Il post referendum, da flop a punto di partenza

Articolo di Massimo Rossi

La riforma della giustizia “targata” Marta Cartabia il 16 giugno 2022 ha preso corpo e vita normativa con l’approvazione avvenuta ad opera del Senato della Repubblica. Il Senato della Repubblica, nel silenzio generalizzato dei media, ha approvato, senza modifiche, il testo varato dalla Camera dei Deputati. Una procedura più snella quella in Senato che lascia pochi spazi a modifiche ed emendamenti. Un testo quello della riforma Cartabia denso di luci e non privo di ombre. Un testo figlio del compromesso politico e della frammentazione delle posizioni prima avvenuto nelle commissioni giustizia e poi in aula. Un testo di riforme che riforma non è (del tutto). I mali della giustizia (civile e penale) sono atavici e (spiace ricordarlo) non è sufficiente una “leggina” di riforma per eliminarli anche se porta un nome di grande rilievo e competenza. In ogni caso, la riforma in se non è del tutto negativa, anche se, non trovo giusto il criterio delle “improcedibilità” inserito nel testo di legge in grado di appello per alcuni titoli di reato. Fatte queste considerazioni che attengono al contingente ed all’attualità si intende spostare la nostra analisi sulla “avventura referendaria”.

Il 12 giugno si sono chiamati alle urne i cittadini per un referendum su ben 5 quesiti inerenti temi della giustizia e (purtroppo o per taluni per fortuna) non è stato raggiunto il quorum. Alla luce della consultazione referendaria ed alla luce dei risultati (le schede sono state, nella stragrande maggioranza, per l’abolizione delle norme, sebbene non si sia raggiunto il quorum), si devono fare delle inevitabili riflessioni. I temi referendari erano, indubbiamente, temi complessi e per certi versi (non me ne voglia nessuno) marginali rispetto alle problematiche concrete della giustizia penale. I temi erano argomenti che avrebbero dovuto trovare una soluzione nelle aule parlamentari e nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Così non è stato e non vogliamo alzare polemiche sterili ed inutili, non è stato possibile, tutto qui. Si è scelto di andare al referendum su temi così articolati e complessi, nonostante, che tale complessità fosse ben chiara, per prima cosa, agli stessi promotori (Partito Radicale e Lega). Appare ovvio che la complessità non ha aiutato e la semplificazione in temi del genere è figlia della approssimazione e della sciatteria (di cui per quel poco che si è sentito non è mancata). Questo non è accettabile visti i delicati temi toccati e questo è stato il rischio più grande. Le forze promotrici dei referendum sono state, tra loro, eterogenee (Radicali e Lega) ed anche questo è stato un vulnus non da poco.

Si è formato, da subito, uno schieramento ben definito: la sinistra da un lato e la destra (una parte) dall’altro. I referendum sono stati – da subito – visti come figli di uno schieramento e di una “tifoseria” e, quindi, targati con il bollo della “destra leghista”. La scelta della sinistra – lo diciamo subito – pare del tutto incomprensibile, ma poi, come si vedrà, è risultata (apparentemente) vincente; ma solo in apparenza. Incomprensibile perché non è possibile credere che alla sinistra vada bene questo sistema giudiziario (anche se inizia a venire il dubbio in chi scrive). Vincente perché tra la stanchezza, tra la non informazione e tra la complessità intrinseca dei quesiti, si è raggiunto il risultato di non arrivare al quorum necessario (scelta legittima, lo diciamo schietto, ma forse, su temi del genere non proprio politicamente utile nel largo respiro). La macchina referendaria a due anime ha mostrato, da subito, qualche falla (tipo nel deposito delle firme) che, però, è stata recuperata. Ma il referendum, e qui non è stato colto, se non da pochi, non era limitato ai soli quesiti. La via referendaria e, quindi, la via del popolo aveva una ragione precisa: mettere a fuoco che la “macchina della giustizia”, così come è, non può andare avanti e crea ingiustizie ormai palesi e sotto gli occhi di tutti. i palesi e sotto gli occhi di tutti.

La soluzione non è dietro l’angolo e sarà un percorso complesso ed articolato, ma il “dado è tratto” (Giulio Cesare). Il mondo giudiziario, dopo lo scandalo Palamara, che ha visto “vittima sacrificabile” solo il Dott. Luca Palamara, non è più lo stesso. I cittadini hanno compreso che, troppo spesso, si incappa in un “errore” (se non addirittura in un orrore) giudiziario, oppure, in una “sottovalutazione” della reale portata del fatto. I cittadini hanno compreso che la Giustizia tardiva non è giustizia, che le vittime di reati violenti vanno tutelate, che gli imputati vanno rispettati nei loro diritti e non posti sull’altare della gogna mediatica, che i Pubblici Ministeri devono essere sempre più capaci di intercettare le necessità delle vittime ed i Giudici sempre più svincolati da contenuti di parte. La tanto decantata riforma della Giustizia, dopo i referendum, ha una piena consapevolezza: deve essere studiata e realizzata nell’interesse reale di tutelare i beni che la società civile e la collettività tutta ritiene degni di tutela costituzionale.

Occorre riflettere sui principi base che i referendum hanno messo in luce:

1) una effettiva autonomia del Giudice dal Pubblico Ministero che può realizzarsi solo con una separazione delle carriere;

2) una moderazione e limitazione della applicazione delle misure cautelari che, in realtà, sono l’anticipazione di una pena (magari sbagliata);

3) la applicazione degli effetti della pena solo con una sentenza passata in giudicato nel rispetto dell’art. 27 della nostra Costituzione;

4) una libertà del singolo magistrato dal sistema “correntizio” che ha generato lo “sfascio” del CSM e del metodo di scelta degli uffici direttivi.

