La crisi del rapporto tra cittadini e giustizia e la crisi del mondo delle toghe

Articolo di Massimo Rossi

Lo sostengo da molto tempo che il rapporto tra cittadini e mondo della Giustizia è in grave e profonda crisi. La sacralità delle stanze dei Tribunali e delle Corti sono violate prima ancora che dagli insulti ai magistrati ed agli avvocati o dalle minacce espresse a costoro da una “irrispettosa” (e molto spesso prezzolata) stampa che, invece di fare informazione sui fatti, si attarda sulla “ipotesi” di ciò che potrebbe essere accaduto e cosa no. La mia generazione ha visto crescere nei quotidiani ed in TV una “minacciosa” e per certi versi “patologica” attenzione di certa stampa (non tutta!) sui temi giudiziari come fossero storie di nera/rosa da rotocalchi che finiscono per attrarre lettori o telspettatori.

Prima degli anni ‘89/’90 non vi erano che piccoli trafiletti o articoli di apertura per processi di risonanza nazionale, ma sempre con il garbo e l’attenzione del cronista e del giornalista ed il rispetto delle regole e delle rispettive professionalità (Pubblici Ministeri, Difensori e Giudici). Adesso, in realtà, grazie a trasmissioni che noi tutti conosciamo, i processi e gli esiti processuali sono “anticipati”; sono romanzati e sono posti in dubbio persino dopo sentenza passata in cosa giudicata. Quante volte, anche di fronte a sentenze passate in giudicato si consente (senza una approfondita conoscenza degli atti e dei fatti) di fare illazioni sugli esiti dei processi. Tutto lecito come opinione un po’ meno se senza prove si tenta di demolire il lavoro di ricostruzione processuale.

Quante volte la stampa (in particolare televisione, ma non solo) commenta esiti di processi diversi (in distinti gradi di giudizio) in modo “succulento”. E bolla queste situazioni processuali del tutto normali come “stranezze” (ma non lo sono affatto). Senza contare che si assiste ad una analisi di elementi di diritto e di fatto compiuta da emeriti profani in materia. Non voglio demonizzare la stampa che è un valore sacrosanto e quando è libera è il termometro della democrazia di un Paese, ma su certi temi non si può discettare, come se fosse naturale farlo senza una conoscenza e competenza della materia e delle carte processuali. Il principio secondo cui si può tutti parlare di tutto è un principio assolutamente errato e da osteggiare. Chi scrive non potrebbe mai sostenere conversazioni su temi di cui non conosce nulla (o poco) se non renderle “conversazioni da bar”.

Ma a tutti è dato discettare di calcio e di giustizia. Occorre rispetto di chi svolge la funzione di giudice, di pubblico ministero e di avvocato. Quel rispetto che, in primo luogo, parte dalla umiltà di non sapere, di non conoscere di essere competenti (se lo si è) in altro. Ma ci rendiamo conto che queste nostre parole sono suoni che vagano nel deserto delle menti voluto dai media. Denunciare delle situazioni anomale è la linfa vitale della stampa libera, ma anticipare con ricostruzioni del tutto fuorvianti situazioni di fatto e di diritto non è informare, ma si concretizza una “manipolazione” di massa di chi non ha gli strumenti per discernere. Quindi, si ad una stampa che denuncia le iniquità e le ingiustizie, ma un “no” secco e deciso ad una stampa che cerca di anticipare giudizi o di condizionare decisioni nell’opinione pubblica.

Vi è un limite chiaro tra informare, fare giornalismo d’inchiesta e manipolare i fatti e le circostanze. La Giustizia (ed i magistrati sono le colonne portanti di ciò) è una cosa seria ed aspra. Occorre ristabilire i parametri ed occorre ristabilire gli equilibri. Se, però, da una parte occorre stigmatizzare una certa “informazione manipolativa”, bisogna fare una seria e severa riflessione sia sul caso “Palamara” sia su quanto sia libera l’avvocatura. Non vi è alcun dubbio che il “Caso Palamara” ha messo a nudo un “sistema” di attribuzione di incarichi e, quindi, di potere senza precedenti. Molti leggendo queste mie parole obietteranno: ma tutto ciò era noto Sì, era noto (almeno non quanto fosse strutturato), ma un conto è essere noto ed un conto è capire quanto questo “sistema” fosse attivo e capace di condizionare la vita giudiziaria (e non solo) dei Tribunali Italiani (cosa che speriamo cessata).

