Il titolo di questa intervista con il collega e amico Luca Capuano, docente di scuola primaria a Chiari (BS), ricalca l’omonimo ciclo di lezioni bolognesi divenuto, poi, libro a cura dei professori Del Giudice, Eco, Ravasi et alii. Un volume che segna la mia formazione umana intellettuale e al quale sono profondamente debitore. Il lemma «parola» deriva dal greco παραβολή (parabolè) e in origine significa, genericamente, «esempio, similitudine, racconto». Il termine «parola» conosce un’evoluzione semantica, significando appunto parola, a partire dalla versione dei LXX come calco dell’ebraico māšāl che significa parola, discorso, proverbio. Nel latino classico la parola è verbum.
«Parola» è un vocabolo che assieme ad altri, ad esempio «persona» è profondamente segnato dalla «rivoluzione spirituale» del Cristianesimo. In linguistica la «parola» e/o le «parole» sono l’«unità del linguaggio umano istintivamente presenti alla consapevolezza dei parlanti» (G. Graffi – S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, p. 114). Definire, tout court, la «parola» non è facile né semplice. La parola, ancora, non è solo informativa ma anche performativa: genera una realtà, determina una situazione, da forma, comunica un sentimento, un’emozione, ecc. «Le parole – insegna e ricorda il professore Tullio De Mauto – sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite: proprio per questo, diceva un filosofo, gli dèi ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo. Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire».
Inoltre, osserva con acume il professore Luca Serianni, la parola «quella che dà nome a tutte le cose è un “dono”». Le parole hanno anche e soprattutto un valore». Già a metà degli anni Ottanta lo scrittore italiano Italo Calvino (1923-1985) in Lezioni americane denuncia la «deriva del linguaggio»: un uso delle parole e di un linguaggio sciatto, impreciso, banale, furbesco, truffaldino e corruttore, specchio fedele di una crisi di civiltà. Le patologie del linguaggio – sempre più̀ in aumento, lo sanno bene gli operatori e i docenti di ogni ordine e grado – sono spia delle malattie morali che svuotano dall’interno le società (Massimo Cacciari, “Introduzione” a «Ripensare l’Umanesimo» in Umanisti italiani. Pensiero e destino, a cura di Raphael Ebgi, «Millenni» Einaudi, 2016).

D.: Qual è, oggi, lo stato di salute del lògos/verbum/parola? Lo chiedo all’amico che tesse parole e versi, al collega che ha il compito di insegnare le parole, al neopapà di una bellissima bambina. La parola è diversa dal muggito e dal grugnito di un animale. Essa è una voce che esprime piacere, gioia, dolore. Consente di discutere su cosa è giusto ed ingiusto. Con essa si per-viene alla collaborazione, allo scambio, all’amicizia.
R.: Prima di risponderti, caro Pietro Salvatore, vorrei ringraziarti per avermi scelto per questa intervista. Ne sono sinceramente onorato e cercherò di trasmettere ai lettori le mie idee che sono certamente influenzate dal mio percorso umano e professionale. Riguardo a questa prima domanda, non vorrei essere ipercritico o pessimista, ma a mio avviso al momento assistiamo ad una regressione nella conoscenza e nella capacità di comprensione e di utilizzo della parola. Viviamo nella realtà veloce ed evanescente dei social, in cui la pratica quasi ossessiva dello “scrollare” ha sostituito quella più sana del soffermarsi, del leggere con attenzione e del sognare ad occhi aperti. I voli negli universi infiniti e variopinti della fantasia sono stati rimpiazzati dalla visualizzazione passiva di contenuti che spesso sono di infima qualità come i trend stupidi e pericolosi o la vita privata degli influencers di turno, tra cui le icone disinibite di Instagram che fanno business con il loro corpo. È una parola molto concreta, consumistica, spesso scurrile e molto lontana dalla spiritualità, dai sentimenti sani e dalle emozioni. Ciò si evince anche da alcuni testi di brani musicali per ragazzini che riflettono questa tendenza inneggiando al culto del dio denaro, ai vizi, al disimpegno e al futile. Io sono nato nel 1984 e sono cresciuto negli anni in cui gli smartphone e i social non erano stati ancora inventati; quindi, per me l’incontro con la parola è avvenuto grazie a delle brave maestre, grazie all’ACR, al