In questi anni frenetici, la società si è ammalata di un grande vuoto interiore, un cancro che da patologia qual era si è lentamente trasformato in motore delle cose che abbiamo posseduto e che ora ci possiedono, alimentando un circolo vizioso che sembra sempre più difficile spezzare.
La cultura iperconsumistica ha fatto diventare necessità tutti quegli aspetti del commercio e dell’economia che in principio furono un’aberrazione, per esempio le attività aperte la domenica o nelle festività, in seguito un vezzo e, infine, un’esigenza primaria. Sembra che la soluzione contro la desolazione debba essere un puzzle di oggetti, pose e comportamenti da incastrare in maniera chirurgica, mode da seguire al fine di mimetizzarsi con la massa o, nella migliore delle ipotesi, tendenze da anticipare, così da sentirsi perfino scaltri nell’intercettare per primi la stupidità che avanza.
Al di là dei profitti, anche molto ingenti, che questa macchina garantisce ad alcune persone (molto poche), a essere vittima è il senso comune e, in particolar modo, un approccio spirituale alla colletività che nutre la sua ragion d’essere con la condivisione e col sentire comune. La valenza religiosa di feste come il Natale o la Pasqua è da considerarsi assolutamente personale e privata, ma l’aspetto dell’aggregazione che le occasioni e gli spazi garantiscono sempre meno, a causa del poco tempo di qualità che il ceto medio-proletario si trova a poter spendere e per la mancanza di strutture che favoriscano l’incontro, è una questione pubblica che contribuisce, ogni giorno di più, alla sparizione delle comunità. In merito, ci rifacciamo a un’interessantissima analisi proposta da Enrico Silvestrin sul suo canale Twitch, in cui mette in evidenta i danni che l’impossibilità d’incontro genera nell’ambito musicale.
Sull’arma del delitto si trovano, tra le altre, le impronte di chi ha ucciso la cultura in questo Paese. Un momento cruciale che fa da perno per una serie di cambiamenti, tutti negativi, è stato l’avvento del leader eterno Kim Il Silvio nel 1994. All’alba di un mondo nuovo che si svestiva delle vecchie ideologie, ormai tramontate di fronte alle atrocità dell’uomo, una nuova cultura si faceva spazio sgomitando: quella dell’arrivismo e dell’affarismo senza scrupoli, assassino della cosa pubblica e del costume.
Oggi ci troviamo a raccogliere i frutti marci di un germe malato, vittime di un’epidemia in grado di sterminare ogni credo politico e ogni senso di partecipazione, proponendo lungo il percorso un programma di distruzione dell’identità culturale nazionale, la quale fu di Pasolini, Eco, Biagi, Merini ecc., per sostituirla con una logica di ragazzine minorenni svendute al miglior offerente dai genitori, di comicità nauseante con cui i giullari di corte sollazzavano il grande padrone ed eliminando ogni spinta creativa e qualsivoglia velleità di educare un paese alla bellezza e al buongusto.
Il risultato è che, ad oggi, ci troviamo sommersi da un mare di letteratura vuota, di musica senz’anima, di comici fascistoidi che non hanno alcuna idea della valenza del mezzo (i discorsi di Filippo Giardina in merito al contenuto di una battuta sono oro colato) e di produzioni cinematografiche di cui ci troviamo a tessere le lodi per il semplice fatto di non essere mediocri. La non conoscenza ci circonda e pervade, diventando persino un vanto e un’arma contro la presunta noia del sapere.
Questo ha un’influenza enorme sull’odierna percezione del bello e sull’impoverimento del gusto ed è tragico pensare a come l’unica soluzione proposta per arginare il drammatico decadimento sia l’idea censoria e svilente di far trionfare l’etica sull’estetica, cambiando i libri e condannando il passato.
Il colpo di grazia a un sistema agonizzante.
Un’obiezione a quanto finora asserito potrebbe essere formulata in questi termini: ma tutte le forme di identificazione collettiva legate a movimenti paritari o ideologici, come ad esempio quelli ambientalisti o neofemministi, non potrebbero essere valide alternative all’individualismo cannibale e alla pochezza imperante dell’oggi?
Potrebbero.
Purtroppo, però, non riescono quasi mai ad adempiere a questo compito in quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, pretendono un approccio fideistico alla materia di (non) studio e si rivelano tanto esclusivi quanto autoreferenziali, disinteressati al dialogo e al confronto ma pronti a costruire un castello di dinamiche settarie che risulti sempre più circoscritto ai soli praticanti, ai già convertiti.
In parole povere, si confermano inutili.
Una comunità è tale non solo nel rispetto delle diversità che la compongono ma proprio nella loro valorizzazione, di certo non nella ghettizzazione del pensiero che fa bene solo a chi la perpetra, spesso creandoci un business intorno.
Per concludere, quanto di più auspicabile è la rinascita di un sentimento identitario che ci ricordi chi siamo, che rinverdisca la percezione del nostro valore in quanto classe composta da una pluralità di individui dissimili ma appartenenti a un’identità collettiva. È buona cosa far convergere idee politiche diverse in questa lotta (senza rinunciare per nessuna ragione al valore democratico) al fine di superare le barriere sociali che abbiamo accettato senza colpo ferire, spesso autoimponendocele, e che, ormai, ci guidano come robot inermi in questa società folle.