L’opera pia di Lucia Apicella, mamma ‘e tutt’ ‘e figl ‘e mamma, nel contesto delle Quattro giornate di Napoli

Articolo di Armando Giardinetto

Tutto comincia con un sogno: otto croci che si alzano dal terreno di una montagna seguite da otto spettri che pietosamente chiedono cristiana sepoltura in seno al petto della madre mesta: “Una notte mi sognai che, mentre pregavo su una montagna, dicendo al Signore di avere misericordia di tutte le anime dei morti abbandonati sui campi di battaglia, davanti a me, in lontananza, comparvero otto croci bianche con su scritto dei nomi e, mentre continuavo a pregare, da sotto le croci uscirono otto giovani con le mani tutte aggrinzite e con gli occhi spalancati che mi chiedevano di riportali dalle proprie madri. A quella vista caddi commossa a terra. Quindi, non ancora in piedi, chiesi loro di dove fossero, mi risposero di appartenere a tutte le nazioni. Mi alzai per continuare a colloquiare con loro, ma essi sprofondarono nuovamente nel terreno, mentre le croci ripresero il loro posto. Non li vidi più! Mi svegliai tutta piangente e pensai a cosa avrei potuto fare per questi morti” (dall’intervista a mamma Lucia. Docufilm di Rai storie: Mille papaveri rossi del 1965). La storia che sto per raccontarvi è un atto di estrema pietà ad opera di un’umile donna, tutta vestita di nero e con i capelli raccolti in un “tuppo”, che ebbe luogo durante i terribili anni della Seconda guerra mondiale.

Il 1943 è stato un anno molto particolare per tutto il Napoletano e il Salernitano poiché, per la presenza di porti strategici, tale territorio subì un grande bombardamento e molti, tra civili e soldati, ne morirono, oltre al fatto che non solo vennero distrutti numerosi edifici, come l’antichissima Basilica di Santa Chiara, ma addirittura tante cittadine furono quasi rase al suolo. Tutto questo generò un profondissimo odio dei napoletani verso i tedeschi, i quali resero Napoli e le città limitrofe un cumulo di macerie, morte e distruzione; un posto orribile dove a regnare erano la fame, la violenza, la tribolazione, il lutto, la ferocia, la razzia, il rastrellamento, l’odio. Questi, mentre aspettavano alleati pronti a liberarli, si ribellarono con vigore e coraggio ai vigliacchi nazisti nelle celeberrime Quattro giornate di Napoli, di cui oggi il Ponte della Sanità ne è il simbolo sacrosanto.

La grande insurrezione napoletana cominciò il 27 settembre al Vomero, dove molti tedeschi, già organizzati per la fucilazione di alcuni insorti nelle strade partenopee, vennero catturati e uccisi. Il 28 settembre gli scontri sanguinosi si concentrarono a Materdei, a Porta Capuana e al Maschio Angioino, mentre il giorno seguente, durante il quale alcuni personaggi divennero il punto di riferimento dell’insurrezione – la partigiana Maddalena Cerasuolo, l’avvocato Carmine Musella, il dottor Aurelio Spoto e tanti altri unitamente all’avanzata dei femminielli di San Giovanni a Teduccio, un gruppo di omosessuali decisamente impegnati a combattere contro i nazisti – fu ancora più cruento con molto spargimento di sangue. Il 30 i napoletani sbarrarono la strada ai tedeschi verso Port’Alba e Porta Capuana e poche ore dopo, il Primo ottobre, Napoli era finalmente libera. Il merito era da attribuire all’unione di un popolo che, stanco dai soprusi, decise di farla finita e di combattere per la libertà.

Qualche settimana prima, il 9 settembre, si ebbe l’Operazione Avalanche che vide soldati anglo-americani, forze alleate, sbarcare sulle coste salernitane per dirigersi su Napoli e liberarla.

Questi, lasciato il mare, passarono per la valle di Cava e per le zone adiacenti dove, per i sanguinosi e numerosi scontri armati, centinaia di loro morirono e, cadendo sul campo di battaglia, rimasero miseramente insepolti o sepolti per metà.