catechismo, alla messa e ai libri che da bambino con mia madre andavo a ritirare alla biblioteca comunale. Li divoravo in pochissime ore, mi ricordo che volli tenere traccia delle tantissime letture appuntando i titoli su fogli protocollo, che purtroppo non trovo più. Ma i frammenti delle storie lette affollano ancora i cassettini della mia memoria testimoniando un approccio alla parola tradizionale, limpido e sano. All’amore per la lettura si è poi affiancato quello per la scrittura; quindi, dopo la Maturità Classica ho scelto la facoltà di Giornalismo e ho esercitato l’attività di pubblicista per sei anni. La parola “informativa” è stata mia compagna tutti i giorni e ho messo in pratica le parole di Tullio De Mauro, che hai prima citato, privilegiando la chiarezza narrativa. Ispirandomi ad Indro Montanelli, non come uomo, ma come professionista del giornalismo, ho puntato su un linguaggio semplice, immediato, rivolto a tutti ed ho cercato di dire tutta la verità dei fatti. L’immediatezza della comunicazione è una scelta, ma anche una necessità in un’epoca caratterizzata da un forte analfabetismo di ritorno che porta anche alla proliferazione incontrollata di fake news.
D.: Di fronte alle crisi che stiamo vivendo come le parole possono tornare ad essere strumento, leva del miglioramento della qualità delle relazioni, della nostra vita consapevoli che dalle parole e dal loro uso consapevole dipende, anche, il futuro dell’educazione, della politica, dell’economia, dell’ambiente, del mondo che lasceremo ai nostri figli.
R.: Grazie per quest’altra domanda bella e significativa! Credo molto nella forza delle parole, nella loro capacità generativa e trasformativa e, per questo, ho deciso di diventare maestro svolgendo il delicatissimo compito di formare le nuove generazioni. Coltivare i virgulti del mondo che verrà è per me un onore e la considero una missione quotidiana. È nelle aule scolastiche che, attraverso la parola e l’esempio, noi educatori possiamo incidere profondamente sul futuro del mondo. Seppure ormai il nostro mestiere venga spesso svalutato, non solo economicamente, credo fermamente nella forza degli insegnamenti, per questo cerco di dare tutto me stesso per trasmettere non solo nozioni, ma soprattutto valori, senso civico, responsabilità, rispetto e amore per il prossimo. Le parole vanno pesate sempre, ma specialmente quando operi in un contesto come quello della scuola primaria, avendo a che fare con alunni in età evolutiva. A scuola metto in campo le mie conoscenze, quello che so e so fare, ma soprattutto la persona che sono. Penso che un educatore debba usare le parole come ponte tra la propria esperienza e quella dei discenti, adattandosi ai nuovi linguaggi, ma trasmettendo i valori universali fondanti, che sono eterni e immutabili. È quello che cercherò di fare anche come padre con la mia piccola che ha pochissimi giorni di vita. Sia ai bambini e ragazzi della mia scuola sia alla mia bambina, racconto e racconterò anche il valore del sacrificio, del duro impegno che nella mia vita si traduce come studio matto e duro lavoro, lavoro anche fisico, visto che in una fase intermedia tra la prima e la seconda laurea ho svolto altri mestieri, in una fase difficile per la mia famiglia di origine a causa della scomparsa di mio padre. È importante per i ragazzi di oggi capire fin da piccoli che non tutto è dovuto, che per raggiungere gli obiettivi devono sottoporsi a sacrifici e rinunce. Spesso ci troviamo davanti bambini e ragazzi che non ricevono molti “no” e questo rende complicata la nostra azione quotidiana. Naturalmente, la forza delle parole deve essere esercitata in vari contesti, non solo a scuola affinché possa propagarsi come onde radio e arrivare in ogni luogo. Anche i politici hanno un ruolo chiave, ma spesso assistiamo a dichiarazioni incoerenti, false, connotate da interessi personali e dall’ignavia che è il vero cancro di quest’epoca caratterizzata da tanti orrori. Studiando all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia per diventare maestro, ho avuto l’opportunità di studiare anche teologia e di leggere l’enciclica “Laudato sì”. Il testo di Papa Francesco è stato di grande ispirazione per me e mi ha responsabilizzato sul ruolo che ognuno di noi ha nel mondo per difendere la “casa comune”.
