L’11 luglio si celebra la festa di san Benedetto da Norcia, un uomo dalla «voce grande e dolce» (come ha scritto Jacques Le Goff, uno tra i massimi storici del Medioevo https://www.famigliacristiana.it/articolo/san-benedetto-il-monaco-che-fece-l-europa-e-addolci-il-medioevo.aspx ), il fondatore del monachesimo occidentale, vissuto tra il 480 circa e il 547.
Papa Paolo VI, il 24 ottobre 1964, proclama san Benedetto da Norcia Patrono d’Europa intendo così riconoscere la meravigliosa opera di questo uomo e santo per la formazione della civiltà e della cultura europea. Sul tema e problema dell’identità europea, nel Novecento, dal celeberrimo libro Il tramonto dell’Occidente del filosofo e storico Oswald Spenger, pubblicato nel 1918, mentre sta per concludersi la Prima Guerra Mondiale a Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa di Jacques Le Goff, edito nel 2004, al libro L’Europa è un’avventura di Zygmunt Bauman, pubblicato nel 2012, e infine, a Europa Europae. Storia, mito, utopia, illusione di Franco Cardini, stampato nel 2017, tanti studiosi si sono interrogati e si interrogano sul «sogno» europeo, su cosa davvero volessero i Padri fondatori dell’Europa, sui motivi della fragilità dell’Europa che tutti noi stiamo vivendo in questo delicato e confuso momento storico.
Abbiamo voluto coinvolgere, ancora una volta, il professore Francesco Pira, Associato di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi dell’Università di Messina, che ha conosciuto personalmente il professore Zygmut Bauman, uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, un maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. Al sociologo Bauman, ricordiamolo, si deve la folgorante definizione di «modernità liquida».

D.: Bauman, nel volume L’Europa è un avventura insegna che «l’Europa Non è qualcosa che si scopre, bensì una missione, qualcosa da fare, cercare costruire. Per compiere questa missione occorrono un sacco di inventiva determinazione e duro lavoro. Forse ho un lavoro che non finisce mai, una sfida a cui rispondere in toto una prospettiva per sempre straordinaria». Il nostro continente è un luogo di avventure, di storie. Prendendo in prestito la brillante formulazione del filosofo e saggista Denis de Rougemont, Bauman osserva con acume che «l’Europa ha scoperto tutte le terre della Terra, ma nessuno ha mai scoperto l’Europa». Perché come Cittadini europei abbiamo smesso di leggere e di vivere il «sogno» europeo? Dal 2002 la moneta dell’euro circola in ben 26 Paesi ma l’Europa, come istituzione e non solo, è ancora da fare, addirittura da pensare. Cosa ne pensa lei, carissimo professore Pira, della ricerca dell’identità collettiva europea soprattutto alla luce della sua lunga e continua esperienza di visiting professor in Spagna, Polonia, Armenia e Georgia?
R: «La riflessione proposta da Zygmunt Bauman è quanto mai attuale e acuta. parlare oggi di identità europea significa affrontare una delle questioni più complesse e centrali della contemporaneità: la difficoltà di riconoscerci in un “noi” collettivo, in un contesto sociale profondamente mutato.
Nella mia lunga esperienza come visiting professor in diverse università europee, ho potuto osservare come l’idea di Europa venga vissuta in modi diversi. Questa pluralità di visioni si inserisce perfettamente nel quadro tracciato da Bauman: l’identità non è qualcosa che si eredita, ma qualcosa che si cerca, si costruisce, si reinventa continuamente.
Nel contesto della modernità liquida, l’identità – individuale e collettiva – è diventata un processo in divenire. Se nelle società tradizionali l’identità era un destino, oggi è un compito. Una responsabilità ancora più ardua quando ci troviamo a negoziare il nostro posto nel mondo in un contesto frammentato, fluido, e iperconnesso, dove il “disembedding” di cui parlava Anthony Giddens ha portato a un generale sradicamento dai luoghi fisici, culturali, simbolici in cui si radicava il senso di appartenenza. L’Europa ha scoperto il mondo, come dice Bauman citando Denis de Rougemont, ma non ha ancora scoperto sé stessa.
E la ragione è anche sociologica: in assenza di una narrazione comune condivisa e vissuta, il senso di appartenenza all’Europa resta debole, intermittente, spesso sostituito da narrazioni nazionali o da micro-identità digitali. Viviamo in una dimensione in cui la costruzione dell’identità si è spostata nei territori digitali, dove ognuno di noi è al tempo stesso autore e spettatore di sé stesso, in una perenne performance. Ma questa identità algoritmica – fondata su like, filtri, apparenze – difficilmente si traduce in capitale simbolico utile per costruire un senso civico e collettivo. Ecco allora che la vera sfida europea diventa una sfida educativa, relazionale, culturale. L’identità europea può esistere solo se si fonda sull’incontro, sul riconoscimento reciproco, sulla disponibilità a vivere la diversità non come minaccia, ma come risorsa. L’Europa sarà – per riprendere le parole di Bauman – «una prospettiva per sempre straordinaria» soltanto se accetterà di essere un’identità plurale, aperta, non finita. In fondo, l’identità non è mai uno stato, ma un processo. E forse è proprio qui il punto: il sogno europeo non si è infranto, ma si è fatto più complesso. Non è più una visione lineare, ma un mosaico da comporre, una storia collettiva che va scritta a più mani. Tocca a noi – cittadini, intellettuali, educatori – alimentare questo sogno, con “inventiva, determinazione e duro lavoro”, come scrive Bauman. Perché l’Europa non sarà mai “data”: sarà sempre “da fare”».

