Gli umili personaggi del gran romanzo manzoniano, a suo modo “epico”, senza averne consapevolezza si ritrovano ad assumere maschere del mito, della letteratura o della storia, richiamando, di volta in volta, ora i protagonisti omerici, ora quelli virgiliani, ora quelli legati a vicende del mito pagano (come la Lucia/Proserpina rapita dal Nibbio, che nel castello/ade dell’ innominato “converte” i chicchi della melagrana in grani di rosario, rifiutando il cibo) o a figure evangeliche e ai martiri cristiani (Agnese, Lucia, Lorenzo), insino al Renzo che assume provvisoriamente le sembianze di Robinson Crusoe, non senza una contaminante allusione al Lorenzo martire del tardo Impero Romano, quando appunto, rinvenuto l’Adda, si ferma a trascorrere la notte in una capanna, dotata di un’ hamac, che egli, memore inconsapevole delle vicende martirologiche del suo omonimo, disdegna, con una impagabile sottigliezza ironica dell’autore, in quanto l’hamac/graticcio non può non riportare alla comune radice etimologica di quella graticola in cui arrostì il povero martire spagnolo, per quanto poi il letto di foglie “ben saporito” risulterà altrettanto graticolante per il sonno tormentato del nostro protagonista.
Tra i personaggi tragici che Manzoni coltivò, due addivennero a protagonisti di tragedie: il conte di Carmagnola e Adelchi; l’ultimo, Spartaco, fu sacrificato alla stesura del “Fermo e Lucia” e rimase in forma di appunti per una tragedia da farsi. Così ci è venuta la fantasia che questo personaggio, caro all’autore, abbia trovato in qualche modo domicilio nel romanzo e che alcuni suoi tratti siano trapassati nell’umile protagonista (“il primo uomo della nostra storia”) Lorenzo Tramaglino, da tutti nomato Renzo. Ce la conferma, tale convinzione, la persistenza nel nostro autore di motivi a lui cari anche a distanza di anni, come quelli del mito troiano: sempre cari, sempre pronti a balenare tra le righe.
(://www.ilsaltodellaquaglia.com/2021/07/31/una-piccola-bagattella-di-un-filo-troiano-nella-storia-dei-promessi-sposi/)
Ora, sta a vedere in che modo lo Spartaco tragico sia trapassato nel “comico” Renzo, il quale, quando si trova inconsapevolmente a richiamare maschere tragiche, inevitabilmente le “converte” in “comiche”, vale a dire in vicende drammatiche ma non cruente e a buon fine.
Le prime avvisaglie di uno Spartaco/Renzo si hanno durante la rivolta del pane, allorché Renzo si lascia andare in atteggiamenti da capopopolo, ma mai tali da prefigurare eventi luttuosi e omicidiari, come vorrebbe il “vecchio malvissuto”: è qui che Manzoni lega la fama di rivoltoso dello Spartaco capo di oppressi al Renzo politico,
posto che anche lo Spartaco storico sembrò alieno dalla violenza e dall’omicidio gratuiti, cercando solo la salvezza per sé e i compagni dallo stato servile e oppressivo cui soggiacevano.
La simpatia di Manzoni per Renzo/Spartaco sta proprio nella ricerca della libertà dall’ oppressione dei prepotenti (“C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…” afferma Perpetua a colloquio con Renzo, dopo il mancato matrimonio) e della giustizia ingiusta : “Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don… basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più”, dice Renzo all’oste della luna piena che reclama le sue generalità (sulla dialettica umili–potenti , oppressi –oppressori, sull’idea di libertà e sul “chiodo di Roma” nella mente del Manzoni, fondamentali le considerazioni di G. Trombatore , L’ idea di Roma nella coscienza e nella poesia del Manzoni, in Belfagor 31 maggio 1975).
Il nostro “eroe” sembra avere il suo primo mitico paradigma in Achille che, in principio d’Iliade, si rivolta contro Agamennone, insultandolo aspramente. “Ah cane!”: nella furiosa esclamazione di Renzo contro don Rodrigo risuona l’ira di Achille, che nella lite in assemblea ha espressioni consimili: “Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!” (trad. Monti); ma anche nell’ Ettore in fuga
dalla furia di Achille, il Renzo /Spartaco trova un pendant: allorché alle due povere donne, rifugiate nel monastero di Monza, giunge notizia dalla fattoressa del monastero che “n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.”
Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: “ è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete? A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina.”
Qui, in Lucia, pare balenare in tutta la sua potenza l’Andromaca omerica, ancora ignara della crudele sorte del marito:
Ma del fato d’Ettór nulla per anco
Andrómaca sapea, chè nullo a lei
Del marito rimasto anzi alle porte
Recato avea l’avviso. (…) .
Ma come dalla torre un suon confuso
D’ululi intese e di lamenti, tutte
Le tremaro le membra, al suol le cadde
La spola (trad. Monti).
La “conversione” manzoniana dal tragico al comico fa sì che Renzo sia ancora fuggitivo ma vivo: “Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’accalappino ancora, può essere che sia in salvo” risponde la fattoressa a domanda di Agnese.
La “reponse “contiene nel participio passato, tra loro coniugate, le due figure fuggenti cui il Renzo letterario è in quel momento debitore: Ettore e Spartaco; il primo richiamato prepotentemente dalla Lucia/Andromaca di cui sopra, mentre il secondo, oltre che nell’atto della fuga, trova sede, con sottilissima allusione, nel significato di “scappato”, felicemente anagrammato.
All’osteria della luna piena Renzo, per la prima volta, si guarda allo “specchio” senza riconoscersi
(in una sorta di fase lacaniana dello specchio).
Ma qualcosa balugina e Renzo si spinge sino a promettere che, come abbiamo visto, se potrà sposare Lucia, darà un bacio a quella figura che, prima respinta, sembra segretamente attrarlo.
Questo passo sarà richiamato a distanza di tempo al cap. XXVI, che nel finale presenta una curiosa illustrazione (un unicum) meta-figurativa, con una allusione a qualcosa di nascosto nel testo e che sembra dire al lettore: “occhio!”, come invitandolo a desecretare un quid.
Qui Renzo, inopinatamente, viene paragonato ad Annibale, come precedentemente (cap. XXV) don Rodrigo aveva richiamato il Catilina fuggitivo (sono gli unici due personaggi della storia romana esplicitamente richiamati al paragone coi due “avversari” della nostra storia).
Mentre quest’ultimo trova un filo narrativo che lo motiva, il Renzo /Annibale invece sembra cadere ex abrupto in un contesto che eleva il povero montanaro a personaggio capitale, colui che mise in grave pericolo la stessa Roma e dal quale essa subì la più grave disfatta in quel di Canne (214 a.C.). Annibale è certamente personaggio meno tragico di Spartaco, per quanto in fine si sia suicidato per non cadere in mano dei Romani.
Bortolo, più semplicemente, conduce il cugino al sicuro, presso la filanda di un conterraneo, mutandogli solo il nome in Antonio Rivolta, in attesa che le acque si calmino e di Renzo Tramaglino, al fine, ci si dimentichi.
Accogliamo pure il richiamo figurativo dell’autore e puntiamo la nostra attenzione, il nostro “occhio” proprio sul generale cartaginese, avversario principe dei Romani:
e se Annibale non fosse Annibale? Se anche il riferimento storico, in relazione ad Antonio Rivolta, si manifestasse sotto falso nome? Se in qualche modo rappresentasse il “re moro” incatenato (egli che proletticamente occupò la Spagna, come poi i Mori, provenendo dall’Africa) dello stemma di don Gonzalo, che attira l’attenzione di Renzo?
Un re moro “ariano”, cioè di quella eresia che trovò in Tracia, patria di Spartaco, un luogo d’elezione e che, dunque, potrebbe figurare proprio il gladiatore tracio?
Troviamo in Orosio (storico del tardo impero, nel quinto libro delle sue “Storie contro i pagani”, che ripete un giudizio divenuto tradizionale) un accostamento significativo tra i due personaggi, come i soli che abbiano messo in reale pericolo la Res publica tra terzo e primo secolo a.C. e, dunque, lo scambio metonimico tra i due personaggi appare così agevole da consentirci, infine,
di leggere Annibale (occhio!) come Spartaco.
D’ altra parte, potrebbe mai Annibale definirsi “un ladrone pubblico” (latro), appellativo che invece i latini attribuirono a Spartaco, più facilmente accostabile a Renzo e per le sue umili origini (pastore l’uno, contadino l’altro) e per il ruolo di rivoltoso affibbiato al nostro montanaro e che Renzo indosserà come un abito col nome di Antonio Rivolta, che ha un suo perché.
