«La memoria è la nostra cultura. È l’ordinata raccolta dei nostri pensieri. Non solamente dei nostri propri pensieri: è anche l’ordinata raccolta dei pensieri degli altri uomini, di tutti gli uomini che ci hanno preceduto». (Leonardo Sciascia, Cruciverba)
Sempre Leonardo Sciascia, nel 1977, ci ricorda che l’intellettuale è «uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le possibili conseguenze. La funzione, insomma, che l’intelligenza unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopprimibilmente – dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere».
La memoria non si riferisce semplicemente al ricordo individuale, ma piuttosto a un processo complesso e dinamico che coinvolge la costruzione del passato attraverso le narrazioni e le pratiche sociali. La memoria svolge un ruolo cruciale nella formazione dell’identità individuale e collettiva, poiché i ricordi contribuiscono a definire chi siamo e da dove veniamo (J. Le Goff, Storia e memoria; Z. Bauman, A tutto campo. L’amore, il destino, la memoria e altre umanità. Conversazioni con Peter Haffner).
Il 25 giugno 1992 il giudice Paolo Borsellino, a distanza di un mese dalla strage di Capaci, nell’atrio della Biblioteca Comunale – che è intitolato, dedicato al magistrato Paolo Borsellino – tiene il suo ultimo discorso «Fare memoria viva, un impegno quotidiano».
Durante un’intervista televisiva lo scrittore Andrea Camilleri disse che «l’italiano ha memoria solo per due cose: Sanremo e la formazione di calcio della Juventus nel 1930».
L’idea, dunque, che l’italiano abbia poca memoria storica è ben presente e radicata negli intellettuali (Indro Montanelli, Umberto Eco, Massimo Cacciari, Amelia Signorelli, et alii), che ne sottolineano le amnesie per le cose davvero importanti. Con il professore Francesco Pira, associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina, saggista e giornalista, vogliamo analizzare, guardare la nostra società, le nostre società contemporanee prive di memoria, narcisistiche nel ricordo dell’uomo, del giudice Paolo Borsellino.
D.: A trentatré anni di distanza dalla strage di via Mariano D’Amelio – nella quale sono stati uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi) qual è la «lezione» che il magistrato Paolo Borsellino ci offre.
R: «A trentatré anni dalla strage di via D’Amelio, la figura di Paolo Borsellino non è soltanto il simbolo del coraggio istituzionale, ma rappresenta una lente attraverso cui osservare la nostra società e interrogarci su che tipo di comunità vogliamo costruire. Borsellino non ci ha lasciato solo un’eredità giudiziaria, ma una sfida culturale e civile, che tocca in profondità i comportamenti quotidiani, i rapporti sociali e il modo in cui concepiamo la legalità. Da un punto di vista sociologico, la sua lezione è duplice: da una parte, ci mostra quanto la criminalità organizzata sia un fenomeno sistemico, che muta nel tempo adattandosi ai cambiamenti sociali e tecnologici — come ho analizzato studiando la trasformazione della comunicazione mafiosa, dai pizzini ai social network. La mafia cambia pelle, ma non perde la sua capacità di infiltrarsi nelle dinamiche sociali, economiche e persino culturali. Dall’altra, ci costringe a guardare dentro noi stessi e a riconoscere quella “mafiosità” di cui parlava Gesualdo Bufalino: non soltanto un’organizzazione, ma una mentalità. È la cultura del privilegio, della scorciatoia, dell’arroganza del più forte sul più debole. La lezione di Borsellino, allora, non è solo un monito alla lotta contro la mafia in senso stretto, ma un invito alla responsabilità collettiva: alla necessità urgente di educare i giovani alla legalità, all’etica del rispetto, all’onestà come valore non retorico ma concreto. Noi adulti abbiamo il dovere di ascoltarli, di essere testimoni coerenti, di non lasciarli soli in un tempo in cui troppo spesso l’apparenza vale più della sostanza e l’individualismo ha sostituito la solidarietà. Il giorno che sogno — quello in cui tutte le mafie scompariranno — sarà anche il giorno in cui avremo sconfitto la cultura della sopraffazione. L’esempio di Paolo Borsellino, e di tanti altri eroi, resta una chiamata continua alla vigilanza civile e alla resistenza etica».

D.: Lei, professore Pira, ha intervistato il giudice Paolo Borsellino. Da acuto studioso delle nostre società cosa di quest’intervista ancora oggi rileva e che eredità, quale «peso» ha avuto e ha sulla sua persona?
