R…estiamo con Dante, legati da amicizia – 2

Articolo di Paolo Nebbia

Viviamo la stagione dell’estate, un tempo scandito da libertà, soste, riposi, un tempo in cui vogliamo proseguire il nostro cammin sulle orme di Dante. Vorremmo sempre essere contagiati dall’incantamento giovanile del Poeta per proseguire «sotto le «stelle» l’avventura di «accumulare energia», di afferrare – a piccole dosi – la felicità per poi viverla in pieno.

La Commedia non è solo «un’opera narrativa di tipo profetico-apocalittico e, per una stretta connessione, enciclopedico-didascalico-educativo […] con caratteri epico-romanzeschi e, soprattutto, drammatici» (Mineo), ma è anche un libro che canta, rievoca e stimola amicizie. Di più, si fa carne, si fa nostro amico nella strada della vita che conduce alla salvezza.

Nel nostro precedente appuntamento abbiamo avuto modo di sottolineare quanto il riposo sia strettamente connesso alla ricerca di «persone su cui appoggiarsi», quanto dipenda dal vissuto di relazioni sane e sincere. L’estate è un tempo propizio per addestrarsi ad amare: l’amore non può essere improvvisato, va accolto, coltivato, educato, purificato, nobilitato. Nel latino del termine “amicus” (letteralmente “colui che si ama”) è già insito un chiaro indicatore del rapporto fra amore ed amicizia: l’amicizia è quel luogo in cui si cresce nell’amore. Quando si è amici si ha a cuore la felicità dell’altro più della propria. Per certi versi, Dante ha avuto a cuore la felicità dei suoi posteri se non più quantomeno al pari della propria. Il cammin della Commedia cerca di dare una riposta alla domanda esistenziale dell’Uomo: dov’è la felicità? Dante stesso, nella XIII Epistola indirizzata a Cangrande della Scala, afferma che «[…] dicendum est breviter quod finis […] est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis» (“si deve dire brevemente che il fine dell’opera consiste nell’allontanare i viventi dallo stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità”). Potremmo sostenere che la Commedia rappresenta il grande gesto d’amore che Dante ha voluto compiere per noi, suoi amici, in quanto posteri “da amare”.

L’amicizia è una relazione, una carica emotiva, un’energia. È un «campo che seminiamo con amore e mietiamo con riconoscenza» (Gibran). Essa migliora il nostro agio, il nostro benessere, la nostra salute. Nel diciassettesimo paragrafo del suo Laelius de amicitia, Cicerone – per bocca del suo amico Lelio – non aveva dubbi nel sostenere che «ego vos hortari tantum possum, ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis; nihil est enim tam naturae aptum, tam conveniens ad res vel secundas vel adversas» (“per quanto mi riguarda posso soltanto spronarvi, affinché anteponiate l’amicizia a tutti i sentimenti umani; nulla è infatti tanto adatto alla natura, tanto conveniente nei momenti propizi come nelle avversità”). L’amicizia, in quanto spazio privilegiato dell’amore, è una linfa che offre sostentamento ai nostri giorni non meno del pane quotidiano. Dante mostra di conoscere bene tale peculiarità e non è un caso che riservi al tema dell’amicizia un ruolo centrale e prioritario nel suo grande poema.

Il primo amico che Dante incontra e che lo salva è Virgilio. Un’amicizia che non conosce limiti di tempo e che lo conduce dove essa – in Dio – s’etterna, dura per sempre. Il legame quasi fraterno fra i due, che diviene reale nella finzione poetica, ci propone diversi spunti di riflessione. Innanzitutto, possiamo sostenere che Virgilio è un amico perché in primis è una guida, un punto di riferimento, qualcuno a cui Dante può appoggiarsi e da lui lasciarsi salvare. Il poeta mantovano è un amico per Dante perché, quando necessario, è sempre pronto da un lato a sostenerlo (come avviene ad esempio nel primo canto dell’Inferno), ad incoraggiarlo (come nel quarto canto del Purgatorio, quando i due poeti cominciano la ripida ascesa del monte purgatoriale) e a rassicurarlo (come nel nono canto dell’Inferno, quando i due stanno per fare il loro ingresso nell’angosciante città di Dite), ma dall’altro anche ad ammonirlo e rimproverarlo (come avviene ad esempio nel quinto canto del Purgatorio, quando Dante, severamente redarguito dalla sua guida per aver rallentato l’andatura del passo, arrossisce per la vergogna mostrando tutto il suo rammarico). L’amicizia fra Dante e Virgilio ci insegna che i legami veri resistono al tempo (anche a molto tempo), si fondano sulla stima reciproca e sanno farsi scomodi quando serve.

