Il prossimo 1° novembre si festeggerà la festa d’Ognissanti. Una festa che unisce «cielo» e «terra». Storicamente, questa festa si diffonde nell’Europa latina nei secoli VIII-IX, quando papa Gregorio IV, nell’835, sceglie questa data per ricordare i santi apostoli e tutti i santi. Ma poi fu papa Sisto IV, nel 1475, a fissarne l’obbligatorietà per tutta la cristianità.
Festeggiare i santi significa fissare, guardare chi gioisce e vive appieno “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso XXXX, v. 145). Ma cosa significa essere santo? Chi è il santo? Il santo non è il buono o colui che si sforza di migliorarsi, non è un superuomo, piuttosto è un uomo vero, perché aderisce alla bellezza e alla verità di un incontro, quello, in questo caso, con Gesù il Cristo. E come colui che è trascinato da un grande amore, vive la densità dell’istante tutto preso dalla memoria del suo volto e desidera che anche gli altri possano incontrare la pienezza e il fascino che lui ha visto. A tal proposito, non si può non ricordare la celebre frase attribuita a Papa Leone XIII «prima di essere cristiani occorre essere uomini».
La nostra Europa, che ha sì radici cristiane, sembra d’aver smarrito i valori, le strade delle virtù che hanno fatto grande la sua storia. Oggi, viviamo in un tempo, tra il reale e il virtuale, segnato, sempre più, da incertezze, paure, intolleranze. L’Uomo deve tornare a riflettere, dovrebbe tornare a riflettere sulla sua natura, sulla sua dignità, sulla dignità del lavoro, ecc.
Papa Leone XIV, da agostiniano e da vescovo di Roma, ancora una volta ci ricorda la lezione di Sant’Agostino. Una figura che, soprattutto nelle Confessioni, descrive l’Uomo come un «essere inquieto, segnato da una tensione costante verso il Bene supremo, che solo Dio può colmare: Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te». In questo senso, l’esperienza della fede cristiana non nasce dalla negazione dell’umano, ma dalla sua piena assunzione: è l’uomo, nella sua limitatezza e nella sua apertura, il soggetto della fede. Agostino non propone una fuga dal mondo, ma un ritorno a sé stessi, all’interiorità. L’uomo non è solo razionale, ma desiderante, capace di memoria, di intelligenza e di volontà. Ricordiamo che (sant’) Agostino si opponeva tanto all’eresia pelagiana (che esaltava l’autosufficienza umana) quanto a quella manichea (che disprezzava la carne e il mondo). L’uomo, l’umanità, è l’anello di congiunzione tra tempo ed eternità, materia e spirito.
Con il professore Francesco Pira, docente associato di Sociologia all’Università di Messina, saggista e giornalista vogliamo, nello spazio aperto di questo dialogo, seguire e analizzare, nei limiti di un’intervista, le profonde mutazioni antropologiche, che sempre più, determinano un panorama inedito nella scena, nella vicenda umana: le nuove frontiere della genetica, delle neuroscienze, l’intelligenza artificiale, il trans umanesimo, i social network, ecc. Profonde mutazioni che pongono profondi e radicali interrogativi sull’uomo: che cos’è oggi l’uomo? In un’epoca di profondi cambiamenti e trasformazioni, e alla luce della prossima festività cristiana di Ognissanti, cerchiamo, tenendo presente passato e futuro, classicità e modernità, l’Arte e le scienze, di provare a scrutare l’attuale situazione di vita sociale, mentale, culturale dell’Umanità.
D.: Professore Francesco Pira, quanto il nostro enorme patrimonio, soprattutto antropologico, oggi segna e feconda la cultura e svela il modo in cui l’umanità e le sue élites sociali e culturali concepiscono la vita, i rapporti sociali e l’amore?
