Prima del 1810 Alessandro Manzoni, nonostante fosse stato educato sin da piccolo al cattolicesimo, non si sentiva cattolico, ma poi, il 2 aprile di quell’anno, a Parigi, avvenne il miracolo di San Rocco (di cui ho parlato ampiamente in un altro articolo) che portò lo scrittore milanese alla conversione, cambiando la sua vita tanto in privato quanto nella professione di scrittore. Le sue opere, quindi, si impregneranno di quella religiosità profonda che lo accompagnerà fino al letto di morte: gli Inni Sacri (1812- 1822); l’Ode a Napoleone Bonaparte, di cui parlerò più avanti; I Promessi sposi (1821-1827-1840) e Osservazioni sulla morale cattolica.
Nel 1819 Manzoni pubblica in 19 capitoli un saggio molto importante che, oltre ad avere una genesi assai particolare che deve essere autonomamente approfondita, segna una fase della sua vita caratterizzata, come detto sopra, dalla conversione che certamente lo trasformerà in un altro uomo. L’obiettivo principale dell’opera viene segnalato dalla critica mossa verso un altro scritto letterario dell’anno precedente, Storia delle repubbliche italiane del Medio Evo, dello svizzero Sismonde de Sismondi che, in alcuni capitoli, giudica malamente la Chiesa cattolica per essere la causa dell’assenza di una morale alla base del bene civile soprattutto in Italia. Allora Manzoni, nelle Osservazioni, si prodigherà a confutare man mano i precetti espressi da Sismondi, facendo un’apologia del cattolicesimo: “Questo scritto è destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dall’accuse che le sono fatte nel Cap. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo… Io sono convinto che essa è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall’interpretarla alla rovescia”, scriveva nella prefazione al lettore. La suddetta opera sottolinea quanto il milanese fosse fortemente convinto della sua vicinanza alla Chiesa cattolica e ai benefici frutti della fede cristiana che da essa ne derivano e questo lo vediamo evidentemente anche nell’Ode a Napoleone Bonaparte che scrisse in occasione della sua morte avvenuta il 5 maggio 1821.
Cominciamo col dire che il clima dell’isola di Sant’Elena, nel mezzo dell’Oceano Atlantico, è rigido e che, quando arrivò per scontare il suo “ergastolo”, dopo la sconfitta di Waterloo (1815), Napoleone si ammalò subito. I dolori, che già da tempo accusava allo stomaco a causa di un tumore, si fecero più forti e nel tardo pomeriggio del 5 maggio 1821, mentre in cuor suo si convertiva al cattolicesimo, si abbandonava al sonno eterno. Sul suo letto di morte, negli appartamenti posti nel villaggio di Longwood, pronunciò le sue ultime parole: tutte rivolte alla sua amata Francia. Venne seppellito lì, nel terreno umido di quell’isola sperduta nel nulla, così lontana che la notizia della sua dipartita arrivò in Italia solo due mesi dopo, a metà luglio.
Alessandro Manzoni venne a conoscenza della notizia grazie alla lettura della Gazzetta di Milano e, in tre soli giorni, compose una delle sue odi più belle in assoluto, Il cinque maggio, che certamente non sarebbe caduta nel dimenticatoio degli scritti. Molto verosimilmente, mentre leggeva la funesta vicenda, nella mente del maestro saranno passate le immagini di quando, a 15 anni, lo incontrò alla Scala, dove era rimasto profondamente colpito dalla sua personalità, dal suo stile, dai suoi occhi fulminei e dal suo carisma.
Scritta l’ode, l’autore la fece passare per gli uffici della censura austriaca che evidentemente non ne consentirono la pubblicazione, vedendo in essa una lode al nemico più feroce dell’Austria stessa. Tuttavia, come nell’uso consueto dello scrittore, l’ode fu scritta in tre getti: una prima stesura; uno scritto di versi a latere – con degli accorgimenti, integrazioni, chiarimenti e modifiche – e due versioni definitive, di cui una, per l’appunto, fu trattenuta dai censori e l’altra copiata e ricopiata a mano più volte e fatta circolare per le strade del Regno Lombardo-Veneto, in Francia e in Germania, dove la eco fu talmente grande che Goethe, intellettuale tedesco, ne fece la traduzione nella sua lingua madre. Ma che cosa voleva celebrare Manzoni con questa ode?