Guido Cavalcanti, il grande amico della giovinezza e degli esordi poetici di Dante (a cui non a caso aveva già dedicato il sonetto “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, che rappresenta una sorta di inno all’amicizia), viene soltanto rievocato nel X canto dell’Inferno, quando il poeta fiorentino incontra suo padre Cavalcante Cavalcanti. Il genitore del suo amico, punito fra gli eretici del sesto cerchio, interrompe il dialogo fra Dante e Farinata degli Uberti per chiedere informazioni sul figlio: nello specifico, Cavalcante domanda a Dante perché Guido non stia facendo il viaggio oltremondano insieme a lui e si sente rispondere che Guido non può stare con lui poiché ha rifiutato la Grazia celeste, che invece è proprio la luce che accompagna Dante e gli consente questo itinerario. Dante tralascia di riferire a Cavalcante l’informazione più importante, non gli dice che il figlio è ancora vivo. Probabilmente Guido e Dante non si vedevano da diversi anni, forse la loro amicizia con il passare del tempo era via via andata affievolendosi, ma a noi interessa carpire da tale dinamica un insegnamento prezioso: nell’amicizia fra due persone è consentito avere idee differenti, pensarla in modo diverso, confrontarsi costruttivamente, ma non sembra essere possibile non condividere la meta della propria esistenza, poiché se non si condivide quella non si può fare insieme il cammino della vita.

La seconda cantica è forse fra le tre quella più vicina al vissuto quotidiano dell’uomo: in essa pare propagarsi nel contesto dei vari incontri e delle varie scene purgatoriali un sentimento altruistico e per certi versi filantropico. Le anime purganti chiedono preghiere a Dante, lo supplicano affinché possa rammentare a chi è ancora in vita di pregare per alleggerire e velocizzare il loro percorso di purificazione. Nel Purgatorio, dove l’orizzonte della Salvezza è ancora possibile, appare evidente un’innegabile realtà: l’uomo ha bisogno dell’uomo, del suo affetto e delle sue attenzioni. In quest’ottica, il Purgatorio diventa la cantica che celebra l’amicizia e non è un caso che in essa gli incontri amicali siano molteplici.

Nel secondo canto del Purgatorio Dante si imbatte nel musico Casella, suo amico fraterno che gli riferisce di volergli ancora bene – ora che è morto – non meno di quanto ha fatto in vita («così com’io t’amai / nel mortal corpo, così t’amo sciolta», vv. 88-89). Casella fa l’atto di abbracciare Dante che cerca di ricambiare, ma invano. Un tentativo che si ripete per ben tre volte. Un’azione che non si realizza ma che rivela l’affetto, la relazione, l’amicizia tra i due.

Un’altra amicizia sincera, frutto della condivisione di ideali e principi, è quella cantata nel VI canto tra Sordello da Goito e Virgilio, entrambi mantovani. Un’amicizia frutto della condivisione di ideali e principi. Dante e Virgilio si trovano nell’Antipurgatorio, fra le anime di coloro che sono morti violentemente, e mentre si fanno largo tra la folla si accorgono della presenza di un’anima in disparte rispetto al resto del gruppo: si tratta proprio di Sordello, famoso trovatore italiano del Duecento. Alla richiesta di Virgilio di suggerirgli il cammino migliore per la salita, Sordello appare indifferente, non risponde e anzi interroga lui i due poeti: gli chiede chi siano e da dove provengano. Tuttavia, quando Virgilio riprende la parola e nomina la città di Mantova, patria natia di entrambi gli interlocutori, l’anima si desta, gli si avvicina repentinamente e lo abbraccia. Dante, che assiste alla scena con ammirazione, coglie l’occasione per lanciare una violenta invettiva contro i comuni italiani, divisi e continuamente in guerra fra di loro. L’abbraccio amichevole fra Virgilio e Sordello rappresenta il genuino sentimento fraterno che tutti i cittadini italici dovrebbero avere con i loro conterranei. Quanta divisione ancora oggi serpeggia non soltanto nel nostro Paese e nelle nostre città, ma anche nelle nostre case e nelle nostre famiglie: sembriamo incapaci di mettere da parte l’orgoglio, non sappiamo più tollerare, accogliere, perdonare. Eppure, molte volte basterebbe davvero poco, potrebbe bastare una sola parola, «Mantua», per dimenticare i rancori, uscire dalla propria solitudine (“l’ombra, tutta in sé romita”) e correre incontro all’altro per abbracciarlo (“e l’ombra, tutta in sé romita, / surse ver’ lui del loco ove pria stava, / dicendo: «O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava”, vv. 72-75).

