Se c’è uno scrittore della letteratura italiana che ha cambiato le modalità di lettura e di analisi del proprio territorio natìo, inteso come spazio concentrico entro la quale vagano madeleine proustiane e verità assolute, mescolando nelle pagine un aspro sapore di vita, questo scrittore è proprio Piero Chiara. Dopo la morte dell’autore negli ultimi sgoccioli del 1986, la preziosa gestione dell’archivio da parte del compianto Federico Roncoroni, ha fatto in modo che il solco lasciato da Chiara non venisse oscurato dalla sabbia del tempo e ne è prova che i suoi libri vengano regolarmente ristampati (si veda alle ultime edizioni mondadoriane) e il suo spirito sia rimasto nella mente e nelle anime di coloro che gli rendono omaggio tra i quali spicca la straordinaria avventura di Robert Morse ex cestista, leggenda del basket europeo e oggi docente di letteratura italiana negli States.
Sono venuto a conoscenza di questa storia un paio di mesi fa, quando nella felice corrispondenza con Mauro della Porta Raffo, si parlava come al solito di Piero Chiara e tra un racconto e un altro, nella fulminea capacità di rispondere da parte del Gran Pignolo, sono venuto a sapere di Bob Morse: un americano che ha portato la narrativa di Chiara oltreoceano, nei college statunitensi.
Il fattore anagrafico non mi aiutava a capire chi fosse Bob Morse, che a detta del mio illustre amico “è stato forse il più grande giocatore di basket USA mai arrivato in Italia”, ma da una breve ricerca sono riuscito a ricostruire brevemente la sua brillante carriera sportiva, dalla partenza dagli States fino all’arrivo in Europa, dividendosi tra Italia e Francia, ma facendo di Varese il suo punto di riferimento assoluto. Rimando, per i più curiosi, alla lettura di un bellissimo articolo che ho letto tempo fa, scritto da Giovanni Manenti su SportHistoria.com che ne descrive la parabola: https://sport660.wordpress.com/2024/02/26/bob-morse-la-stella-usa-che-scelse-litalia-e-varese-rispetto-al-basket-nba/ anche se sul web si trova una buona quantità di articoli.
Mi ha colpito però, al di là dei trionfi sportivi, quanto accaduto al cestista americano dopo il ritiro, tanto per l’attività intrapresa, ossia quella di studioso e docente – che, inevitabilmente, è curiosa -, quanto per la passione dimostrata verso Piero Chiara e la sua narrativa, certamente nata a contatto con l’ambiente varesotto e la comunanza delle parole a quei luoghi che sembrano essere, aperte le pagine bianche di quelle narrazioni, un colloquio ininterrotto con il luogo circostante, una finestra aperta su quel paesaggio che aspetta il suono delle parole lette per accendersi di ricordi che sono rimasti aggrappati alle guglie delle chiese, alle cimase delle case, agli interstizi di vecchi palazzoni o alle crepe delle montagne che vigilano il sereno Lago Maggiore.
Nel maggio del 2016 proprio Bob Morse raccontava in un’intervista a Mauro della Porta Raffo, pubblicata sul prezioso Dissensi e Discordanze ormai non visibile più sul web, la sua seconda vita, dicendo che aveva deciso di scrivere la propria tesi di laurea per il Masters all’Università di Virginia, scegliendo quattro racconti di Piero Chiara da tradurre dall’italiano all’inglese. L’attività di traduzione e diffusione è senza dubbio fuori dalla norma comune, e risulta una particolarità anche per valutare l’impatto della narrativa chiariana in America, dove la geografia dei luoghi e delle storie narrative è sentimentalmente diversa, non tanto per una questione di sciovinismo patriottico, ma soprattutto per una serie di circostanze che hanno confinato due storie politiche e sociali estremamente diverse. Agli italianisti degli Stati Uniti il nome di Piero Chiara è quasi sconosciuto, nonostante lo scrittore varesotto abbia tenuto delle conferenze oltreoceano, ma la dimenticanza che aleggia nei confronti della narrativa italiana del Novecento è letale in Italia, figurarsi in America; è curioso invece quanto poi asserisce sul medesimo argomento parlando di docenti con i quali ha intrattenuto rapporti professionali: “alcuni professori italiani da giovani mi hanno detto che avevano letto qualche suo racconto, ma nessuno lo considera fra i grandi scrittori italiani del ventesimo secolo”.
Questa mancanza di considerazione, in realtà, accomuna una pletora di scrittori (Alvaro, Berto, Cassola, Landolfi, Carlo Levi, Malaparte, Pratolini) che hanno caratterizzato il nostro Novecento nella sua vastità di essere sospiro e voce nella crisi interbellica. Nella narrativa novecentesca il caso di Piero Chiara, il narratore seduto nella carrozza a fianco della grande letteratura, è molto particolare, perché la sua lettura è legata a una pubblicazione immanente alla vita del suo autore che, interrotta per volontà del destino, non ha resisto all’avanzare del tempo, nonostante l’opera meritoria del compianto Federico Roncoroni, esecutore delle carte chiariane, abbia cercato di regalarci un concetto di narrativa postuma sospesa, pubblicando a intervalli irregolari opere, scritti, racconti che testimoniassero la volontà di allietare i vecchi e i nuovi lettori.
