L’11 giugno 1984, ad appena sessantadue anni, morì a Padova, a causa di un ictus cerebrale, Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci, e per l’addio confluì a Roma una massa enorme di donne e uomini, una rappresentanza significativa del popolo italiano, che accompagnò alla presenza di delegazioni politiche e istituzionali di tutto il mondo le sue spoglie per dargli l’estremo saluto.
Scrisse Pintor: «Sento quello che è successo come una tragedia politica. È come se quell’uomo integro, verso il quale ho sempre provato una istintiva amicizia che in qualche modo sentivo ricambiata, fosse caduto vittima d’uno sforzo troppo grande. Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così».
Ma il modo tragico in cui si concluse la sua esistenza non deve fare velo ad una franca discussione sul suo operato e sull’azione del Pci nella seconda metà del Novecento, e in particolare negli anni della sua segreteria.
Dopo la storica sconfitta del 18 aprile del 1948 fu ricostruita la Federazione Giovanile Comunista, nella quale Berlinguer ebbe un ruolo dirigente per quasi un decennio sempre sotto la supervisione di Togliatti, che, fino alla morte, avvenuta nel 1964, darà un’impronta fortissima alla politica del Pci.
Berlinguer, prima nella seconda metà degli Anni Cinquanta e poi a partire dal 1969, quando viene nominato vicesegretario con Luigi Longo segretario, compie il suo percorso in qualità di dirigente di primo piano del Pci; fu nel XIII congresso, quello di Milano (marzo 1972), che verrà eletto segretario generale e Longo diventerà il presidente del partito. Di fatto la segreteria di Berlinguer comincia dunque nel ’69 e si sviluppa a pieno titolo in continuità col togliattismo. Ancora: ciò che Berlinguer metterà in atto successivamente non avrà un significato di particolare innovazione, pensiamo soprattutto al “compromesso storico” proposto nell’autunno del ’73 dopo i tragici fatti cileni, bensì anch’esso si inscriverà nel solco del togliattismo e in particolare nel quadro della “crisi strategica” che attanaglierà il Pci dopo il ’56.
Ma cominciamo con ordine.
Il 1956 è per la storiografia un anno periodizzante, uno spartiacque tra i più importanti del Novecento. Perché viene definito così? Cosa rappresentò per l’Europa e per il mondo intero? Scrive Canfora:<< Innanzitutto nella storia del comunismo, per il quale è senza dubbio l’anno shock, che colpì tutti, i militanti, i simpatizzanti, gli avversari. In quell’anno si produssero due fatti memorabili, […] Il primo fu la celebrazione a Mosca del XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, durante il quale fu demolita, in sostanza, la figura di Stalin. Questo accadeva nel mese di febbraio. Poi, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, ci fu la rivoluzione ungherese, variamente giudicata e valutata dal punto di vista dei suoi fini e della sua dinamica, che comunque provocò la reazione militare, dopo una qualche esitazione, da parte dell’Unione Sovietica. […] Qualcheduno ritiene e sostiene che la decadenza del comunismo, come organizzazione e movimento politico, sia cominciata proprio in quell’anno. (Luciano Canfora, 1956 L’anno spartiacque, pp. 13-14-15-16, Sellerio, Palermo, 2008).
Quell’anno si tenne a Roma, dall’8 al 14 dicembre, l’VIII congresso del Partito comunista, in una fase, quindi, difficilissima dato che si svolgeva all’indomani dei gravi avvenimenti ungheresi e
anche perché si manifestò una dissidenza di intellettuali molto prestigiosi (dentro e fuori il partito). Ma l’VIII congresso del ’56 è storico perché squaderna le difficoltà strategiche del Pci rispetto al “caso italiano”. Infatti, la crisi del PCI risaliva alla metà degli anni Cinquanta quando, a seguito della fine del “centrismo” e del maturare della svolta del “centro-sinistra”, non fu più possibile per i comunisti il perseguimento della vecchia strategia “frontista”: di qui l’incapacità-impossibilità di sbloccare il “caso italiano” (separazione PSI-PCI negli anni del centro-sinistra, fallimento del “compromesso storico”, governo dell’astensione, uccisione di Moro, sconfitta alla FIAT, morte di Berlinguer).
