Il nome di Napoli, nel I secolo d.C., era Neapolis ed era già una città estremamente ricca, spettacolare, colta, si parlava il greco e il latino, si praticavano gli studi di Epicuro, quando invece in altre parti venivano rigorosamente vietati, era caratterizzata da moltissime e antiche tradizioni ed era frequentemente scelta dai ricchi Romani per le vacanze estive, affinché potessero godere del clima e del mare cristallino del golfo: Pozzuoli, Baia, Bacoli, Capri, Ischia e Procida. In questo contesto, intorno all’anno 45, venne al mondo un poeta della tarda antichità, tra i più grandi della poesia epica antica, Publio Papinio Stazio che, sin da giovane, non passava inosservato per il bell’aspetto e per quanto fosse colto. Il padre, colono di lingua greca che si era insediato nella Magna Grecia, essendo un insegnante di retorica, a Neapolis aveva aperto una scuola, in cui il piccolo Stazio studiò e, alimentandosi così tanto della sapienza, partecipò sin da giovane a vari concorsi di poesia come avvenne nel 70 dove prese parte ai Ludi Augustales, voluti da Tiberio, secondo imperatore della storia, per celebrare il padre adottivo Ottaviano Augusto. Più tardi, probabilmente per problemi economici, insieme al padre si trasferì a Roma sotto il regno dell’ultimo imperatore della dinastia Flavia, Domiziano, dove lavorò come poeta professionista, riscontrando un enorme successo tra il pubblico, ma senza dimenticare le sue origini, la sua città, Napoli, che continuava a chiamare Partenope, volendo sottolineare il suo importante valore greco. Infatti, quando nel 79 il Vesuvio eruttò, distruggendo Pompei, Ercolano e le zone limitrofe, dalla Caput Mundi Stazio scrisse confortevoli parole per la sua città: certamente si sarebbe rialzata da quella tragedia immane. A Roma il poeta, oltre a conoscere Claudia, ricca musicista romana, con cui si sposerà, parteciperà a molte recitazioni in pubblico e gare di poesia: in alcune venne sconfitto, mentre in altre vinse con grandi elogi, come avvenne nel concorso in onore di Minerva, quando ricevette dall’imperatore la corona aurea per aver prodotto un componimento sacro sulle campagne militari contro i Germani e i Daci, inoltre veniva continuamente invitato a vari banchetti di nobili per deliziare gli ospiti con il suo bel poetare.
Nel 92 scrisse Tebaide, suo poema maggiore, che gli portò molta fortuna tanto nella sua epoca quanto nel Medioevo. L’spirazione gli venne dai più grandi della letteratura antica: la struttura ricorda fortemente quella dell’Eneide di Virgilio, mentre altre parti dell’opera sono ispirate a Eschilo, Euripide, Ovidio, Seneca. L’opera narra la guerra fra i gemelli Eteocle e Polinice per il possesso del trono di Tebe ereditato dal padre Edipo, il quale lanciò una maledizione contro i due affinché si uccidessero a vicenda per non avere avuto alcun rispetto per lui, infatti alla fine finiranno per ammazzarsi.
Intorno all’anno 94, verso il tramonto della vita, forse perché malato, Stazio volle ritornare finalmente a Napoli e, come ci dimostra una lettera, invitò la moglie a raggiungerlo. L’epistola in questione rappresenta una bellissima descrizione della città, un inno alle sue bellezze, non solo naturali ma anche architettoniche e culturali: “In questa città io t’invito a trasferirti, dove è mite l’inverno e fresca l’estate… E che vedute magnifiche! E non mancano i diversi piaceri della vita: potresti visitare la vaporosa Baia, spiaggia dolcissima, l’invasato tetto della Sibilla, il capo Miseno ricordato dal remo troiano, i ricchi vigneti del bacchico Gauro, e Capri… i colli di Sorrento… Ti racconterò i mille incanti della mia terra!“.
Sulla stessa scia romana, anche nella città che gli diede i natali veniva spesso inviato ai banchetti estivi nelle sfarzose domus romanae per offrire ai commensali i suoi meravigliosi versi recitati, d’altro canto a Napoli certamente portò con sé Achilleide, l’opera che stava scrivendo e che, tuttavia, rimase incompiuta al II tomo, per l’improvvisa morte sopraggiunta.
