Un’architettura immensa, una cattedrale di versi costruita per raccontare il cammin di nostra vita. Un viaggio-metafora-specchio-parabola dell’Uomo sempre al bivio tra smarrimento e redenzione, magnificenza e misera. Dante – insegna il poeta e letterato Giuseppe Ungaretti – presenta l’uomo non come un essere perfetto, ma come un essere perfettibile.
In questo settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta (1321-2021) la Commedia ma tutta l’opera di Dante ha la capacità, a livelli diversi, di offrire emozioni ma soprattutto la conoscenza della salvezza. Una via, quest’ultima, che il professore Pasquale Vitale, docente di ruolo Filosofia e Storia presso il Liceo Classico «Domenico Cirillo» di Aversa (Caserta), incrocia nel «libro de la mia memoria» e che ricostruisce e segue comparandola con la sua esistenza di giovane docente. L’intervista che scorrerà sotto gli occhi e il cuore del lettore / lettrice indica sempre quel disegno didascalico ed educativo che tesse e costituisce l’identità del capolavoro dantesco. Nelle pieghe delle parole dell’amico docente Vitale prende forma una profonda comprensione della realtà umana.
D.: Può raccontarci, professore Pasquale Vitale, a quando risale il suo primo incontro con Dante? Come e cosa ricorda?
R.: Risale al terzo anno di liceo, avevo circa 16 anni. Mentre la mia professoressa di lettere leggeva e commentava il primo canto dell’Inferno, rimasi colpito dall’immagine del viso di Dante, rigato dal pianto, e dal suo «Miserere di me»: «A te convien tenere altro viaggio» / rispose, poi che lagrimar mi vide/, se vuo’ campar d’esto loco selvaggio» (Inf. I, 91-93). Dante è convinto di poter intraprendere da solo il viaggio che lo condurrà lontano da ogni traviamento, ma una lupa, senza requie e piena di ogni bramosia, lo spaventa a tal punto da indurlo a fermarsi. In questo modo diviene cosciente della sua inadeguatezza. Anche io allora mi sentivo inadeguato, fuori posto e a volte anche di troppo. Quando lessi che nel suo momento più buio Dante era stato soccorso da chi per lungo tempo «parea fioco», iniziai a nutrire la speranza che avrei presto incontrato anche io una guida dotata di spessore umano e culturale. Nelle lacrime di Dante avevo riconosciuto le mie debolezze, nella sua richiesta di pietà rivolta a Virgilio l’appello rivolto a ogni uomo a mettersi nei panni di chi nella propria vita ha un momento di disorientamento e vuol che qualcuno illumini il cammino che conduce alla «salvezza». Con il tempo mi è stato sempre più chiaro che l’altro viaggio consiste nel rinunciare al miraggio delle vie semplici, ai successi effimeri, alla perfezione di un appagamento e di una felicità costanti. L’armonia di certi vissuti, infatti, nasce solo dalla fatica che si intraprende con il sostegno di chi ci ama che, nei momenti in cui non abbiamo il coraggio di chiedere aiuto, ci regala solamente un abbraccio. «I’m’assettai in su quelle spallacce: / sì volli dir, ma la voce non venne / com’io credetti: «Fa che tu m’abbracce», (Inf., XVII, 91-93)
D.: Quale rima, terzina o frase dantesca ha guidato e guida il suo quotidiano lavoro di docente e studioso.
R.: Oltre che dal «Miserere di me», il mio lavoro quotidiano di docente è animato dal «ma misi me per l’alto mare» che Dante fa pronunciare ad Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno. A volte, ulisside, avverto la necessità di mettere tutto me stesso in quello che faccio, di rischiare di perdere e di perdermi, perché ho puntato oltre le mie possibilità, ma non posso fare a meno di voler «diventar del mondo esperto», di considerare la mia sostanza e non gli aspetti accidentali dell’esistenza (come direbbe Aristotele), di sperimentare i limiti che, sovente, mi riportano al punto di partenza. L’Ulisse dantesco è travolto e sconfitto dalle onde, dall’insondabile volontà di colui che segna i confini oltre cui non è possibile inoltrarsi (non plus ultra); l’immagino stagliarsi su tutto e tutti e, come nel dipinto «Ulisse e le sirene» di Leon Auguste Belly, incurante dei pericoli. L’immagino, quasi kantianamente, consapevole che il cielo stellato che lo delimita, che il sublime dinamico che ha trasformato la sua allegria in pianto, non possa sottrargli la certezza della sua superiorità morale. «Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore» Così si esprime Saba nella sua bellissima poesia «Ulisse», nella quale il viaggio di Odisseo si trasforma in allegoria del percorso di vita del poeta, del suo indomato spirito che anela alla terra di nessuno, lontano da rassicuranti porti. Nella mia azione didattica sono stati proprio i «folli voli», quelli pieni di inquietudine, a farmi credere che c’è sempre una possibilità per tutti, che bisogna sempre tentare e che arrendersi è da ignavi. Del resto, Dante mal tollera l’anima triste di coloro che «visser sanza infamia e senza lodo» e io spero di trasmettere ai mei allievi la forza di prendere posizione, di reagire anche quando non ci resta che un triste miserere.
D.: La figura di Dante come uomo e letterato è davvero piena e completa: un politico, un poeta e scrittore, un esule con prole al seguito, un condannato a morte sempre alla ricerca della giustizia. Cosa quest’uomo oggi può davvero insegnare? Ovvero quale segno nella vita dei giovani e dei meno giovani può porre?
R.: Dante ci insegna che nella vita è sempre possibile intraprendere il percorso che ci conduce fuori dal tunnel. Nel canto XVI del Purgatorio, vv. 73-77 scrive: «Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, / lume v’è dato a bene e a malizia, / e libero voler; che, se fatica/ nelle prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica». Gli astri influiscono sulle tendenze iniziali di ciascuno, ma è pur vero che ci è stata elargita la luce della ragione per distinguere il bene dal male e la libera volontà che, nonostante tutte le difficoltà, alla fine, se ben alimentata, vince sempre. Il mondo presente può anche «disviarci», ma abbiamo sempre la possibilità di ricominciare da capo, anche di sradicarci come direbbe Sartre. Pochi anni fa, grazie a una mia cara amica, ho avuto la possibilità di tenere una lezione di filosofia ad alcuni detenuti dell’ex OPG di Aversa. Parlai della Consolazione della filosofia di Boezio. Ero convinto che sarebbe stato un flop, ma quando alcuni detenuti ascoltarono i consigli elargiti dalla personificazione della filosofia a Boezio esclamarono «Professò, ce vulimm’ salvà» (professore, vogliamo salvarci). Dante ci insegna che se sappiamo ascoltare, se sappiamo cogliere le occasioni che costantemente ci vengono presentate, allora potremo davvero decidere chi essere. Il sommo Poeta ha scelto di non rinunciare mai alla propria dignità, ha scelto da esule di voler ritornare in patria solo se la giustizia avesse trionfato. Già solo la sua biografia è un exemplum a cui le nuove generazioni dovrebbero guardare. Devono guardare.