R.: «Il patrimonio antropologico rappresenta un insieme di valori, simboli e pratiche che influenzano profondamente la percezione della vita, dei legami sociali e dei rapporti affettivi. Costituisce una base culturale comune, attraverso la quale le società trasmettono norme, comportamenti e modelli relazionali. Le élite culturali e sociali rivestono un ruolo centrale nella selezione e nella diffusione di tali modelli, contribuendo a legittimare alcune forme di socialità e a marginalizzarne altre. Nella società contemporanea, tuttavia, queste strutture tradizionali si confrontano con la fluidità dei rapporti descritta da Bauman. Le relazioni diventano “liquide”: meno stabili, più temporanee e costantemente negoziate attraverso pratiche comunicative e narrazioni condivise. L’amore e i legami affettivi non sono più definiti da regole fisse, ma vengono reinterpretati in funzione di contesti culturali mutevoli e dei nuovi strumenti di interazione. In questo quadro, il patrimonio culturale funziona come un terreno fertile: offre riferimenti condivisi, la cui efficacia e significato si ridefiniscono continuamente, generando nuove forme di socialità e concezioni dei rapporti umani».
D.: Quali sono le forze e le vitalità che caratterizzano la nostra epoca di profondi cambiamenti sociali e culturali?
R.: «Il nostro tempo è segnato da trasformazioni profonde, sia sul piano sociale che culturale, caratterizzate da un’accelerazione dei processi comunicativi e da una crescente interconnessione globale. Come sottolinea Manuel Castells, viviamo in una società in rete, in cui le tecnologie digitali modificano non solo il modo in cui produciamo e fruiamo contenuti culturali, ma anche le modalità di socialità e partecipazione. Parallelamente, la modernità riflessiva di Anthony Giddens mette in luce come gli individui siano chiamati a costruire continuamente la propria identità in contesti complessi, dove le certezze tradizionali vengono ridefinite. In questo scenario, le vitalità contemporanee emergono dalla capacità delle persone di adattarsi, reinterpretare e generare nuove forme di comunicazione e espressione culturale, pur affrontando incertezze e tensioni dovute al ritmo incessante delle trasformazioni sociali».
D.: Da professore universitario che studia i dinamismi delle nostre società, quali sono i messaggi fondamentali che custodisce nel cuore e nella mente e che, soprattutto, costituiscono e alimentano la sua identità di uomo, docente, giornalista e formatore?
R.: «Nel mio percorso di giornalista, docente universitario e formatore, porto con me convinzioni profonde che modellano il mio lavoro e la mia vita. Credo nel valore del sapere come strumento di libertà: raccontare storie, interpretare i fenomeni culturali e sociali e offrire strumenti di comprensione significa contribuire alla crescita di cittadini consapevoli, capaci di orientarsi in un mondo complicato e in continuo mutamento. L’esperienza nel giornalismo mi ha insegnato che ogni voce è significativa, che le comunità si costruiscono attraverso narrazioni condivise e che il dialogo autentico può aprire spazi di confronto, empatia e rinnovamento. Come docente universitario, ogni momento formativo rappresenta un’occasione di scambio e scoperta: stimolare la curiosità, incoraggiare il pensiero critico e osservare le nuove forme di socialità e interazione è per me un modo concreto di partecipare alla formazione delle nuove generazioni. Il lavoro più intenso e toccante avviene però nelle scuole, dove incontro ragazzi, insegnanti e famiglie: in questi spazi cerco di sensibilizzare, accompagnare e favorire la consapevolezza su relazioni, educazione digitale e sfide culturali quotidiane. Coltivo il sogno di scuole dedicate ai genitori, luoghi in cui imparare insieme a comprendere figli, comunità e principi comuni. Il “fil rouge” che unisce tutte queste esperienze è la convinzione che l’educazione e il dialogo possano realmente generare trasformazione. Il confronto sincero e rispettoso è, per me, la chiave per costruire una società più consapevole e partecipativa. Ogni storia raccontata, ogni momento di scambio e ogni lezione trasmessa ha il potere di lasciare un segno, stimolare analisi e contribuire a un mondo più aperto, empatico e solidale».