D.: L’Unione Europea sta attraversando un periodo di smarrimento, che non si limita alle difficoltà e alle crisi economico-politiche, ma al fatto che il progetto sociopolitico dei Padri fondatori sembrerebbe evaporare, svuotato di senso, di valori, di ambizioni, di sfide. L’Europa non deve essere solo un mercato comune ma una comunità di valori. Come possiamo essere capaci di offrire risposte globali partendo dalla propria grande parabola storica incastonata da parole-chiavi come “democrazia”, “libertà”, “uguaglianza”, “tolleranza”?
R: «Sì, è vero: l’Unione Europea oggi sembra attraversare un tempo di smarrimento. Ma non si tratta soltanto di una crisi economica o istituzionale. Si tratta, più profondamente, di una crisi di senso. Il progetto dei Padri fondatori – che nasceva dal dolore della guerra e dalla speranza della pace – rischia di svuotarsi di significato, se non viene alimentato da una rinnovata tensione ideale e valoriale. E questa è, prima ancora che politica, una sfida culturale e sociologica. L’Europa non può e non deve ridursi a un’area di libero scambio o a un apparato burocratico: deve tornare a condividere ideali autentici. È qui che entra in gioco il cuore pulsante della sociologia: lo studio del legame sociale, della coesione, della costruzione dell’identità collettiva. E oggi questo legame è fragile, spesso surrogato da appartenenze virtuali o da nazionalismi. Parole come democrazia, libertà, uguaglianza, tolleranza non devono restare slogan scolpiti nei trattati: devono tornare a essere esperienze vissute, pratiche quotidiane, linguaggi comuni. E questo comporta un lavoro profondo sulla costruzione dell’immaginario europeo, sulla fiducia, sull’empatia sociale. Senza narrazioni condivise, non ci può essere senso di appartenenza. Oggi ci troviamo in una modernità che Bauman ha definito “liquida”: tutto è fluido, instabile, frammentato. L’identità non è più ereditata, ma costruita, e la cittadinanza europea – come qualsiasi identità collettiva – è una realtà da coltivare. Come? Con la cultura, con l’educazione, con un’informazione responsabile che non alimenti solo paure ma anche visioni. È questo il compito, anche per noi comunicatori: riportare al centro i valori fondanti dell’Europa come elementi di coesione, e non solo come citazioni rituali. In un’epoca in cui gli algoritmi decidono cosa vediamo e cosa ignoriamo, tornare a parlare di tolleranza e libertà significa anche proteggere il pluralismo, la diversità, la possibilità stessa di pensare criticamente. In questo senso, l’Europa deve recuperare la propria vocazione educativa e civile. Deve insegnare – e praticare – la convivenza nella complessità. Solo così, forse, torneremo a vedere l’Europa non come un’entità distante, ma come uno spazio vivo, umano, nostro. Non solo un mercato, ma una comunità di principi e visioni che sappia ancora parlare al mondo».

D.: In questo tempo di guerre e di crisi globali perché in Europa sembra essere assente il dialogo, l’integrazione. La frammentazione sociale degli Stati è specchio di questa nostra società narcisistica, cannibale? Perché nell’UE – il perimetro delle lezioni di vita e di stile di Aristotele, Hegel, Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Joseph Beck, Zygmunt Bauman – manca una riflessione sociologica, antropologica capace di superare le attuali frammentazioni e divisioni? Come ripartire dal pensiero, dalla cultura? Perché nella terra dove è nato il “pensiero filosofico occidentale” si è smesso di pensare in grande?
R: «Viviamo un tempo attraversato da guerre, crisi globali, disuguaglianze crescenti. E l’Europa, culla del pensiero critico e della civiltà democratica, sembra oggi silenziosa, ripiegata, incapace di generare visioni comuni. Il dialogo si è fatto raro, l’integrazione faticosa, la solidarietà intermittente. Ma questo non accade per caso. È il riflesso di una società sempre più narcisistica e autoreferenziale. La frammentazione sociale degli Stati europei è il sintomo evidente di questa crisi del legame. Un’Unione nata per unire si trova oggi disunita non solo nelle politiche, ma soprattutto nei sentimenti, nei valori condivisi, nell’immaginario collettivo. Abbiamo dimenticato il pensiero di Aristotele, di Hegel, di Spinelli e di Bauman. Loro ci hanno insegnato che ogni progetto collettivo ha bisogno di una cultura forte, di un’etica della responsabilità, di un sogno condiviso. Ma oggi, nel continente dove è nato il pensiero occidentale, si è smesso di pensare in grande. Si è smesso di immaginare un futuro comune. Ripartire è possibile, ma solo dalla cultura. Dallo studio, dall’educazione, dalla parola. Dalla capacità di rimettere al centro il dialogo, la relazione, la memoria e la speranza. L’Europa ha bisogno di tornare a essere una comunità di destino, non solo un’alleanza di interessi».