Un’altra sua opera non di poco conto è Silvae, scritta tra Roma e Napoli – tra l’89 e il 95 – che rappresenta una raccolta di 32 poesie suddivise in 5 libri, in cui parla dello spaccato culturale e sociale della sua epoca, scrivendo encomi, ringraziamenti; esprimendo l’amore per gli animali; descrivendo feste, cerimonie; raccontando la mitologia. Per questi scritti si ispirò a Catullo, soprattutto per la metrica, e a Orazio per le composizioni liriche.
Tra le opere andate perdute, invece, ci sarebbero il De Bello Germanico, in cui parla delle campagne militari di Domiziano; Agave, sul mito della figlia del re fondatore di Tebe, Cadmo; una poesia sui due amori della sua vita, Claudia e Partenope.
Publio Papinio Stazio non poteva non essere preso in considerazione dal Sommo Poeta che lo colloca nella V cornice del Purgatorio, tra i prodighi, al Canto XXI, dove resterà giusto il tempo per parlare con Dante e Virgilio in quanto un violento terremoto, che scuote tutta la montagna, segna, dopo più di 500 anni di permanenza lì, la fine della sua pena: potrà finalmente salire al Paradiso Terrestre. È lo stesso Stazio che, presentandosi come il Risorto e rivolgendo loro il saluto pasquale, spiega ai due l’evento appena accaduto: ogni volta che in Purgatorio c’è un terremoto, mentre le anime cantano il Gloria, una di queste, sentendosi libera dal peccato, sale finalmente al Giardino dell’Eden.
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace. (vv. 7-13)
Inoltre Stazio, facendo una propria presentazione, professerà ai due il suo amore per le opere di Virgilio – che non poteva riconoscere – soprattutto per l’Eneide. Dante, allora, sorridendo, gli farà capire che la sua guida è proprio quel Virgilio di cui sta parlando, quindi Papinio non esiterà ad esprimere il suo profondo amore, gettandosi ai suoi piedi come se volesse baciarli, dimenticando di essere fatto di spirito e non più di materia.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneida dico, la qual mamma
fummi e fummi nutrice poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma. (vv. 91-99)
[…]
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi (130-132)
Nel Canto successivo, il XXII, mentre i tre si avviano verso il Paradiso Terrestre, Stazio dirà che, grazie alla lettura del III tomo dell’Eneide, si pentì in tempo del peccato di prodigalità, scongiurando la pena eterna dell’Inferno:
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l’umana natura:
‘Per che non reggi tu, o sacra fame
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
voltando sentirei le giostre grame (vv. 37-2)
Più avanti riferisce che si convertì segretamente al cristianesimo, evitando le persecuzioni in atto all’epoca, grazie alla lettura della IV Ecloga delle Bucoliche, in cui v’era la famosa profezia virgiliana sulla nascita di un puer – che non era Gesù come si pensava nei primi secoli dell’era volgare e nel Medioevo, ma il figlio del suo mecenate Pollione – portatore di pace, grazia e serenità.
quando dicesti: ‘Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova’.
Per te poeta fui, per te cristiano (vv. 70-73)
Dal Canto XXIII in poi, mentre Stazio accompagna i due fino al Paradiso Terrestre, Dante parla con lui dell’importanza della poesia e dei suoi frutti benefici che per il poeta napoletano sono stati il pentimento e la conversione. Una volta arrivati, mentre il Mantovano farà ritorno al Limbo, Stazio e Dante, guidati da Matelda che aveva preso indicazioni da Beatrice, si bagneranno nelle acque dell’Eunoè (XXXIII Canto):
Ma vedi Eunoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui» (vv. 127 – 1135)
Per finire si può certamente dire che nei versi e nella prosa che Stazio ha consegnato alla storia e che la storia ha saputo conservare, emergono il suo amore infinito per la letteratura degli autori greci e latini e la sua profonda passione per Napoli. Cita luoghi che ancora oggi possono essere ritrovati, spesso incastonati nelle strutture medievali, rinascimentali e in quelle contemporanee; spende belle parole per i napoletani che certamente “Non hanno mai chiuso le porte della città in faccia a nessuno”; elogia la pacifica atmosfera napoletana e ha un solo rammarico: la decisione di Claudia che non volle mai raggiungerlo, infatti nel 95 il Poeta morì improvvisamente, non si sa neppure come, senza il conforto della consorte.
Armando Giardinetto