Verba Sallusti. Usi e notazioni di stile del proemio del Bellum Iugurthinum (capitolo I: De natura animi)

Articolo di Filippo Scimé

Il Bellum Iugurthinum, noto anche come La guerra giugurtina, è la seconda monografia storica, dopo il De Coniuratione Catilinae, scritta dallo storico sabino, nativo di Amiternum, Gaio Sallustio Crispo, che, vissuto all’interno del I secolo a.C. (86 – 34 a.C.), ha lasciato una grande tradizione storica, sociale e culturale della Roma antica in un periodo di complessa trasformazione: dal dissolvimento della res publica all’avvento del principato. L’opera in questione, suddivisa in 114 capitoli, ricostruisce gli sviluppi della guerra condotta dai Romani contro il re di Numidia Giugurta, partendo dall’origine dei rapporti con il popolo africano e con l’antico re numida Massinissa, alleato e socius dei Romani.

Il conflitto bellico, uno dei più interessanti per Roma, che aveva ormai tra le mani le sorti del Mediterraneo, segna il definitivo assestamento di una forza politica capace di ragionare in termini di geopolitica, secondo questa dinamica: conquista del territorio; valorizzazione delle risorse; trasformazione dei beni primari in prodotti finiti; ed export verso Roma delle risorse alimentari – grano, in primis – e import di prodotti romani. Questa, in sostanza ,la base d’appoggio con la quale credo siano nati i dibattiti relativi al concetto di imperialismo romano, dibattuto da Arnaldo Marcone e Giovanni Geraci nella loro imprescindibile Storia Romana; i quali, a tal proposito, osservano: “Il concetto di «Impero» può essere applicato, in senso lato, a qualsiasi formazione statale caratterizzata da un nucleo centrale dominante, che serve da intermediario e da collettore di risorse (nel caso romano la stessa città di Roma e in seguito anche l’Italia), e da aree periferiche, in posizione subordinata, prive di connessioni politiche dirette tra di loro (nel caso romano le province e le altre aree controllate in forma indiretta nell’area mediterranea). Si può dunque parlare in certo senso di una Roma imperiale anche prima della creazione delle forme istituzionali proprie di un Impero. Credo per questo motivo legittimo accennare […] , al dibattito sulle forme in cui si sviluppò la conquista di questo Impero, fenomeno in genere designato con il termine di imperialismo”. La guerra il 111 e il 105 a.C. tra Roma e il ribelle Giugurta si concluse con la vittoria del console romano Gaio Mario, nuovo astro nascente della politica romana e probabilmente exsecutor dell’ordinamento repubblicano. La scelta di risalire a un momento storico lontano dalla contemporaneità che egli visse è spiegato prodigiosamente nel proemio. Partire da un evento storico lontano e storicamente lontano dal ricordo dei contemporanei significa individuare un punto di rottura, un momento nel quale si intensifica il flusso di un cambiamento forte che risale direttamente all’hic et nunc.

Sallustio dimostra di essere uno storico del pensiero repubblicano, uno storico in senso moderno che comprenda quanto sia imprescindibile il metodo regressivo nello studio della storia (più avanti di questo stesso avviso sarà Marc Bloch) che tenendo i palmi delle mani sui volumi del presente, ritorna al passato cercando di trovare una catena segreta, consequenziale alla crisi nella sua fattispecie (e non quello di un altro storico, o quella di una definizione di storia ideale, giacché non esiste). La verità di cui egli ci parla è una curiosa teoria anticrisi, indubbiamente la prima a capire che le sorti degli avvenimenti dipendono esclusivamente all’agire umano (che corrisponda o meno ai fatti accaduti).

Dunque, per intenderci non è un’annalista alla vecchia maniera, e partendo da tale assunto, pensare che ci siano delle deformazioni storiche nel suo modo di fare storia potrebbe essere una scusa di comodo. Sallustio vuole spiegare i grandi mali della società repubblicana ormai prossima al declino e tutto è proporzionato a essa, e in parte ispirato alle sue idee politiche del passato, covate nell’oscuro otium del presente, mentre l’eredità di Cesare andava disfacendosi nelle lotte intestine che ripercorrevano l’ultimo sussulto della repubblica, ormai prossima a un nuovo trasversale cambiamento.

La parte introduttiva delle opere storiche è determinata dall’educazione letteraria dell’autore; un aspetto simile è preponderante nell’esposizione delle ragioni sallustiane sui modi e sul perché di fare storia, ai quali ho già accennato in  https://www.ilsaltodellaquaglia.com/sallustio-e-la-guerra-giugurtina-cur-quomodo-quando/  . Procedendo con l’analisi del proemio notiamo innanzitutto l’iniziale falso, avverbio con il quale si apre una delle pagine più belle della letteratura latina, che sarebbe opportuno tradurre come erroneamente; di conseguenza si può notare che il proemio abbia un intento moralistico, pertanto lo storico, in quanto esperto conoscitore della vita, diventa ammonitore e scopritore di verità che annientano proprio la percezione erronea, il falso. Più avanti lo storico traccia il perimetro della vita umana specificando che il genere umano si interroga spesso sulla propria natura per cui la storia diventa strumento per interrogare sé stessi, per sondare la profondità dell’animo: da notare la scelta dei due verbi passivi quaeritur e regatur che sembrastabiliscano un rapporto equidistante tra ciò che fa l’uomo e ciò che realmente accade nella vita.

