Federico II di Svevia nella Divina Commedia e il racconto della sua morte sub flore

Articolo di Armando Giardinetto

Quando si parla di un uomo straordinario, affascinante, con la pelle chiara, gli occhi penetranti, la barba fulva e i capelli rossi ereditati dal nonno, il grande Barbarossa; quando si parla di una testa coronata del medioevo, di uno scomunicato re acculturato, poliglotta (si dice parlasse ben 9 lingue), furbo, intelligente e aperto alle diversità culturali, si parla evidentemente dell’imperatore Federico II di Svevia che fondò, nel 1224, l’Università di Napoli che porta il suo nome. Federico II, che per ragioni politiche venne accusato di eresia, fu imperatore del Sacro Romano Impero, re di Sicilia, re d’Italia, re di Gerusalemme, re di Germania e duca di Svevia. Egli morì il 13 dicembre del 1250 e la sua fu una morte caratterizzata da un bizzarro gioco del destino. Dante Alighieri, guelfo bianco, nel suo Convivio (1304-1307) – IV III 6 – dove parla del concetto di nobiltà, mostra per Federico II un’ammirazione senza precedenti chiamandolo “ultimo imperadore de li Romani… rispetto al tempo presente”.

D’altra parte nel De vulgari eloquentia (1304-1307) – I, XII, 4 – Dante definisce Federico II e suo figlio Manfredi come illustres heroes decretandone la grandezza culturale e spirituale per aver aperto la loro corte a importanti uomini dotati di grande cultura. Per quanto concerne la Divina Commedia, in essa ci sono varie allusioni a Federico II di Svevia che, forse perché – e anche per questo venne scomunicato – alla sua corte diede molto importanza a gente di fede musulmana ed ebraica, venne messo all’Inferno tra gli eretici epicurei i quali non credevano nell’immortalità dell’anima. In effetti ancora nella città di Dite, ai vv. 118-120 del Canto X, Dante e Virgilio incontrano il conte palatino Farinata degli Uberti il quale, da una tomba infuocata, dice al Sommo che in mezzo a tutti quegli spiriti eretici c’è anche quello dell’imperatore: “Qui con più di mille giaccio: qua dentro è ’l secondo Federico, e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”.

Un altro riferimento allo Stupor Mundi viene fatto ai vv. 58-60 del XIII Canto dell’Inferno quando, entrati nella fittissima boscaglia del II girone del VII cerchio, quello dei suicidi, Virgilio invita un dannato – trasformato in albero secco – a presentarsi. Costui è il giurista capuano Pier delle Vigne, uno dei fidatissimi consiglieri dell’Imperatore che, dopo ben vent’anni di carriera come notaio alla corte sveva, nel 1249 venne accusato di aver usato indebitamente contributi della Corona a scopo personale e per questo venne processato, accecato con dei ferri arroventati e fatto prigioniero. Così Pier delle Vigne, infinitamente triste per essere stato definito – per invidia di altri – il traditore del suo tanto amato “Augusto” (Inf. XIII), si tolse la vita lanciandosi violentemente con la testa contro una delle pareti della torre di San Miniato (FI). Nell’Inferno dantesco, ascoltato l’invito del Poeta latino, il politico si presenta: “Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi”. Inoltre particolarmente toccanti sono le parole del notaio che – morto evidentemente solo una cinquantina d’anni prima che Dante scrivesse il X Canto – pronuncia ai vv. 74-75: “Per le nove radici d’esto legno, vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno” dichiarandosi eternamente fedele al re.

Ancora un ulteriore riferimento allo Stupore del mondo viene fatto al Canto XXIII, vv. 64-66, quando Dante ci descrive la pena degli ipocriti costretti a indossare pesantissime cappe di piombo all’interno e dorate all’esterno. Tale pena ci fa venire in mente la punizione riservata ai condannati di lesa maestà proprio durante il regno di Federico II i quali venivano coperti da pesantissime cappe di piombo prima di essere messi a cuocere in un pentolone. Poca cosa per il Sommo Poeta che le mette a confronto con quelle del suo luogo infernale: “Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia”. Per alcuni studiosi, ma non per tutti (quelli che pensano che si tratti di Federico I), lo Stupor Mundi viene nominato anche nel Purgatorio, nella III Cornice, quella degli iracondi, ai vv.116-120, quando Dante parla della corruzione umana con Marco Lombardo che discorre sulla situazione della Pianura Padana prima che la Chiesa ostacolasse l’Imperatore: “In sul paese ch’Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga”.

Un ulteriore riferimento viene fatto ai vv. 118-120 del III Canto del Paradiso quando, essendo nel cielo della Luna (I) dove ci sono i cosiddetti spiriti difettivi, Dante parla con Piccarda Donati, nobildonna e religiosa del XIII secolo, la quale gli spiega i gradi di beatitudine degli spiriti che si trovano in quel luogo. Tra questi c’è quello luminoso di una donna che ebbe un’esperienza di vita simile alla sua prima di contrarre matrimonio. Si tratta della regina e imperatrice Costanza d’Altavilla che – secondo alcune storiografie neppure certe – prese il velo monacale, ma poi venne strappata con la forza dal convento perché diventasse la moglie dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico VI, quindi madre di Federico II di Svevia: “Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ‘l terzo e l’ultima possanza”. Come preannunciato all’inizio, particolare fu la situazione intorno alla sua morte. Federico II di Svevia era un uomo molto superstizioso, come giusto che fosse per il tempo in cui visse, infatti anni prima della sua morte aveva creduto alle parole di Michele Scoto, suo fedele indovino di corte, il quale gli aveva profetizzato la sua dipartita che sarebbe avvenuta sub flore, cioè nella città dal nome di un fiore.