A questi punti che emergono dai quesiti referendari possono essere aggiunti altri:

1) la specializzazione dei Pubblici Ministeri;

2) il rientro in ruolo dei magistrati che, attualmente, occupano ruoli amministrativi nei ministeri (almeno 300 unità);

3) un ruolo nuovo dell’avvocato in Costituzione perché l’avvocato rappresenta il cittadino e viene scelto su base fiduciaria;

4) una vistosa depenalizzazione dei reati, almeno quelli contravvenzionali;

5) una riforma dell’udienza preliminare con sconti di pena sino alla metà della pena effettiva da cui vengano esclusi solo i reati più gravi contro lo Stato, contro la persona, contro il patrimonio artistico, contro l’economia, contro il risparmio e contro l’ambiente;

6) l’ingresso negli organi di autogoverno dei magistrati (ci si auspica due CSM e quindi una riforma costituzionale) di docenti universitari in materie giuridiche ed avvocati con esperienze professionali di almeno 20 anni di iscrizione all’albo professionale;

7) affidamento del potere disciplinare sui magistrati ad un organo costituzionale diverso dal CSM di appartenenza composto da magistrati fuori ruolo per anzianità, professori universitari ed avvocati con oltre 30 anni di iscrizione all’albo professionale;

8) obbligatorietà della presenza di un legale anche per la persona offesa di reati contro la persona e la libertà sessuale;

9) abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale controbilanciata con un potere disciplinare (e penale) in chi (Pubblico Ministero) non esercita la stessa ed avrebbe dovuto farlo;

10) norma che impone ai magistrati di cambiare sede ogni 5 anni e di non poter tornare nella sede di residenza/nascita se non nell’ultimo quinquennio prima del loro collocamento fuori ruolo.

Sono degli spunti, sono delle idee che vanno elaborate insieme ad altro ma da qualche parte bisogna pur partire. Ma se il referendum ha avuto un senso, lo ha avuto nel mettere al centro dell’agenda Paese Italia il tema Giustizia o, per meglio dire, la “Mala Giustizia”. Quello che dispiace – ma dispiace veramente – e lo diciamo senza alcuna vena polemica è che vi sia stato uno schieramento da “stadio” e che l’avvocatura (in particolare le Camere Penali Nazionali), dopo un primo accenno, si siano del tutto defilate. Una scomparsa dalla scena del tema referendario che ha dell’incredibile ( se non addirittura del sospetto). A meno che non si fosse “fiutato” che i referendum non avrebbero raggiunto il loro scopo e, quindi, si è evitato di sostenere una battaglia perdente.

Non lo sappiamo quale sia la vera ragione di questo atteggiamento che è stato siglato da una improvvida e poco azzeccata intervista al Corriere della Sera del Presidente UCPI Avv. Gian Domenico Caiazza (13.6.2022). Nonostante che la Giunta abbia fatto muro alle critiche dopo l’intervista, questa è risultata, ai più, improvvida e poco avveduta. Noi riteniamo che le battaglie giuste che sono quelle per i diritti civili, le libertà e l’equità e parità davanti alla legge, siano sempre da combattere. Questa referendaria aveva dei punti di criticità, ma aveva (ed ha) un valore assoluto ed imprescindibile: la necessità di una Giustizia giusta, la necessità di passare da un sistema, ormai ottocentesco, ad un processo più snello e che si occupi dei fatti realmente gravi che offendono la collettività. Non ci si può più permettere di perseguire tutto per non ottenere “quasi niente”. La Giustizia è un bene assoluto del vivere civile e va di pari passo con le Libertà, essendo uno dei pilastri della Democrazia. Le battaglie giuste si combattono anche se, sul momento, possono risultare non vincenti; sul momento, ma poi con metodo e costanza, possono veramente determinare rivoluzioni copernicane. Ecco, la lezione di questi referendum è questa: vi è la necessità di una Giustizia Giusta e va perseguita con metodi democratici. L’apparente “flop” dei referendum è, in realtà, un grido forte di allarme di 10 milioni di Italiani che hanno deciso di andare a votare e circa 6 milioni di volere il cambiamento.

Non è più possibile attendere e non è più possibile ignorare i bisogni di una società che percepisce la profonda lontananza tra cittadino e mondo giudiziario (si veda quanto riportato sul Dubbio del 20.6.2022 nello speciale sulla Giustizia e rapporto con la società civile). Bisogna guardarsi dai falsi amici del garantismo, come scrive sul Foglio del 13.06.22 Caludio Cerasa nell’articolo “Perché il referendum ci ha ricordato chi sono i falsi amici del garantismo” (citando il testo del Prof. Vincenzo Roppo “Garantismo”) e puntare alle riforme nell’ottica di piene garanzie per tutte le parti processuali. La strada delle riforme è lastricata, talvolta, da buoni propositi fatti da falsi amici che si rivelano contrari alla riforma e celebrano lo “status quo”. Non credo che le riforme siano di facile attuazione, ma credo che stia a noi generare quell’humus vitale, nel quale e per il quale le riforme prendono vita. Chiediamoci sempre cosa possiamo fare noi per il nostro Paese e facciamo del nostro meglio. Si faccia ciò che deve ed accada ciò che può.

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