutti abbiamo una nostra Itaca. Per Gordiano è Piombino, a cui fare sempre ritorno, anche quando non è stata mai abbandonata. Un sentimento fecondo, costruttivo, inevitabile, una fertile malinconia, se vuoi veramente comprendere cose e casi della vita.

Lo stesso sentire provato ed esplicitato nelle forme poetiche di Fabio Strinati, che vive verso un altro mare, sugli Appennini che separano senza separare. Dal Tirreno all’Adriatico è la stessa temperie dell’anima. Due generazioni diverse, due stili diversi, altri luoghi, e una comunanza che supera le distanze, una comunione artistica da un humus di sensibilità attenta, empatica nei confronti della Natura e degli eventi che ci determinano come esseri umani. Non possiamo dimenticare che siamo fabbriche di ricordi – processo che dura tutta la vita – e macchine sentimentali; siamo radici e alberi al vento, siamo i luoghi che ci hanno generato e veduto transitare, che abbiamo modificato e che ci hanno modificato, siamo il loro genio. Ciò che è ben visibile nella poesia di Fabio, bucolica, dolcemente dolente talora, in un processo d’immedesimazione, con le figure della personificazione, in un sapiente gioco di identità multiple. Come ne  IlnespoloNella solitudine perpetua/e sotto una quercia (sapiente, secolare)/ricoperta d’edera nell’essenza rustica,/riavvolta nel mistico mistero s’alza il vento/tra il ciondolio dei frutti, sui rami stanchi/ contagiati nel veemente soffio,/la foglia che rimane calma, il tronco saggio/scorticato nel gelido novembre.Non vi è presenza umana, come si può constatare. Ma essa è ben evocata, come detto, dalla personificazione, senza forzature peraltro, senza artificio. Con incanto e innocenza e purezza, con uno sguardo oltre e nell’essenza, come soltanto il poeta sa fare.

Gordiano Lupi è un saggista dai molteplici interessi (dal cinema a Cuba, dal calcio alla letteratura) e romanziere di gran vaglia e potrà sorprendere questa sua dimensione lirica. È una prova altamente riuscita: i suoi versi, piani, distesi, evocativi, giungono al cuore, toccano nel profondo, muovono quel che si era sedimentato, lo riportano a galla dal fango delle sabbie mobili in cui talvolta si presenta la vita. È un significato proprio del suo essere e, nel contempo, di universalità, trasversale. Incide come una punta di diamante, implacabile e armoniosa: Tortore che cantate la mia vita/ sottofondo di storie abbandonate/ vi trovo ogni mattino presto/sul limitare del parco dei ricordi./ E là – dove un tempo c’era un pesco –/ crescono lecci e fiori trascurati./ Son pini marittimi e oleandri/ d’un giardino silente accanto/ al mare, tra case d’operai,/ povera gente, costruzioni/ che circondano il presente./ Resta uno scivolo, rimane/ la panchina, senza bambini,/ grida evanescenti, nella frescura/ del mio pigro risveglio, leggo/ un giornale, tra sguardi e cespugli,/ sorrisi nascosti tra le foglie/ del divenire, della noncuranza,/ mentre le palme nane danno asilo/ a stormi di passeracci nero fumo/ che ricordano antiche ciminiere,/ ossidate, corrose, abbandonate,/ grigia parvenza, barlume di passato./ Lampioni spenti, risveglio solatio/ di primavera, striduli gabbiani/ricordano un tempo che non c’era,/ l’incedere dei giorni, quel che cambia,/ trasforma il cielo, deprime  l’apparenza,/ pensiero muto, atono, incompreso,/ un istante povero e perduto, andato,/ sfuggito, ormai svanito, tra le pieghe/ sconvolte del destino.Volutamente ho riportato per intero questa poesia di Gordiano in quanto emblematica del suo agire poetico: la dimensione sociale, l’osservazione acuta del mondo circostante, un’esperienza immersiva per uno sguardo lucido, passando dall’apparente bozzetto – ed è in ogni caso formidabile nel suo impressionismo poetico  – alla meditazione sui grandi temi, allo smarrimento che ci coglie, nello sgranarsi dei giorni e nell’apparente banale scorrere del quotidiano, sul senso ultimo. Partecipazione e dubbio, nell’eterna crescita cui siamo condannati e che ci penetra e pur ci premia.

Il tuo sguardo chiaro/ col mare che fa da cornice,/ così limpido, il colore/ dei tuoi occhi verdi/ che sanno penetrare il gusto/ per il bello, il fragore/ delle onde nel mese di novembre;/ l’apoteosi d’un abbraccio raro/ ricavato dal gesto delle stelle.Una poesia d’amore? Potrebbe, se non fosse intitolata Senigallia. D’altronde, come detto, noi siamo i luoghi abitati e che ci abitano, ab origine e imprevedibilmente poiché sfuggono al nostro controllo, proprio come succede per l’amore. E l’assimilazione è completa, e incomprensibile, un mistero bello, da sondare, un segreto, da svelare (o forse non si svelerà mai, ma quel che conta è la ricerca).