Quale poteva essere mai se non Firenze? Pertanto Federico la evitò per tutta la vita, ma la sua morte avvenne proprio in una città dal nome di un fiore, una piccolissima cittadina della Puglia, Castel Fiorentino o Fiorenzuola, oggi Torremaggio. Si capisce bene che la profezia di Scoto aveva fatto centro e lo capì anche Federico che sul suo letto di morte, ornato con filamenti in oro e ricamato nella maniera orientale, dopo aver chiesto dove si trovasse, e ricordandosi delle parole dettate decenni prima dal suo amico indovino, si abbandonò alla volontà del fato, infatti venne scritto che “Male seppe interpretare le parole …che disse … che morrebbe in Firenze, e egli non si guardò da Fiorenzuola”. Secondo una certa storiografia, l’Imperatore cadde vittima di un tradimento e venne avvelenato dal figlio Manfredi; fu trasportato di urgenza al piccolo Castello pugliese il 7 dicembre del 1250.

Purtroppo la febbre forte di cui soffriva obbligò i suoi fedeli a non proseguire verso la corte di Foggia, ma di fermarsi lì vicino, proprio a Fiorenzuola. Lì Federico, ormai prossimo alla fine, dettò le sue ultime volontà: suo figlio Corrado sarebbe salito al trono una volta che lui avesse varcato la soglia della morte vestito con l’abito dei monaci cistercensi in segno di penitenza. Da grande combattente quale fu, Federico aspettò fieramente la morte fissando una porta della stanza in cui si trovava, dalla quale, secondo lui, essa sarebbe venuta al suo cospetto, al cospetto del Re che, a quasi 56 anni, chiuse gli occhi alla vita terrena il 13 dicembre di quell’anno: “Tramontato è il sole del mondo… della giustizia… ma anche se quell’astro è tramontato, i suoi ordinamenti gli assicurano continuità… Nessuno crede che il padre sia assente, perché si spera che nel figlio viva” fu l‘annuncio del figlio imperiale. Arrivata la funerea notizia a Roma, papa Innocenzo IV cantò immediatamente il Te Deum perché la Chiesa si era finalmente liberata dell’anticristo. Il corpo fu subito dato agli imbalsamatori che lo prepararono per l’ultimo viaggio verso il Palazzo Reale di Palermo.

Esso venne impreziosito da tuniche regali, calzari di seta, alcune iscrizioni arabe, alcuni preziosi, una spada, una corona a copricapo, un globo dorato e un anello al dito della mano destra, non un anello comune, bensì un anello particolare con un grosso smeraldo e otto petali d’oro. Tali ultimi oggetti furono poi causa della teoria del complotto sulla morte di Federico mossa da alcuni storici moderni, argomento che andrebbe approfondito. Il feretro, pronto per essere accompagnato dai Cavalieri Teuntonici e da tutta la corte, “Alli 28 de lo detto mese passao lo corpo de lo imperatore, che lo portaro a Taranto”, venne imbarcato per la Capitale del Regno di Sicilia. Fu tumulato nella cripta reale di Palermo dove ancora oggi si trova in un sepolcro maestoso di porfido rosso. Nella storia ci sono state alcune ricognizioni del corpo di Federico, ma solo la prima, quella della fine del ‘700, rivelò la mummia con tutti gli ornamenti raccontati dalle cronache. Oggi del grande imperatore non rimangono che alcune ossa in un caos costituito da altri resti umani – forse parenti del re – e stracci vari, il tutto nella stessa tomba.

Nato da un ventre ritenuto ormai sterile in una cittadina dal nome particolare che ricordava quello del Salvatore Gesù; appassionato sin da bambino di Aristotele; delle saghe del grande Alessandro e delle gesta di Carlo Magno; estimatore della caccia col falcone; continuamente in conflitto con il vicario di Cristo in terra; promotore delle Assise di Capua (1220) e di un nuovo codice di leggi a Melfi (1231) alla base di uno Stato moderno, efficace ed efficiente, ordinato e centrale; perennemente in guerra con le città del Centro e del Nord Italia; si può certamente affermare che Federico – nella cui corte multiculturale fu data assai importanza alla cultura greca, araba ed ebraica e in cui si studiava la matematica, l’astronomia, la scienza, la legge, la natura, gli animali, la medicina, le tecniche agricole, l’astrologia, la filosofia, le lingue – è veramente un sole che non tramonta mai: “A Ebrei e Saraceni concediamo le medesime garanzie perché non vogliamo che innocenti vengano perseguitati soltanto perché ebrei o musulmani” (Costituzioni di Melfi).

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