Il secchiello del latte. La bellezza e la semplicità degli elzeviri di Piero Chiara

Articolo di Filippo Scimé

Forse non tutti conoscono che accanto alla grande fama di narratore di grandi storie, Piero Chiara si è a lungo dilettato sulla stesura di microtesti, ossia dei preziosi racconti che nascevano in forma disorganica, sparsi sui giornali, e che andavano sotto l’etichetta di “elzeviri”, vale a dire articoli di pregio che riproponevano il commento di fatti, accadimenti, episodi della contemporaneità o scavavano, nel recupero della memoria; queste semplici storie, impastate di vicende popolari e sermo cotidianus, sarebbero un giorno andate a colmare brevi raccolte narrative dello stesso autore, in qualche caso postume ed elargite a tempo debito dal compianto Federico Roncoroni, custode dell’archivio dello scrittore.

Si annoverano all’interno di questa famiglia una pletora di articoli: alcuni davvero curiosi, che ci raccontano un mondo di semplicità e di memorie che riaffiorano all’improvviso nella mente dello scrittore come storie che hanno una verità morale da trasmettere, pur nella puerile semplicità che aleggia su di esse e sulle cose circostanti; recuperando la funzione ancestrale della letteratura come condivisione della memoria collettiva: memini ergo sum, scriveva Gesualdo Bufalino. Altri invece forniscono lo spunto o il pretesto per grandi storie che avrebbero formato la base per un romanzo. Possiamo senza dubbio affermare, come scriveva Giovanni Tesio che “nel Chiara del primo periodo esista una spaccatura, solo eccezionalmente composta, tra lo scrittore di elzeviri e di capitoli e il narratore di storie orali, con addirittura i suoi modelli separati: Cardarelli, Cecchi, Angioletti da un lato e dall’altro la più concreta lezione dei fabulatori da Caffè, con in testa il vagheggiato «notaio Arca», «gran raccontatore della sua vita, vero affabulatore e cantastorie di sé stesso»”1. Il narratore che si sarebbe distinto successivamente affrontò l’arengo della scrittura con circospezione e affabulazione.

Tra queste memorie rientra nella raccolta di Chiara, editata nuovamente da Mondadori col titolo Il nobil uomo Batosti e altri racconti, il piccolo racconto intitolato Il secchiello del latte breve memoir del tempo che fu. Apparso rapidamente in un’edizione fuori commercio di 123 esemplari, sarebbe originariamente dovuto confluire nel memorabile Le avventure di Pierino nel mercato di Luino e poi nella raccolta Pierino non farne più pubblicata da Mondadori postuma nel 1987, ma Chiara non fece in tempo a vederlo. Nelle originarie intenzioni dell’autore il racconto che richiamiamo alla memoria doveva proseguire con un episodio relativo a una delle battaglie combattute con un secchiello del latte sulla via del ritorno a casa. Chiara è spesso tornato nella ricomposizione dell’io bambino, come se non volesse staccarsi da quell’arduo e spericolato tirocinio alla vita.

Il seguente racconto presenta la consueta stenografia dell’oralità, tipica di Piero Chiara, ovvero la capacità di far precedere alla stesura del racconto una lunga tradizione orale, talvolta perfezionata nel continuo esporre, prima che non ne rimanga traccia nel continuo fluire del tempo. L’impianto narrativo è sostenuto dall’immagine del ricordo che si cristallizza sulla pagina ed è caratterizzato da accorgimenti metodici, a iniziare, ad esempio, dalle abituali citazioni nell’incipit delle coordinate temporali, spesso circostanziali, come se il racconto fosse pescato dal pozzo dei ricordi, che il presente attenua e vada gradualmente ricomponendosi nella parola orale e poi colata nella fusione dello scritto. Come notiamo leggendo: “Intorno al 1919 o 1920, un veneto, padovano o trevigiano, che era stato dei primi a stabilirsi al nostro paese si improvvisò lattaio.”2

1 G. Tesio, Novecento e prosa. Da Pirandello a Busi, cit. pag. 207, Edizioni del Mercurio, Novara, 2011.

L’utilizzo del verbo improvvisare, che esprime una cronologia temporale definita – il passato remoto – traccia una irreperibilità del modus operandi dell’artigiano rievocato, racchiude un aspetto tipico agli inizi del secolo scorso, cioè la rustica abilità di improvvisare un mestiere, prassi consueta oggidì, se pensiamo alla ribalta di webeti che cavalcano l’orda d’oro del mondo digitale. Successivamente, rimanendo focalizzati sulla scelta del tempo verbale che domina, troviamo l’imperfetto, che garantisce una contemporaneità nel passato e anche un certo dinamismo nella lettura: l’occhio via via ripercorre il fatto e la prosa asciutta enuclea informazioni che ricompongono il fatto e la persona. “Raccoglieva il latte, andando da un contadino all’altro con un carretto carico di bidoni, poi lo rivendeva in una stanza nuda e fredda, vicino alla chiesa, pescandolo dai bidoni con dei misurini da mezzo litro muniti d’un lungo manico”3. L’azione descritta risponde a una sacra ritualità del mondo antico, fatta di gesti lenti e misurati, di attese oramai perdute: “Donne, bambini e qualche uomo gli porgevano, uno dopo l’altro, i loro secchielli di ferro smaltato o d’alluminio. Quando gli presentavano una bottiglia, il lattaio afferrava un imbuto, lo infilava nella bottiglia e vi faceva scendere il fiotto denso e bianco del latte”.4

Dopo il narratore comincia a svelare il legame con l’azione, la sua serena complicità nel rituale e come vi si atteggia bambino nel ricordo appena pescato: “Con un secchiello d’alluminio munito di coperchio, mia madre mi mandava ogni sera a prendere il litro di latte che serviva per casa nostra, dandomi nella mano sinistra, da tenere ben strette, due monete di nichel da venti centesimi”5. Qui notiamo come l’autore ricostruisca in maniera metodica il suo ricordo, cercando di mantenere scrupolosamente i dettagli: l’ora, la mano che stringe le monete, la quantità delle monete stesse. Per cui si viene a creare un effetto strano dato che noi riconosciamo un testo nel quale il racconto rievoca sensazioni e sentimenti propri dell’autore, e un ipotesto nel quale il nostro ricordo cerca di ricostruire il ricordo del nostro io bambino, uno spicchio di memoria fragile che va a infrangersi nella nostra puerile nostalgia.