Come si sa, nella vicenda di Spartaco ebbe un ruolo decisivo il futuro triumviro Crasso, che Manzoni sembra nascondere tra le righe nel termine “fracasso”, che anagrammato “fa Crasso”.
Ma torniamo al nostro Renzo in Rivolta, nella nuova provvisoria sistemazione presso un padrone milanese amico di Bortolo. Se il cognome (pur realmente presente nel Milanese) allude, come ognun comprende, al ruolo di capopopolo attribuitogli, il nome sembra più problematico da giustificare (posto che Manzoni, come crediamo, non l’abbia dato a caso), riconducendolo alcuno all’ “amico” Ferrer, altro all’aiutante Tonio.
La realtà ci sembra molto più sottile, come il “filo” che lega il nostro povero protagonista (“poveraccio”) a vicende che egli ignora, da buon contadino lecchese del ‘600 (cap. XXVI).
Cicerone ebbe a esprimere un duro giudizio su Spartaco,
e per lui non poteva darsi appellativo più sprezzante da attribuire a un eventuale avversario.
L’ occasione si presentò allorché il “secondo” triumviro Marco Antonio gli “suggerì” le celebri “Filippiche”:
“O Spartace! Quem enim te potius appellem, cuius propter nefanda scelera tolerabilis videtur fuisse Catilina?” (Phil.XIII,22). Nella quarta (15-16) l’illustre oratore, ormai condannato in pectore come i nostri Falcone e Borsellino, non potè fare a meno di associare, nell’invettiva contro Antonio, il nome di Spartaco ad appellativi come “percussor” e “latro”, che Manzoni rende analogamente con “malandrino” e “ladrone pubblico” riguardo allo “scappato” e ricercato Renzo Tramaglino : “Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Venezia in Milano, perchè un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d’omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che il caso avesse portato” (cap. XXVI).
Cicerone, così, lo declassa da duce supremo, quale egli si riteneva (mettiamo : un Annibale) a ultimo dei servi come un umile sia pur valente gladiatore tracio, che si era arruolato(come Renzo minaccia di fare, distoltone dal cugino) per un soldo sicuro, ma poi, amando la libertà più della disciplina, discioltosi, indi catturato e venduto a tal lanista Lentulo, tenutario della scuola gladiatoria in Capua, aveva animato con altri una rivolta e fuga verso il Vesuvio, inquietando per qualche anno (73-71 a.C.) le legioni romane.
Dunque, il nostro Renzo/Spartaco, accolto benevolmente dal nuovo padrone quale valente operaio, quando viene chiamato col nuovo nome spesso appare “stordito”: “Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po’ stordito, perchè, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.”
Il nostro umile contadino non può riconoscersi in un nome di alto lignaggio storico quale un Antonio o, mettiamo, un Annibale, né può egli lontanamente immaginare che il suo auctor lo tenga “con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.”
In questo gran finale di un capitolo così capitale, l’ironia manzoniana si libra, come non mai, in una sorta di valzer di insolita levità, che solo il principe di Salina avrebbe eguagliato nel gran ballo gattopardiano con Angelica e che, col Pasolini de “La Ricotta”, potremmo “veramente deffinire” felliniana: “Egli danza, egli danza”.
Bibliografia essenziale: per i commenti al romanzo ci siamo avvalsi principalmente dell’edizione mondadoriana dei Meridiani a cura di S.S.Nigro, della Bur a cura di F. De Cristofaro, de “I Promessi sposi. Testo del 1840-1842″, a cura di T. Poggi Salani presso il Centro Nazionale di Studi Manzoniani e della recente edizione scolastica a cura di C.Bologna e P.Rocchi presso Loescher.
P.S. : Dedico questo mio breve ma “sudato” saggio a Orazio Galfo, cui mi ha legato una fraterna vicinanza culturale e politica, che fu alla base del mio impegno diretto come consigliere comunale dal 1994 al 2001, in parte sotto la sua “ala” di vicesindaco nella prima amministrazione Ruta, da noi Repubblicani fortemente sostenuta per il suo valore di svolta politica nella Città di Modica; tra quei valorosi amici di fervido impegno Mazziniano, non posso non ricordare, almeno, Enrico Denaro, Carlo Trombadore, Pietro Alfano e mio cugino Giovanni Roccasalva, che non sono più di questo mondo.