R: «Ogni anno, alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio, compio un gesto che ormai è diventato un rito personale ma anche profondamente professionale: rileggo l’intervista che ebbi il privilegio di fare al giudice Paolo Borsellino per il Giornale di Sicilia. Si trattava di un’intervista nata in un contesto di cronaca — parlavamo di un rapimento avvenuto a Palermo — eppure fu molto di più: fu un incontro che segnò la mia vita e la mia visione del mondo. L’eredità di quella conversazione ha avuto un impatto profondo anche sul mio modo di analizzare le trasformazioni della società contemporanea. Come studioso, ho sempre cercato di indagare il cambiamento culturale e comunicativo della mafia — dalla sua capacità di mimetizzarsi fino all’uso dei social media — ma quell’incontro con Borsellino mi ha insegnato che il cuore del problema non è solo criminale: è antropologico e morale. La sua consapevolezza del rischio, la frase “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia”, mi ha sempre colpito per il coraggio tragico con cui lui stesso si collocava dentro una rete di poteri opachi, consapevole che la verità spesso è più pericolosa della menzogna. La sua forza, però, stava nella chiarezza della visione: la mafia non si combatte solo con il Codice penale, ma con un movimento culturale, etico, educativo. E questa, secondo me, è la lezione più importante dal punto di vista sociologico. Per Borsellino, la lotta alla mafia doveva diventare una pratica collettiva, un gesto quotidiano di rifiuto di quella mentalità che normalizza il compromesso, l’omertà, il privilegio, la furbizia che calpesta le regole. Da allora, porto con me il “peso” e la responsabilità di quell’incontro. Non solo come memoria, ma come impegno. Perché quella testimonianza non appartiene al passato: ci parla ancora, ogni volta che ci troviamo davanti a una scelta tra l’indifferenza e la partecipazione, tra il silenzio e la parola. E ogni volta che decidiamo da che parte stare, stiamo anche dicendo se vogliamo continuare o meno la battaglia di Paolo Borsellino».
D.: In questo lungo tempo di crisi (economica, sociale, culturale) quale contributo può dare l’eredità di un uomo come Paolo Borsellino? La «crisi di sistema» che già da anni ha dispiegato e dispiega tutto il suo potenziale distruttivo può trovare nella figura dell’uomo e del magistrato Paolo Borsellino una presenza di speranza, una coscienza prima individuale e poi sociale che potrebbe rinnovare le nostre attuali situazioni esistenziali? «Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse» – celeberrima frase del giudice Borsellino – quanta profondità emotiva e intellettuale potrebbe donarci solo se non fossimo dispersi nella confusa e smarrita «società liquida» in cui narcisisticamente viviamo?
R: «Viviamo immersi in una crisi di sistema che non è più soltanto economica, ma profondamente sociale, culturale e valoriale. La fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici, le disuguaglianze aumentano, la coesione sociale si sgretola e, come ha mostrato Bauman, ci troviamo in una “società liquida”, dove tutto è instabile: i legami, le identità, le appartenenze. In questo contesto confuso e spesso narcisistico, in cui prevale l’apparenza sulla sostanza, l’eredità di Paolo Borsellino può rappresentare una bussola morale e civica. In un tempo in cui la criminalità organizzata si reinventa attraverso strumenti digitali e strategie comunicative sofisticate — basti pensare ai criminali-influencer che raccolgono migliaia di follower e contribuiscono a una narrazione spettacolarizzata del male — la sua testimonianza rappresenta un richiamo forte alla verità, all’etica, alla sobrietà del servizio. Oggi assistiamo a una nuova forma di normalizzazione del crimine, alimentata dalla “vetrinizzazione social” e dalla logica del consenso facile. La criminalità si fa pop, spettacolo, lifestyle, mentre al tempo stesso rafforza le sue radici con strumenti tradizionali di controllo del territorio e con sofisticate reti di potere globali. La mafia è fedele a sé stessa: mantiene una struttura coesa, ma si aggiorna, si trasforma, resta invisibile mentre si rende visibile solo quando serve, spesso in forma distorta. Ecco perché l’eredità di Borsellino ha ancora un enorme valore: perché ci ricorda che la lotta non è solo contro un’organizzazione criminale, ma contro un modello culturale che accetta il compromesso, che banalizza l’illegalità, che smarrisce il confine tra giusto e ingiusto. In questa epoca smarrita, la sua figura può ancora essere una “presenza di speranza” se riusciamo ad interpretarla come coscienza critica. Borsellino credeva in un movimento culturale e morale che partisse dal basso, capace di coinvolgere soprattutto le nuove generazioni, perché sapeva che la legalità non si insegna solo con le leggi, ma si costruisce nel tessuto sociale, nelle scuole, nei media, nelle famiglie. Per questo, in un tempo di crisi sistemica, l’eredità di Borsellino può e deve diventare azione pedagogica, memoria attiva, stimolo al cambiamento. Serve a ricordarci che ogni società è il riflesso delle scelte che compie. E che la legalità non è mai un dato acquisito, ma un processo continuo, fatto di gesti, parole, educazione e consapevolezza. Anche e soprattutto in tempi bui».
P.S.: Si ringrazia il professore Francesco Pira per aver condiviso la foto dell’articolo-intervista al giudice Paolo Borsellino pubblicata sul quotidiano «Giornale di Sicilia» il 1° dicembre 1991.