Nel canto VIII c’è un’«amicizia doppia» quella tra Dante e Nino Visconti e tra questo e Corrado Malaspina. Dante e Nino Visconti furono impegnati insieme nell’assedio al Castello di Caprona, nel 1289; il loro rapporto di amicizia si consolida quando Nino diventa capo della Lega guelfa di Toscana. Gioiscono nell’incontrarsi in Purgatorio, e subito Nino rivela a Dante il suo dolore perché la moglie lo ha dimenticato. Nino è amico di Corrado Malaspina, il signore di Villafranca, la cui famiglia ospita Dante durante l’esilio: altro segno di grande amicizia.

Nel canto XXIII Dante ritrova un altro amico, compagno anche di baldorie giovanili, a cui il poeta si rivolge proprio con espressioni informali e amichevoli che testimoniano un rapporto antico: si tratta del concittadino fiorentino Forese Donati, cugino di Gemma, moglie di Dante. Il protagonista del nostro poema sta ormai per salutare Virgilio, il quale proferirà le sue ultime parole prima di fare ritorno nel Limbo infernale nel canto XXVII, il trio di viaggiatori (a Dante e Virgilio si è aggiunto anche Stazio) sta camminando nella penultima cornice purgatoriale, nella quale una famelica magrezza tormenta le anime dei golosi: Dante non riesce a riconoscere subito il suo amico Forese, in quanto il suo aspetto fisico è completamente deturpato nei lineamenti facciali e corporali. Tuttavia, non appena l’anima prende la parola, Dante comprende subito che si tratta della voce del suo amico, per il quale – a causa del volto scavato e della sofferenza che si può leggere nella faccia di Forese – comincia a piangere quasi inconsolabilmente (“«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia», / rispuos’io lui, «veggendola sì torta»”, vv. 55-57). L’incontro tra Forese, che mette da parte il suo tormento fisico per chiedere a Dante informazioni sul suo viaggio, e Dante, che piange e si addolora vedendo patire il suo amico, ci dà l’occasione per rammentare che la cifra fondante dell’amicizia è senza ombra di dubbio la compassione: siamo sempre lì, l’altro è davvero un amico se ci sta a cuore più di noi stessi, se partecipiamo al suo dolore come se fosse il nostro o se siamo disposti a dimenticarci del nostro dolore per dedicarci a lui.

L’amicizia è sempre fattiva, mai ideale: i vari episodi che abbiamo richiamato – e tanti altri ne avremmo potuti richiamare se avessimo avuto più tempo e spazio per discorrerne – ci testimoniano tutti un aspetto fondamentale dei veri rapporti amichevoli, ovverosia che l’amicizia è sempre legata a circostanze concrete, è sempre congiunta al gioire o soffrire insieme, è fatta di accoglienza di difetti ed errori dell’altro, è fatta di riconoscenza per gesti, parole o doni ricevuti. L’amicizia parte da un presupposto: l’altro è imperfetto come lo sono anch’io, ma insieme possiamo aspirare alla perfezione. D’altronde era Madre Teresa che diceva: “Non aspettarti che il tuo amico sia una persona perfetta, ma aiutalo a diventarlo. Questa è la vera amicizia”. Questa è la faticosa e allo stesso tempo meravigliosa amicizia che canta e ci dimostra anche Dante nella sua Commedia.

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Anche questa seconda parte del progetto R…estate con Dante è stata scritta a quattro mani, ma per motivi tecnici porta solo il nome di uno dei due autori, così come avvenuto anche nella prima. In questo caso – non trattandosi di un’intervista come nel nostro primo appuntamento – ci teniamo a sottolinearlo perché anche ai nostri lettori possa arrivare la testimonianza di un lavoro condiviso, frutto di un’amicizia. Un lavoro che ha provato a tratteggiare e valorizzare uno degli aspetti più importanti della Commedia: l’amicizia che dall’«aere bruno» conduce alla «somma luce», alla «luce etterna», a quell’«amor che move il sole e le altre stelle». L’amicizia ci aiuta a vivere meglio. La Bibbia – e la Commedia lo conferma – ci ricorda che chi «trova un amico trova un tesoro» (Siracide 6,14).

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