Consiglio a tutti di leggerla con attenzione, qualunque sia il ruolo, istituzionale e non, che sono chiamati a svolgere.

D.: La scrittrice Toni Morrison (1931-2019), Premio Nobel per la Letteratura nel 1993, scrive che «lavorare con le parole è sublime […] perché è generativo; produce significato che conferma la nostra differenza, la differenza umana – quella che ci contraddistingue da tutte le altre forme di vita. Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite» (T. Morrison, L’importanza di ogni parola, Frassinelli, 2019, p. 119.). In un’intervista televisiva rilasciata il 28 ottobre 2018 a Che tempo che fa lo scrittore Andrea Camilleri (1925-2019) dà una «lezione di civiltà» sull’uso e abuso della parola: «Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre, le parole possono trasformarsi in pallottole. Bisogna pesare ogni parola che si dice e soprattutto far cessare questo vento dell’odio che è veramente atroce». Due diverse ma fondamentali letture della crisi di civiltà dei nostri tempi. Come possono curare le nostre relazioni? Come possiamo imparare, e a sua volta, insegnare l’arte dell’alfabeto delle emozioni?
R.: È vero, ci distinguiamo dalle altre specie per la parola…e per l’anima! Il linguaggio, soprattutto in forma scritta, va oltre la nostra morte. Per questo cerco di non usare le parole come pallottole, ma come colombe bianche e bandiere della pace. Mi sono avvicinato alla poesia recentemente, nel 2023, sia per ravvivare la mia passione per la scrittura, sia soprattutto per esercitare questa forza generativa fenomenale. Nella mia prima raccolta, intitolata “Come chicchi di melograno, versi d’un amore puro e dolce in ogni sua forma” (autopubblicata su Amazon nell’agosto del 2024), ho scandagliato l’universo dei sentimenti e delle emozioni. Ritengo che l’amore vada condiviso, detto e scritto, addirittura urlato in un’epoca in cui si mette in dubbio il valore dei rapporti veri, della famiglia, della monogamia. Ormai sembra quasi che l’individuo e i suoi bisogni consumistici debbano prevalere su tutto e questo ci sta portando ad una profonda solitudine fatta di oggetti, viaggi lussureggianti, collezione di corpi usati, ma case vuote e silenziose. In questa silloge ho voluto sottolineare l’importanza delle relazioni, amicali, familiari e amorose, ho tratteggiato con toni sentimentali, ma obiettivi i luoghi del cuore, da cui spesso si viene strappati giocoforza, ho espresso il mio disappunto per i rapporti disfunzionali che dominano la contemporaneità.
Per “far cessare il vento dell’odio” due mesi fa ho pubblicato invece una seconda silloge (anch’essa disponibile su Amazon), in cui a prevalere è lo sdegno per tutti i mali che caratterizzano la società e la geopolitica attuale: “Il disgusto del timido fiore”. Con le mie poesie, che contengono metafore, personificazioni e similitudini di facile lettura, con l’utilizzo di rime baciate, alternate o del verso libero, cerco di dare il mio piccolo contributo per smuovere le coscienze oltre le mura scolastiche e mi avvalgo anche delle mie pagine Instagram e Facebook “Poesia_versatile_lucacapuano”. La mia è una poesia versatile perché mi adatto a vari stili e perché non mi limito ai “temi classici” proposti da molti poeti e amatori. I miei testi hanno origine sia dalla mia esperienza personale sia dall’osservazione attenta del mondo di oggi, una “poesia giornalistica ed educativa” che attraverso la scrittura unisce le tappe professionali della mia vita. Non si può restare zitti di fronte al genocidio di Gaza, ai massacri in Ucraina, ai quotidiani femminicidi, a tutte le forme di sopruso, tortura e violenza. Non si possono ignorare le situazioni dolorose causate dai cambiamenti climatici, dall’emigrazione, dalla mafia, dallo sfruttamento e dalla precarietà del lavoro, dal patriarcato imperante e così via. I miei versi non verranno mai imbavagliati dalla paura di essere giudicato o condannato.