Due voci per un dialogo serrato e sereno, senza infingimenti. Piombino, città di mare, gabbiani, cielo, orizzonti e… acciaio: E le ciminiere in lontananza/ricordano antiche file d’operai,/vita scandita, abitudini, turni/ di lavoro, rimpianti lontani,/ letti disfatti, giorni e sussidi,/ pensieri sconfitti, traditi,/ verso la deriva del domani./ La nostra periferia di mare,/ piccole case lungo il fiume,/ la centrale, sterpi e boscaglia,/ tamerici e orti, capannoni distrutti,/ steppa pietrosa, putrida discarica,/ tra tuguri e spiagge disperate. Anche se il profilo lontano dell’Elba è una visione consolatrice. Ma le domande restano nella mente ondosa di calma inquietudine, come lo specchio sempre uguale e mutevole del mare sempiterno.

Volge lo sguardo al cielo,/ d’aria flebile e sulla pelle elastica;/ la punta del pensiero/ tra i sensori della mente,/ d’acrobatica natura…/ pregna del mistero./Spuntano radici (quell’odore,/ di fradicia terra)/ che persino smuove “olfatto”/ in una stanza, il tubero/ ch’è quiete, la masseria / che sfuma ormai, nel campo inamidato;/ diventa fiore, il seme… nel grembo trasportato/ e ben oltre, nello sconfinato “amor”,/ la vita crea, che s’espande nella serra. In questo splendido immaginifico duetto risponde Fabio con il suo hic et nunc marchigiano, fra arcaismo ed “ermetismo”, fra ardite metafore e dolcezza da paesaggio rinascimentale. Stilemi ribaditi nel Maggio esanatogliese: Nel varco esteso,/ nel prato rasoterra,/ immersi nel destino di maggio/ sopra il petalo dell’illusione;/ gli attimi che sfumano/ tra sguardi miscelati,/ e giungono a noi i colori/ nel momento accorto,/ che sanno d’olfatto/ dopo effimera pioggia.

E risuonano nella dolente elegia piombinese – biancheggiante città in attesa persa – gli echi dei poeti e narratori (anche per immagini da fotogrammi) amati da Gordiano – Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza… – o echi gozzaniani nelle sedie/ di legno, ragazzi appassionati,/ celluloide  e noccioline, stringhe/ di liquirizia e sparatorie; questo/ il mio cinema, verso corso Italia,/ specchio disadorno, antica sala,/ bimbi d’operai, figli di passioni,/ sognavano un mondo da cambiare,/ sicuri che l’avrebbero cambiato, allevati tra speranze e giorni duri. Una generazione intera si riconoscerà in questo fluire, una sorta di piccolo, ma esaustivo, manifesto della coscienza degli anni Sessanta e Settanta, prima dell’avvento degli anonimi multisala, quando la fantasia era corpo e idea, non spenta virtualità.

La minaccia impassibile del tempo/ tra le fosche spoglie della pioggia/ in quest’ufficio di tenebrescogliere arcane,/immerse nel silenzio mattutino/dove un gabbiano cerca il suo destinoUn’agave conquista il cielo/ ancora, fiori come spade/ trafiggono nubi e pensieri. Strofe sparse e splendide metafore di Gordiano, di cui vorrei ampiamente citare la magnifica meditazione… Posso piangere Euridice, una stagione della vita,/ un sospiro, un vecchio amore, cercare me stesso,/ vecchio Orfeo disamorato, solo questo in fondo/ resta da piangere. Euridice sono gli anni perduti,/ passato adolescente incompreso, senza senso/ come la morte, impossibile da capire, nascosto/ tra pagine ingiallite, consumate, d’un libro di storia./ E quando si capisce, allora siamo dentro la morte,/ siamo uomini fatti, uomini che non giocano,/ immortali nel ricordo, in cerca del mare/dell’infanzia, sul sentiero dove Euridice/è passata, statua di sale, attonita, perduta,/ricordo che puoi soltanto piangereOscurità e luccicanza, profetica.

Eppure, eppure… come scrive Fabio: Al di fuori del perimetro…/Esplodono nel vuoto/i mistici colori. Variano nel cielo,/ le nuvole, ingioiellateNei primi caldi a riscaldare il cuore,/ nella nitidezza d’un ristoro/e nelle valli chiare; pennellate di colori,/ ondeggiano gli alberi/ nelle giornate viandanti e soavi!L’amore? Rapido mutamento/in rotta verso la tempesta!/ Pregno del tuo abbraccio,/ dall’impeto spazzato via;/ nel talento e nell’amore/ risiedono le formule/ d’una carezza ornata,/ perché… l’amore aperto,/ “l’amor ruspante”,/ è un concentrato di forze,/ una lanterna accesa/ stivata nel cuore di una donna.

Omnia vincit amor… e la poesia è amore. Dal Tirreno all’Adriatico e ritorno, per ogni punto cardinale o zodiaco, per ogni latitudine e longitudine, una incognita meraviglia a popolarci il cuore.

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