Napoleone Bonaparte, uomo intelligente e colto, tra i più astuti della storia, basso di statura, ma molto affascinante. Credendosi talvolta Cesare, Annibale e Alessandro Magno, fu profondamente innamorato degli studi classici, storici, della musica lirica, della matematica, dell’arte in generale, soprattutto italiana dato le spoliazioni che presero il suo nome. Ossessionato dai libri, dalle scienze, dagli ideali, continuamente assetato di conoscenza e di potere, fu imperatore degli imperatori, quelli venuti prima di lui e quelli dopo, taumaturgo dei taumaturghi, disse che la campagna d’Egitto, per quanto disastrosa fosse stata, fu la sua impresa migliore per l’immenso peso culturale raggiunto dall’umanità: nell’antica terra dei faraoni vennero avviati gli scavi archeologici e gli studi sulla storia di una civiltà tanto antica quanto straordinaria e la scoperta della Stele di Rosetta, proprio ad opera di un ufficiale napoleonico, segnò l’inizio di un viaggio culturale che dura ancora oggi in quella zona del mondo piena di fascino e di mistero. Creatura seducente proiettata avanti anni luce, con le sue strategie e capacità Napoleone diventò una leggenda vivente, un mito spinto oggi come allora nel futuro. Dopo Cristo è il più conosciuto della storia e fiumi di parole sono stati scritti su di lui e fiumi e fiumi ancora scriveranno i posteri di questa generazione. Il Generalissimo fu profondamente innamorato di Giuseppina che egli stesso incoronò regina consorte di Francia e d’Italia.
Sul finire della vita pensò e ripensò a quella domenica di maggio quando cinse il suo capo con la Corona ferrea, quel giorno rappresentò per lui l’apice del successo con un solo rammarico, probabilmente lo stesso di quando a Parigi si incoronò imperatore dei francesi, che espresse sottovoce a suo fratello – “Se solo nostro padre fosse qui” – perché per lui la famiglia rientrava tra le cose più sacre che esistono al mondo com’era sacra quella Corona di ferro fatta con un chiodo della croce di Gesù Cristo. Come furono organizzate le cose per quella domenica 26 maggio 1805 a Milano?
Ebbene, gli annali ricordano che quella mattina nel cielo italiano sgombro di nuvole c’era un sole splendente, piazza del Duomo era affollatissima, da lontano si sentivano le artiglierie che sparavano a salve, mentre le campane suonavano a festa e lo fecero per molto tempo: il trentaseienne Napoleone si apprestava ad essere incoronato re d’Italia. Il popolo – stimato intorno alle 30.000 persone – vide arrivare, vestite di tutto punto e riccamente ingioiellate, le prime due personalità di spicco: la moglie e la sorella del generale, Giuseppina ed Elisa. Cominciò di lì a poco, più o meno verso mezzogiorno, la sfilata regale: in prima linea le guardie francesi e quelle italiane; seguivano i maggiordomi, i paggi, gli araldi e gli uscieri; procedevano i cosiddetti “Onori di Carlo Magno”, vale a dire i gioielli regali dell’antico Impero carolingio: il cardinale Bellisomi con in mano la corona; il politico Avogadro con lo scettro; il principe Baciocchi con la Mano della Giustizia, l’oggetto più caro a Napoleone, e il maresciallo Jourdan con la spada.
Seguivano gli “Onori d’Italia”: il vicepresidente della Repubblica Italiana, Melzi d’Eril, con in mano la preziosa e leggendaria Corona ferrea che, sin dal VI secolo, aveva cinto le teste dei re longobardi; l’avvocato Aldini con lo scettro; il principe Di Beauharnais che portava la spada regale e il presbitero Bovara con l’anello del sovrano. Di seguito, sotto un possente baldacchino sorretto da canonici, con la corona imperiale marciava maestoso il Bonaparte con in mano lo scettro dell’Impero e la mano della giustizia; il suo lungo strascico di velluto verde con ricami in oro era sostenuto dal maresciallo Berthier, mentre una folla di militari e civili chiudevano il corteo. Entrati nel Duomo, ci furono musiche regali, cori solenni, marce trionfali e canti celestiali, poi egli si avvicinò all’altare, prese con le proprie mani la Corona ferrea, se la mise sul capo e, autoincoronandosi, disse: “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca”. La eco di quella voce rimbombò nella maestosità della cattedrale e il popolo si sollevò in un “Viva l’imperatore e re!”. Ora sulla sua testa pesavano due corone: quella dell’Impero francese e quella del Regno d’Italia. Dopo la Santa Messa venne cantato il Te Deum, per il quale, proprio per quella singolare occasione, fu composta una nuova musica che, tuttavia, venne subito dimenticata e persa. Solo nei primi anni 2000, nascosta negli archivi di Stato di Milano, essa venne ritrovata da alcuni esperti che, studiando lo spartito, si sono accorti che tra le note dell’inno sacro ci sono quelle della Marsigliese e forse anche per questo motivo l’atmosfera di quel giorno fu sospesa tra il regale e il mistico. Usciti dal Duomo, il corteo tutto si diresse verso la reggia per festeggiare: balli, gare di cavalli, volo di palloni e quant’altro animarono quella giornata particolare.
Di tutte le cose che vennero fatte secondo l’accurato cerimoniale, che lo stesso Bonaparte curò nei dettagli, il gesto che esprime la personalità esplosiva di quest’uomo che ha evidentemente segnato la storia è l’atto stesso della sua incoronazione che, poi, è la replica di ciò che accadde nella cattedrale di Notre-Dame de Paris l’anno precedente davanti a papa Pio VII, sbalordendo tutti.
Napoleone sapeva bene che la Chiesa aveva assoggettato gli imperi per molti secoli con l’atto pontificio di incoronare gli imperatori, come era successo a Carlo Magno, incoronato nella notte di Natale dell’anno 800 da papa Leone III il quale, con quel gesto, andava a sottolineare la supremazia della Chiesa sull’Impero, pertanto il Bonaparte venne a cambiare la rotta delle cose, ne troviamo le tracce anche nel Codice Napoleonico: autoincoronandosi, sottolineava il concetto semplice e conciso che sopra di lui c’era direttamente Dio e niente e nessun altro, neppure il papa che a Milano non volle essere presente alla celebrazione.
Fatto sta che da questo momento in poi al Bonaparte non restavano che dieci anni, sì e no, di gloria fino, infatti, alla sconfitta di Waterloo nel 1815, e alla misera morte avvenuta in esilio a Sant’Elena il 5 maggio 1821, titolo di un’ode del grande Alessandro Manzoni, in cui volle sottolineare che i trionfi non sono eterni e che non c’è niente di glorioso senza Dio.
Seppellito in terra d’esilio, dopo circa vent’anni fu esaudito il suo ultimo desiderio di riposare in riva alla Senna. Oggi il maestoso sarcofago in porfido rosso, appoggiato su una balaustra di granito verde, alberga silenziosa in un’ala dell’Hôtel national des Invalides, a Parigi. Dentro la tomba dormono il sonno eterno i resti del più grande imperatore della storia, vestito con l’uniforme militare del comandante delle guardie, con il nastro della Legion d’Onore e un cappello triangolare.