Eugenio Mamprin e il tradimento di classe; una riflessione

Articolo di Alberto Maccagno

A quanto asserito da Eugenio Mamprin nel video sviscerante il concetto di tradimento di classe (di cui vi lasciamo il link) manca un interrogativo fondamentale.

Il brillante co-conduttore di Wesa Channel ha pienamente ragione quando sottolinea che l’additare come traditore chiunque esprima un’opinione dissimile a quanto la sua appartenenza (politica, religiosa, sessuale, ecc.) farebbe presupporre, è una tecnica di squalifica dell’interlocutore in quanto persona, volta a ridurre per l’ennesima volta la possibilità di confronto sui contenuti.

Quest’arma garantisce di non dover fare i conti né con le opinioni esterne alla nostra cerchia ideologica, in quanto nemiche, né con quelle avverse ma provenienti dall’interno, in quanto espressione di tradimento. Si consolida, così, una dinamica settaria sempre più escludente e autoreferenziale, un meccanismo di squalifica dell’oppositore, vero o presunto, di chiara ispirazione autoritaria, che ha l’obiettivo di non far tremare il Potere sotto agli attacchi della logica.

Tutto corretto, quindi. Ma manca un interrogativo fondamentale ed è il seguente:

Classe? Quale classe?

Di quale classe parlano questi signori del progressismo che, nell’epoca post-comunista, hanno costruito la peggiore sinistra immaginabile per il nostro Paese? Una sinistra che ha completamente dimenticato il proletariato e il neoproletariato, in cui ad oggi rientrano inevitabilmente anche i piccoli imprenditori, svendendoli alla propaganda populista delle destre identitarie, non arrivando più nelle fabbriche e nelle scuole ma solo nei salotti televisivi con il relativo carico di comunicazione d’aveniana, onirica e surreale.

A che classe si riferiscono questi signori che hanno contribuito alla frammentazione sociale di stampo capitalista, suddividendo la collettività in microgruppi di pensiero da considerarsi, all’atto pratico, come fette di mercato a cui vendere questo o quel prodotto? Tutto ciò, ovviamente, a discapito dell’idea di coscienza di classe, una percezione condivisa che dovrebbe legare tutte le persone che non godono del privilegio senza fare classifiche di esclusione, esigenza a cui l’anacronistico concetto di intersezionalismo non riesce a far fronte.

Qual è la classe a cui appartengono le banche, i grandi imprenditori e i giornali vicini al Partito Democratico? Cosa c’è di sinistra nella negazione del concetto di autorevolezza con cui il Movimento 5 Stelle ha contribuito alla morte del buonsenso intellettuale e della democrazia rappresentativa?

La classe non esiste, per costoro. Non prendiamoci in giro.

Le “classi”, al plurale, di cui parlano questi signori sono piccoli gruppi identitari che non riescono più a comunicare né tra loro, né con gli altri, né tantomeno al proprio interno. Un insieme di realtà in cui le persone ricercano la fascia di sfruttamento in cui identificarsi, sperando almeno una volta di poter passare come vittime di un sistema ingiusto e tiranno.

Ci si trova a fare i conti con un meccanismo illogico e nemico della complessità, ossia un gioco per il quale un individuo è interamente descritto dal proprio grado di sottomissione e in cui l’orientamento sessuale, le origini geografiche e il genere diventano l’unico fattore di appartenenza a un dato schema di ideali.

Per questa ragione, abbiamo assistito per anni a figure che godevano palesemente del privilegio economico e sociale come Chiara Ferragni (parlandone da viva) e Fedez menare pipponi clamorosi sulle questioni in voga nel mondo progressista, ricevendo applausi e strizzando l’occhio alla sinistra liberale, per poi cambiare bandiera alla prima occasione utile. Pose senza contenuto per vendere prodotti, il sogno bagnato di ogni berlusconiano.

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e non c’è peggior popolo di quello che perde il senso dell’unità, del comune.

Il comunismo è stato per tanti anni un faro, per alcuni indubbiamente una fede a cui votarsi aprioristicamente, ma per molti altri una luce con cui illuminare la strada delle proprie scelte, affrontando con spirito critico i precetti del marxismo e rifiutando le brutture autoritarie a cui i regimi di stampo sovietico imparavano ad abituarci, in favore di un modello che protegesse la democrazia e lo stato di diritto. È stato, in fin dei conti, un’occasione per dare sfogo a slanci illuministi, a battaglie per l’uguaglianza e a conquiste di cui ancora oggi godiamo in quanto società.

In conclusione, è necessario tornare a costruire un pensiero critico forte che rappresenti la maggioranza crescente delle vittime del sistema iperconsumistico in cui viviamo, che non disperda le energie di una rivoluzione necessaria e che tenga conto delle esigenze intestine, quindi dei microgruppi prima citati, come conseguenza di un ribaltamento sociale sempre più impellente.

A pancia piena si ragiona meglio.

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