Del resto, la tragica rottura tra Unione Sovietica e Cina, all’inizio degli anni ’60, segnalava le difficoltà e le contraddizioni del movimento comunista internazionale in una fase della storia mondiale che pure poneva di nuovo all’ordine del giorno il tema della lotta per il socialismo in Europa e nel mondo intero. Si pensi, a tal proposito, alla dura critica dei comunisti cinesi al Partito comunista italiano, formulata in due importanti opuscoli, Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi e Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Due scritti nei quali, sia pure in termini sintetici e in qualche parte con una impostazione dottrinaria, i comunisti cinesi coglievano alcuni limiti e contraddizioni della strategia e della tattica del PCI, ponendo con forza il tema della transizione al socialismo, contestando ai comunisti italiani di porre il tema degli obiettivi intermedi in modo da offuscare il fine strategico della rottura rivoluzionaria. Del resto, la critica che muovevano dentro il Pci molti che si collocheranno a sinistra era proprio quella di non aver compreso la novità del nuovo assetto del capitalismo italiano e dunque quale fosse negli anni Sessanta del XX secolo il famoso “blocco storico della rivoluzione italiana”, e quale tattica e quale strategia adottare per realizzare la rivoluzione in Occidente. Occorreva comprendere a fondo il cambio di fase degli anni a cavaliere tra i Cinquanta e i Sessanta perché la linea della difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse popolari ora bisognava coniugarla con l’opposizione al sistema capitalistico proiettato nella realizzazione di “una modernità”, comunque orientata in senso antioperaio. Ma per fare ciò il Pci avrebbe dovuto sintonizzarsi sullo scontro tra imperialismo e aree povere-paesi in via di sviluppo, e quindi porsi come problema non solo il recupero del ritardo rispetto alle aree e ai settori più sviluppati, ma la critica di quello stesso sviluppo, l’avvio di una transizione possibile: così come avveniva in diverse realtà del Terzo Mondo, ad esempio in Vietnam e a Cuba, e come facevano nelle “cittadelle imperialiste” i settori più avanzati che contestavano radicalmente il sistema capitalistico. Così si spiegava, peraltro, la straordinaria influenza politico-ideale che la figura di Che Guevara, la rivoluzione culturale cinese, la guerra vietnamita e altro ancora, esercitavano su grandi masse soprattutto giovanili – ma non solo – in Occidente: in qualche modo analoga, anche se minore, a quella esercitata sul proletariato europeo dalla Rivoluzione di Ottobre. Inoltre, il Pci nel ’68 si separerà dal movimento studentesco e dai settori giovanili più radicali, che si rivolgeranno ai gruppi marxisti-leninisti già esistenti o si organizzeranno in formazioni di nuovo tipo, ricevendone un danno irreparabile.
Berlinguer diventa segretario (Longo sarà il presidente) a marzo del 1972 in occasione del XIII congresso del Pci che si tiene a Milano in un clima sociale e politico incandescente. Infatti, l’apertura del congresso del Pci avviene all’indomani di durissimi scontri tra le organizzazioni antifasciste e i fascisti della “maggioranza silenziosa” e i lacrimogeni della polizia provocheranno la morte del pensionato Giuseppe Tavecchio. E in quel contesto drammatico si apprenderà della morte, per i gruppi della “nuova sinistra” fu una vera e propria uccisione, di Gian Giacomo Feltrinelli vittima di una gravissima provocazione; c’è da dire, inoltre, che il 3 marzo fu messo in
atto dalle “Brigate Rosse” il rapimento di un dirigente della Sit-Siemens, una delle prime azioni del terrorismo “rosso”, un’altra gravissima provocazione che Berlinguer sottolinea nell’intervento di chiusura al congresso. È dunque un Berlinguer molto preoccupato del pericolo che corre la democrazia, favorito dal modo di governare della Dc e sostenuto dall’atlantismo Nato, un sistema di potere che teorizza e applica, all’insegna dell’anticomunismo viscerale, la “conventio ad excludendum”.