Verso la fine della guerra quello che era stato un campo di combattimento divenne terreno per i giochi dei giovanotti che calciavano a mo’ di palla i teschi dei poveretti caduti. Vedendo a più riprese questa insensibile scena e avendo già fatto quel sogno premonitore, Lucia, incurante delle bombe inesplose, decise in cuor suo di mettersi alla ricerca di tutti i resti umani e fu così che, armata di zappa e di rosario per la preghiera, decise di cercarli, raccoglierli, pulirli, riporli in delle casse di zinco, costruite con le sue mani, e dare loro, se possibile, dei nomi, altrimenti attribuire dei numeri, con l’obiettivo di restituirli alle povere madri addolorate affinché potessero finalmente piangere sulle tombe dei propri figli: “Mio figlio è disperso dal 9 settembre 1943… Ora una preghiera, lei ha avuto tra le mani un morto di nome Adameit?” si legge in una lettera come tante ricevute da mamma Lucia, quando la voce si sparse; lettere che le venivano tradotte da Barbara Klushpies, tedesca residente in quegli anni a Cava dei Tirreni. Tempo, fatica e denaro furono i suoi, non chiedeva niente a nessuno e a tutti quelli che le consigliavano di lasciar perdere, rispondeva sempre con la stessa forza poiché l’opera andava compiuta, infatti già alla fine del ’44 raccolse circa 800 corpi con vari documenti e oggetti di riconoscimento.

Ma perché Lucia Apicella faceva questo? La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo: “Song’ tutt’ figl ‘e mamma”. Il significato di questa frase è rintracciabile in quella che è la cultura di un popolo attaccato profondamente all’affetto materno, specialmente al Sud Italia, dove la madre è vista come qualcosa di irrinunciabile, irripetibile, intoccabile, necessario, profondamente sacro. La madre è colei che si prende cura del figlio fino all’ultimo giorno della sua vita; è colei che soffre quando vede suo figlio soffrire e vorrebbe prendere su di sé quel male; è colei che viene invocata, quando ci si trova in un momento di difficoltà; è colei che incarna la pietà, la tenerezza, la protezione, la vicinanza, l’accoglienza, la gioia e la tristezza, la speranza e la disperazione, tutto proiettato sulla prole e mamma Lucia ha sentito l’esigenza di prendere queste povere ossa e, pare per suggerimento divino, raccoglierle nel lembo anteriore della propria veste nera o nella propria sottana, le cullava proprio come fanno tutte le madri con i loro figli appena nati. La mamma è soprattutto una donna e, durante i bombardamenti del ’43, alle donne veniva chiesto di alzare il loro grido di dolore per essere rimaste vedove, orfane e soprattutto per aver perso i figli, i fratelli, i fidanzati, gli amici. La forza di queste donne in lutto, di queste madri, raggiunse livelli altissimi: erano loro che, quando potevano, nascondevano nei sottotetti e nei sottoscala i pochi fortunati che, grazie alla protezione delle stesse, evitarono il fronte. È tra queste donne, immagine della Mater Dolorosa con il cuore trafitto da spade, che rientra mamma Lucia Apicella.

All’anagrafe Maria Lucia Pisapia, ella nacque a Cava dei Tirreni (SA) poco più di venticinque anni dopo l’Unità d’Italia. Venne al mondo in seno a una famiglia poverissima; divenne orfana di madre a soli due anni e la zia materna, che contrasse matrimonio con il padre, le fece da genitrice. Frequentata la III elementare, giusto il tempo di imparare a leggere e a scrivere, Lucia fu indirizzata al telaio per contribuire all’economia di casa. A 25 anni si sposò con il fruttivendolo Carlo Apicella che le diede due figli maschi. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, mentre il marito era al fronte, Lucia rimase sola a crescere i bambini. Vent’anni sì e no di pace, poi nel ’39 la notte scese di nuovo sul mondo e la sua opera pia si andava preparando nel silenzio di Dio. Raccolti i poveri resti fino almeno al 1946, Lucia non perse la sua umiltà, la sua fede, tanto che non accettò mai denaro, neppure quando anni dopo volevano darle la pensione tedesca: “No grazie, queste cose non si pagano, l’ho fatto per amore”. Di incontri celebri, medaglie e riconoscimenti non se ne curò e portò nel cuore un incontro su tutti: quello di una semplice madre tedesca che ricevette dalle sue mani la cassa di zinco con dentro i poveri resti del figlio. Piansero insieme!

Fino a prima di morire, nelle varie interviste rilasciate, raccontò quel sogno e, quando vecchia e stanca ancora ricordava con lucidità quelle sue gesta, si emozionava per essere stata strumento della pietà cristiana, conferma, secondo lei, della grandezza divina: “Verite Dio quanto è grande!”, vale a dire “Costate con questo mio racconto la grande misericordia divina”.

Mamma Lucia si spensa a 95 anni, il 27 agosto 1982. Esposta in una bara di vetro, gli omaggi furono centinaia e centinaia. Venne seppellita nel cimitero di Cava e, con lei, venne sepolto un soldato senza nome, uno di quelli dispersi che restano senza identità, a cui viene attribuito solo un numero: “Lasciami con te”, le avrebbe detto anni addietro in un sogno dopo che teneramente lo aveva raccolto da terra.

Sulla sua tomba una frase evangelica, chiaro segno di concretezza: “Amatevi come io ho amato voi”.

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Foto: Avvenire.it

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