L’autore luinese, dunque, è esistito solo nella pubblicazione spasmodica delle sue opere e si è dileguato anche a causa di una critica avara di riconoscenza e riconoscimenti, sebbene la sua produzione fosse innestata in una intersezione temporale capace di prendere il volgere del tempo e comprimerlo, come un mantice che si dispiega e poi si chiude, trasformando l’oralità in episodio, in fatto narrativo, dal quale cavarne una morale, un abbellimento del tempo, una fotografia di una società piccola che rifrange i costumi e le abitudini del grande centro urbano.
Proseguendo, il docente americano, otto anni or sono, raccontava a Mauro della Porta Raffo che “i suoi racconti [quelli di Chiara n.d.r.] non compaiono quasi mai nelle raccolte di short stories usate nei corsi universitari di letteratura italiana in America; questo avviene, nonostante le sue opere abbiano incontrato grande successo con il pubblico italiano durante la sua vita”. L’aspetto delineato rientra nelle forme e nei modi dell’eziologia della narrativa sviluppata dall’autore luinese, che era in sostanza un autodidatta, che non aveva studi regolari, né tantomeno umanistici, e non si era avvicinato alla scrittura narrativa e, probabilmente, non si sarebbe mai immaginato di compiere questa metamorfosi da narratore orale a narratore autoriale – anche se l’esperienza della silloge poetica Incantavi rimane un mistero; cioè tutta quella fase “sperimentale” in un momento immediatamente posteriore alla fine della seconda guerra mondiale un cancelliere, esule politico in Svizzera, comincia a pubblicare racconti su qualche giornale svizzero e una raccolta poetica -. A causa di questo mancato retroterra culturale, egli è rimasto fuori dai grandi circoli letterari e accademici in Italia, e di conseguenza non è stato mai studiato con cognizione di causa dagli italianisti nel mondo.
Di certo, la scelta da parte dell’ex cestista di utilizzare la narrativa chiariana come oggetto delle sue lezioni nasce dal presupposto di voler intraprendere una strada diversa da quanto comunemente proposto “anche perché allora nel 2007, credo che nessun’opera di Chiara fosse mai stata tradotta in inglese e volevo che i miei colleghi e studenti lo conoscessero”. Quindi una prima traduzione in inglese delle opere di Piero Chiara è avvenuta grazie alla volontà di Bob Morse di riportare all’attenzione dell’utenza americana una nuova forma di narrazione; il quale non ha risparmiato nemmeno giudizi sullo stile che contraddistingue la narrativa chiariana dalle altre; il docente statunitense ricordando che la sua passione ha avuto (e mantenuto) un rapporto profondo con gli scenari di vita vissuti, osservati, e letti, precisa: “riesco a individuare molti dei luoghi in cui sono ambientate le opere di Chiara e riconosco piuttosto bene anche la mentalità e le abitudini del tipico personaggio che descrive”. Una prosa che oserei definire intagliata nel legno dell’umanità comune, dei luoghi semplici e lontani dal rumore disordinato della vita, laddove il caos sembra essersi dimenticato di esistere. E ancora più avanti nota: “Credo che la sua prosa sia composta per massimizzare l’impatto di quello che racconta invece di cercare di impressionare il lettore con la sua intelligenza o virtuosità come scrittore”.
La massimizzazione di cui parla è una costante nella produzione di Piero Chiara, ossia quella disposizione di una prosa ordinata e asciutta che abbia un effetto dirompente sul lettore, in quel suo continuo sciogliersi del fatto narrativo in una prosa senza orpelli, senza una retorica che cerchi effetti poetici, ma che evidenzia la poesia dei luoghi e la loro forza evocativa riproducendo nella forma scritta, metaforicamente, l’eco orale.
Addirittura, Bob Morse, si spinge più in là con i paragoni asserendo che: “Mi ricorda due autori americani a me cari, Hemingway e Steinbeck, che hanno fatto strada con il loro stile diretto e schietto. Risulta che il lettore può benissimo identificarsi con i suoi personaggi perché sono credibili, e perché rappresentano fedelmente i pregi e difetti di molti di noi”. Sui rapporti con la narrativa americana vedremo più avanti quali affinità è possibile ritrovare, di certo c’è una prevalenza di fatti, simili a delle metanarrazioni la cui forza narrativa in effetti è stata l’identificazione del mondo reale nel mondo narrativo. Ci sembrerebbe di cogliere una simile caratteristica in qualsiasi narratore, soprattutto nei moderni, o potremmo dire che Chiara sia stato anticipatore di questo modus scribendi; in realtà è semplicemente avvenuto di “conoscerlo”, di leggerlo e di affondare con gli occhi nell’antico scorrere del tempo dove ammaliati da un fatto, siamo stati a sentirne un altro e poi un altro ancora, distraendoci dal rumore della vita o riconoscendo il medesimo nella riproposizione di personaggi-specchio entro cui il lettore-narciso possa affogare e perdersi, redimersi, dannarsi o sorridere.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare Bob Morse, pur vivendo a Varese e in Valganna per quasi un decennio durante la vita di Piero Chiara, non riuscì mai a conoscerlo o incontrarlo; ricevette, tramite un amico comune, una copia de Le corna del diavolo autografata con dedica che sancisce il prezioso legame all’autore. Il resto è stato frutto del caso, o forse un colpo da maestro.