Proseguendo il racconto orale prende voce e forma, replicando la motricità della memoria nella forma della prosa; alle coordinate temporali succedono quelle spaziali: “Salivo la vecchia strada che serpeggia dal porto alla chiesa, passavo davanti al droghiere, all’orologiaio, al farmacista, all’ortolano, al negoziante di vino, al cartolaio, al sarto, al calzolaio e a tutto il commercio del borgo che era concentrato in quella via, perché dentro i cortili stavano i pescatori, i falegnami e gli operai”. Chiara racconta della sua Luino, precisamente quella di inizio secolo; una toponomastica dei sentimenti sbiadita riprende vita e costruisce il sentiero condotto da un bambino al quale è stato assegnato un compito preciso; una geografia, quella cittadina, che diventa geografia dei sentimenti che rinfocolano un animo mai troppo grande per ricostruire il suo passato.

E il bambino appena chiamato al rispondere al suo incarico prende vita, ecco che si stagliano ai suoi occhi piccoli e impauriti, e ai nostri: “donne con per mano dei bambini e molti ragazzi, col secchiello o la bottiglia, si accostavano al banco dove il lattaio e sua moglie mescevano senza sosta”6. Il secchiello pencola nuovamente se ne sente quasi il rumore cupo e sordo dell’aria che rimbomba dentro.

2 P. Chiara, Il nobil uomo Batosti e altri racconti, cit. pag. 53, Mondadori, Milano, 2013.
3 Op. cit. pag. 52.
4 Ibidem.
5 Op. cit. pag. 53.
6 Ibidem.

Alle sensazioni visive, subentrano poi le olfattive e il narratore rammenta ancora come: “nel locale vagava un odore di rancido e di cattivo formaggio, un tanfo di siero e di cagliata al quale il lattaio e i suoi, che ne erano intrisi da anni, parevano indifferenti”7; il moto quieto della semplicità e l’odore stantio della semplicità che impone le nostre narici, mi sia perdonato lo zeugma, di vedere quegli odori.

E mentre il bambino assolve al suo compito, si introduce dirompente il fatto, il serrare della catena che conduce alla chiusura del racconto, preceduto dalla ricostruzione del periodo: pertanto cronologia, geografia, scenografia. “Erano, quei giorni, tra inverno e primavera, con lunghe sere, e il fuoco degli incendi sui monti di là del lago, mal rischiarate da poche lampadine gialle agli angoli delle strade”8; spesso, come in questo caso, è interessante il legame che si instaura tra il ricordo del tempo che fu e la contemporaneità; lo si nota subito dopo leggendo: “Un tempo, come stagione, simile a quello di questi giorni, pieni di rapine, di sequestri di persona, di carneficine e di fluttuazioni monetarie. Allora pareva che non accadesse nulla. Il più grosso avvenimento era l’arrivo del battello, a mezzogiorno e alle sei di sera, il passaggio del portalettere Vallerani e, ogni mercoledì, l’apparizione improvvisa dei banchi del mercato.”9 La distanza tra il presente e il passato è tracciata dall’assenza di novità e di come la contemporaneità abbia segnato irriducibilmente il nostro presente che nel bene e nel male riporta ogni attimo del mondo. La modernità ha risegnato una cesura tra l’antico e il moderno, tra la nostra percezione dei segni esterni, che ha superato i bisogni antropologici delle società, delle valli, dei piccoli centri non più discinti dal mondo.

E il secchiello che dondolava che fine ha fatto eccolo. E in una sorta di composizione ad anello ritorna e chiude il breve racconto: “Il mio secchiello era ammaccato in ogni parte, perché lungo la strada e prima di farmelo riempire dal lattaio lo usavo come arma contro i miei avversari, che erano i ragazzi delle vie vicine. Lo davo in testa a questo o a quello tenendolo per il suo manico ad archetto, e qualche volta, sbagliando, contro un muro”; per cui è facile ritornare bambini e sostituire al bisogno di cibo, il bisogno del gioco, di dare della lotta l propria armatura, di ingaggiare battaglie anche furiose, ma di sapore così antico da non potersene separare anche da adulti: e poi continua “gli scontri potevano aver luogo anche dopo che il secchiello mi era stato riempito; ed era questa la ragione per cui non ne portavo mai a casa un litro, ma spesso mezzo litro, e qualche volta solo un dito, restato sul fondo dopo una delle solite battaglie che andavo cercando, allontanandomi dalla piazza della Chiesa e spingendomi fin in piazza S. Francesco o in piazza del Risorgimento, se non trovavo avversari a portata di mano”10. Così come il bambino ha bisogno di giocare, cercando anche lontano dal perimetro della sua casa lo scontro, il narratore ha bisogno di raccontare, nella sua trasparente e puerile semplicità, una storia, un momento fulgido che appare e scompare tra l’ondulazione della latta.

7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 Ibidem.

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