Anche qui, ovviamente, giova ricordare, vige la presunzione di innocenza, ma al CSM (2018-2023) era forse dovuto fare chiarezza (almeno sotto il profilo disciplinare), cosa che non ci pare si stata fatta. I cittadini che stupidi non sono hanno visto tutto ciò, hanno visto che il CSM si è autoassolto o non ha trattato per nulla la vicenda. Nessuno intende interferire con quanto accaduto, ma è indubbio che tutto ciò non ha giovato all’immagine di indipendenza e autonomia della magistratura. È impensabile – dovendo banalizzare – che l’unico “responsabile” (se lo sarà, visto che anche per lui vi è il principio di innocenza) sia il Dott. Luca Palamara. È impensabile che il “sistema” fosse così ben organizzato ed al tempo stesso, fosse in mano ad una persona sola. Sarebbe stato un momento di rigenerazione del sistema giustizia, mentre, invece, è stato un momento nel quale vi è stata la mera colpevolizzazione solo del Dott. Luca Palamara.

Onestamente – e lo ha detto anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – la vicenda non fa onore alla stragrande maggioranza di quei magistrati che ogni giorno lavorano con abnegazione, con coscienza, con coraggio e che rischiano (in molti casi) la loro vita e quella dei loro cari. La vicenda in se, di cui ormai non si sente più parlare, ha avuto un suo momento di clamore e poi lo strapiombo del silenzio e (soprattutto) dell’immobilismo del “sistema” di autogoverno ed anche del Parlamento. Tutto questo non ha fatto bene al rapporto tra cittadini e Giustizia. La Giustizia è una cosa seria e non devono esserci ombre di alcun genere. Una responsabilità – non minore – si deve intravedere nell’avvocatura frammentata e distinta che affronta i problemi delle riforme senza partecipare alle loro elaborazioni e che è sempre meno libera perché la libertà è dettata dalla indipendenza economica che c’è sempre meno.

L’avvocato “artigiano” è una figura che va a scomparire (se non è scomparsa) e gli studi più grandi non sono luoghi di esercizio della libera professione, ma vere e proprie “aziende legali”, al servizio di potenti macchine economiche: quindi non libere o quanto meno condizionabili. Tutto viene (ormai da tempo) concentrato e ridotto a mero “prodotto”. L’avvocato, invece, non ha la funzione di dare un “prodotto”, ma di essere l’interlocuzione tra il Tribunale (luogo della Giustizia) ed il cittadino (soggetto a cui la Giustizia va resa sia esso imputato, sia esso parte offesa). La diffusione, invece, di studi articolati porta sempre più a mortificare la professione ed a comprimere (visto il restringersi delle disponibilità dei clienti) la libertà. È davanti agli occhi di tutti il grande numero di legali che “migra” nei Tribunali come cancellieri, è davanti agli occhi di tutti la proliferazione di “studi fabbrica”, dove l’avvocato non vede mai l’aula di udienza. Tutto questo, se era possibile (ma evidentemente si), è stato aggravato dalla riforma c.d. “Cartabia” che ha due principi guida:

a) non fare processi, ergo, velocizzare la giustizia; b) cacciare (questo è il termine esatto) gli avvocati dalle aule.

Non è questo il momento per analizzare la riforma che è stata osannata (si vedano i commenti, addirittura, dalle Camere Penali Nazionali) ed ora è da (quasi) tutti criticata. Ma il punto è un altro: l’indipendenza e la libertà dell’avvocato passa dalla sostenibilità della sua attività e dall’equo compenso che va riconosciuto e tutelato (il Parlamento sta lavorando a ciò). Non è molto, ma è qualcosa. Se l’avvocato non ce la fa più a portare avanti lo studio non è solo un avvocato in difficoltà, ma è un difensore dei cittadini che viene meno. E un avvocato in difficoltà è “costretto” a piegarsi a regole che non avrebbe condiviso ed avrebbe combattuto/evitato.

L’avvocatura non combatte più e, quindi, non difende più i diritti dei cittadini ed in particolare dei più deboli, dei fragili e questo perché gli avvocati non sono più in grado di essere filantropi ed il loro ruolo sociale è stato via via eroso. Tutte queste situazioni, unitamente alla ormai diffusa idea giustizialista, fanno in modo che i cittadini si allontanino sempre più dal mondo della Giustizia e lo considerino alieno. Mi auguro solo che ci sia uno scossone e che ci si accorga, a vario titolo ed a vari livelli, della deriva in cui stiamo andando e mi auguro che (ancora) non si siano superate le colonne d’Ercole. Fulvio Croce diceva di essere un avvocato e non di fare l’avvocato ed ha pagato con la vita questa sua scelta, ma è l’unica che deve essere fatta se si ritiene ancora che l’avvocato abbia un ruolo sociale e civile in questa degradata e sciatta società.

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