Nei giorni scorsi hanno sollevato grandi polemiche le parole della Relatrice Speciale dell’ONU per i Territori Occupati Palestinesi, Francesca Albanese, che nel rapporto ufficiale presentato alle Nazioni Unite ha detto senza mezzi termini che quello israeliano a Gaza è da considerare, alla luce del diritto internazionale, un genocidio.
Immediatamente le autorità israeliane hanno sollevato pesanti accuse nei confronti della Albanese (e, in generale, contro le Nazioni Unite). La Albanese è stata attaccata con inaudita violenza: l’ambasciatrice statunitense all’ONU l’ha accusata di antisemitismo. UN Watch ha addirittura lanciato una campagna per chiedere di revocare il suo mandato con l’accusa di diffondere “antisemitismo e propaganda di Hamas”. C’è stato anche chi, come alcuni politici italiani, ha continuato a difendere l’azione israeliana nella Striscia di Gaza parlando di diritto alla difesa e di reazione all’attacco del 7 ottobre scorso.
Dove sta la verità? Per comprenderlo è sufficiente rileggere le parole della Albanese. Ma soprattutto leggere alcuni documenti da lei citati e dei quali, negli ultimi mesi, si è parlato poco. Troppo poco.
In una intervista rilasciata a l’Internazionale, l’Albanese ha presentato la situazione di Gaza dicendo che “non ci sono parole per descrivere le condizioni di vita a Gaza oggi; la situazione è catastrofica da mesi”. “Le testimonianze che raccogliamo sono tremende: centinaia di massacri, esseri umani bruciati vivi sotto le tende, uccisioni di civili stipati negli ospedali. Sappiamo di soldati israeliani che hanno deliberatamente ucciso bambini sparando loro alla testa; abbiamo video e fotografie che lo dimostrano”, ha detto la Albanese. Tutti fatti peraltro riportati nel rapporto Genocide as Colonial Erasure che la Albanese ha presentato pochi giorni fa alle Nazioni Unite. “Quella in corso a Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma una crisi di umanità”, ha detto la Albanese. “Quello a cui assistiamo non è una guerra, che presuppone lo scontro tra due eserciti, ma la violenza di uno Stato occupante contro un popolo occupato”.
Da mesi si parla di “genocidio” commesso da Israele. Per comprendere se è giusto definire con questo termine l’azione del governo israeliano in Palestina è bene rileggere quanto prevede la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”.
Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) – Centro di Ateneo per i Diritti Umani L’Articolo II di questa Convenzione, dice che “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
Una situazione che, nella Striscia di Gaza, va avanti da molto tempo. E certamente da prima dell’attentato del 7 ottobre 2023.
Addirittura, secondo la Risoluzione ONU 37/43 del 1982, l’azione definita da molti come terrorismo potrebbe essere quasi giustificata dato che “i popoli che lottano per l’indipendenza e l’autodeterminazione sono legittimati a combattere l’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”. Importance of the universal realization of the right of peoples to self-determination and of the speedy granting of independence to colonial countries and peoples for the effective guarantee and observance of human rights.
Ma come ha sottolineato la stessa Albanese nella sua intervista, queste “sono cose che non si possono dire nella maniera più assoluta, ma è così”. Ma non basta. Le responsabilità di quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza (il fatto che i media non ne parlino più tanto non vuol dire che gli attacchi nei confronti di civili siano finiti, anzi) potrebbero non essere limitate a Israele. L’Art. III della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” dice che dovrebbero essere puniti non solo il genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, il tentativo di genocidio e perfino la complicità nel genocidio.
Non solo, ma le persone accusate di questi crimini dovrebbero essere processate non solo da un tribunale o da un soggetto internazionale (come la Corte di Giustizia Internazionale o il Tribunale Penale Internazionale): “Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l’atto sia stato commesso, o dal tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione”.
Da tempo una delle scuse addotte da Israele (e dai suoi difensori) su certe azioni compite (come l’uso di certi tipi di bombe) è stata che Israele non ha mai ratificato questi trattati.
Ma per la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” non è così: Israele l’ha firmata il 7 agosto del 1949 e l’ha ratificata il 9 marzo del 1950. UNTC Anche l’Italia ha ratificato questa Convenzione: lo ha fatto nel 1952 (si badi bene: non è un Trattato o una Dichiarazione, ma una Convenzione). E nel farlo si è opposta alla riserva formulata dagli Stati Uniti d’America affermando che questa “crea incertezza circa la portata degli obblighi che il Governo degli Stati Uniti d’America è disposto ad assumere nei confronti della Convenzione”. Sarà un caso ma gli USA hanno ratificato questa convenzione solo quarant’anni dopo averla firmata: il 25 novembre 1988!
Eppure ancora oggi molti, quando si parla di genocidio, fanno finta di non vedere cosa avviene sotto i loro occhi.