Tanto per iniziare, va certamente detto che lo scrittore fu colpito dal fatto che Napoleone si fosse convertito sul letto di morte, infatti egli non aveva nessuna intenzione di celebrare il personaggio in quanto tale, tant’è vero che nella poesia neppure lo nomina mai, bensì di come Dio, con la sua grazia e misericordia, avesse operato su quest’uomo che effettivamente aveva avuto un’esistenza certamente ricca di vicende alla base del radicale cambiamento circa le sorti sociali, politiche e civili dell’intero continente. D’altra parte il milanese si soffermerà anche su un altro punto non di poca importanza: riflettere sulla vanità terrestre di fronte all’eternità dell’anima.
La poesia è formata da 108 versi settenari e la presenza di figure retoriche è imponente, mentre lo schema rimico è ABCBDE, FGHGIE. Per studiarla con più attenzione, essa può sicuramente essere divisa in tre parti: I. presentazione del tema emblematico; II. vita di Napoleone: dalla gloria all’esilio; III: la fine di Napoleone con la morale e la religione. Nella prima sezione (VV. 1-24) Manzoni ci presenta il generale ormai morto, sottolineando che con la sua fine è terminata per sempre anche l’età napoleonica. Quanto detto si evince già dalle prime due parole del primo verso, dove Ei sta per Napoleone e per tutto ciò che è legato al suo nome, mentre il verbo essere coniugato al passato remoto demarca la dipartita del condottiero e ci parla di un passato che non tornerà mai più: tutto passa inesorabilmente. Più avanti lo scrittore descrive lo stato d’animo della gente all’indomani della notizia: tutti sono profondamente scossi. Quindi Manzoni muove due critiche, la prima verso quelli che hanno adulato la sua potenza; la seconda verso chi lo critica solo ora, dopo la morte, quando non può più difendersi.
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro, così percossa,
attonita la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Nella seconda sezione (VV. 25-84) Manzoni si e ci chiede se le azioni di Napoleone siano state davvero gloriose, ma non dà risposta, lasciando la responsabilità al lettore ideale e quello reale. In realtà allo scrittore, come detto sopra, non interessano i trionfi del generale, perché quello che veramente importa è la conversione che è arrivata a Sant’Elena in prossimità del letto di morte: è lì che il fondatore del primo impero francese riflette soprattutto sulle sue sconfitte che lo hanno riportato con i piedi per terra e realizza che solo in Dio vi sono certezze e che tutto il resto è vanagloria.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
Nella terza e ultima sezione (VV. 85-108) Manzoni ci parla della nostalgia provata da Napoleone che da Sant’Elena ricorda il passato, non tralasciando i tormenti per le sconfitte e l’esilio. Tale angoscia viene, però, allietata dalla fede, dalla grazia divina, dalla provvidenza di Dio, tanto che, alla fine dell’ode, Alessandro Manzoni ci mostra un umile Napoleone che rinnega la vanagloria e finalmente abbraccia il cristianesimo, il cattolicesimo.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trïonfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Ché più superba altezza
Al disonor del Gòlgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
Facendo leva sulla sua vita privata, avendo riscoperto in prima persona la bellezza della fede, della grazia divina, della provvidenza, della misericordia, Alessandro Manzoni scrisse Il cinque maggio, rallegrandosi per il fatto che l’imperatore degli imperatori, che visse tutto ciò che la vita gli offrì – la gloria, il pericolo, la vittoria, la disfatta, la corona, la pena, la conversione – “Due volte nella polvere, Due volte sull’altar” – a Sant’Elena si abbandonò al sonno eterno nelle braccia di Dio.