Più avanti possiamo notare come l’utilizzo di un altro avverbio forte presenti una chiara attestazione dello storico sottolineando come il corso umano degli eventi non si basi sull’operato conforme alla virtus, ma è il caso a determinarlo. L’utilizzo della congiunzione nam spiega con maggiore convinzione l’assunto; infatti, Sallustio scrive che l’uomo non troverà nulla che possa divergere da ciò e rafforza il concetto utilizzando due comparativi (maius e prestabilius preceduti da doppia negazione); qui è lo storico a salire in cattedra e a ribadire quanto asserito prima: Sallustio usa abbondantemente l’iterazione con una delicata variatio per non appesantire lo scritto.

 Di immediata importanza è l’altra congiunzione sed che introduce una delle massime sallustiane: dux atque imperator vitae mortalium animus est. Quindi l’anima è la guida suprema, il comandante – come se il percorso umano fosse un continuo scontrarsi e protarsi in guerre quotidiane – della vita dei mortali. Al dilemma morale del dualismo fra anima e corpo rimandano, i contribuiti di Platone (vedi Fedro, Repubblica), che probabilmente Sallustio ebbe modo di conoscere frequentando un percorso di formazione a Roma e venendo in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio Figulo. Ritengo plausibile che il suo avvicinamento alla politica nasca dalla puerile volontà di conformare il proprio animus, e quello dei lettori esecutori materiali di una volontà che mira a un riscatto del declino attuale,a una visione che aveva impresso un solco profondo nella sua mentalità di provinciale di stirpe plebea; una filosofia che, come scriveva la grande Lidia Storoni Mazzolani, prevedeva: la svalutazione della fortuna, perché non c’è merito senza virtus; il dualismo anima-corpo, con un’incidenza molto forte dell’agire umano; e infine la cosiddetta etica sallustiana, che contrappone l’istinto alla ragione, l’indolenza al lavoro, il vizio alla virtù (quest’ultimo concetto lo recupera da Michel Rambaud).

Ritornando al testo latino si può considerare fondamentale il pronome relativo qui; esso è il collante che stabilisce il collegamento verso il procedimento logico di Sallustio che ci appare gradualmente (animusÞ virtus Þ formazione del vir romanus). Lo storico sabino, dopo aver affrontato le caratteristiche della natura umana, approfondisce gli aspetti legati all’anima e di cosa accada a essa, quando si avvicina alla rettitudine, allo zelo, e alle altre virtù (da notare l’aumento progressivo di intensità realizzata dagli aggettivi: pollens, potens, clarus), ribadendo che la fortuna non può essere considerata una forza predominante. L’uomo, ribadisce lo storico, può assurgere alla grandezza solo se tiene lontane da sé le cattive abitudini e i piaceri del corpo; alla natura non può essere imputata la debolezza, ma la fallibilità è prettamente umana: naturae infirmitas accusatur; nonostante sia facile incolpare il caso suam quisque culpam auctores ad negotia transferunt. Da notare come questa dotta disquisizione sull’animo umano, poggi su una consistente ricorrenza del sostantivo natura (natura, r.1; naturae, r. 4; naturae r.13), tanto che chiamerei appellerei la prima parte del proemio come de natura animi.

Infine, incastonando un periodo ipotetico, possiamo scorgere a conclusione di un percorso complesso quale aspetto stia valutando complessivamente lo storico. Egli, infatti, insiste maggiormente sulle responsabilità dell’uomo e sulla concreta capacità che presenta un percorso improntato sulla rettitudine di incidere la vita umana e le sorti di una città non comune: Roma; un binomio indissolubile nel I secolo a.C. L’homo romanus si distingue in quanto cittadino dotato di diritti essenziali entro la terra di dominio romano, ed è in ragione di ciò che deve dimostrare la sua superiorità. Voglio dire che l’uomo, in sostanza, deve desiderare così tanto la virtù come fa con le altre cose che risultano per nulla utili e ostacolano il suo cammino verso il successo e la gloria dell’urbe.

Alla base di questo pensiero sta il fatto che se l’uomo concentrasse tutte le sue energie verso gli aspetti socialmente più rilevanti il corso degli eventi umani non sarebbe retto dal caso, ma sarebbe governato dall’uomo, unico e indiscusso padrone; da notare anche in questo caso la ricorrenza del verbo rego (regatur, r. 3; regerentur, r. 18; regerent, r. 18). La chiusura con un periodo ipotetico della irrealtà ci fa capire quanto strutturato sia il pensiero di Sallustio, e di come l’importanza sociale e culturale che riveste la virtù sia imprescindibile per raggiungere un punto di grandezza massimo tale da ambire all’immortalità per i romani e per Roma; non è semplice assumere un’iterazione ideologica quando si parla di Sallustio. Le responsabilità delineate dallo storico sabino sono responsabilità relative all’uomo: l’uomo che manca di virtù, captus pravis cupidinibus et perniciosa lubidine paulisper usus (soggiogato dalle passioni perverse e avvezzo per poco alla voglia dannosa) è considerato irresponsabile e incapace di aiutare la crescita del proprio stato.

A questo punto sarebbe lecito chiedersi dove sia la storia e quali siano i termini che ci fanno capire e ci fanno giudicare il Bellum Iugurthinum come un’opera storica; quali i dettagli, quali gli aspetti; quali le nervature che sta disegnando con il suo stilo. Sorgerebbe spontanea la domanda: ubi est historia? È ovvio, a giudicare però di quanto abbiamo discusso, la volontà di assumere per lo storico una chiara impronta filosofica, un dialogo ininterrotto tra l’uomo e l’anima; questo perché Sallustio considera la storia come una scienza umana; e del resto non può esistere storia che non si riferisca all’uomo e alla natura umana: Falso quaeritur de natura sua genus humanum…

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