È al XIII congresso che Berlinguer traccia le linee della strategia che sarà dominante negli anni successivi, soprattutto dopo il colpo di stato di Pinochet in Cile, e che si inscriverà pienamente nel solco del togliattismo. Dirà il neosegretario nella sua relazione: «In un paese come l’Italia, una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica. Di questa collaborazione l’unità della sinistra è condizione necessaria, ma non sufficiente. La natura della società e dello Stato italiano, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali, ma anche politiche e ideali (questione femminile, contadina, meridionale), la profondità delle radici del fascismo e quindi la grandiosità stessa dei problemi da fronteggiare e risolvere impongono una simile collaborazione». In questa esigenza di ‘collaborazione’ c’è l’aspirazione alla “comprensione reciproca” e il “reciproco riconoscimento dei valori” di cui parlava Togliatti nel discorso di Bergamo del 20 marzo 1963, ma si va oltre perché Berlinguer pensa ai cattolici – e dunque alla Dc – per uno sbocco immediato della crisi italiana attraverso un nuovo governo.
Nei primi anni Settanta l’Italia ha vissuto una condizione di scissione: da una parte lo sviluppo di grandi movimenti di massa e l’avanzata delle forze popolari tanto da poter immaginare la presa del potere, dall’altra pericoli seri per la democrazia storicamente determinata del nostro Paese messa in pericolo dalle stragi fasciste e dai tentativi golpisti orchestrati dagli ambienti atlantici. Dunque, sono stati anni splendidi e drammatici nello stesso tempo, che hanno tenuto insieme, solo per citare alcuni avvenimenti rilevanti, il riconoscimento della Cina all’ONU, l’avvio dell’Ostpolitik da parte di Willy Brandt, l’apertura della Conferenza di Helsinki, lo scoppio della prima grande questione energetica con la crisi petrolifera del 1973, il colpo di stato in Cile dell’11 settembre del 1973 e la fine del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, le guerre in Medio Oriente e la conseguente sconfitta del mondo arabo progressista ad opera di Israele, la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, la crisi dell’imperialismo americano, simboleggiata dalla sconfitta in Vietnam, la morte di Franco e l’inizio della fine del franchismo in Spagna, il golpe di Videla in Argentina, l’unificazione del Vietnam, la morte di Mao Zedong, gli accordi di Camp David, le quattro grandi modernizzazioni di Deng Xiaoping in Cina, la “rivoluzione islamica” in Iran, l’invasione sovietica in Afghanistan, il governo Thatcher in Gran Bretagna, il governo sandinista in Nicaragua, la presidenza Reagan negli Stati Uniti (novembre 1980). C’è stata anche, ad aggravare una condizione già critica, la decisione del presidente Nixon (1971) di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e di proteggersi con una sopratassa del 10% sulle importazioni.
L’Italia, paese già debole, è indebolito ulteriormente. Duro è lo scontro di classe: i padroni radicalizzano la loro posizione e accusano i lavoratori per “l’alto costo del lavoro”, la scala mobile, gli scioperi e tutto ciò che non consente loro accumulazione di profitto. A livello internazionale il punto alto dello scontro di classe è rappresentato dal Cile, dove nel 1970 ha vinto l’Unidad Popular cilena ed è diventato presidente il socialista Salvador Allende. Si tratta di un’esperienza inedita in un paese dell’America latina, considerata dal potente vicino statunitense il suo “cortile di casa” già nel 1823 in virtù della “dottrina Monroe”, comunque a rischio secondo gli yankee per la presenza dello stato socialista di Cuba. Inoltre, molti sottolineano le analogie, seppur in presenza di alcune significative differenze, tra il Cile e l’Italia, e fra questi c’è Berlinguer. Comunque, tutta la sinistra guarda con trepidazione, esprimendo un sentimento di fiducia ma al tempo stesso di timore per ciò che sta succedendo dall’altra parte del mondo.
Forti dell’appoggio dell’amministrazione Nixon, l’11 settembre del 1973 i militari, capeggiati dal generale Augusto Pinochet, abbatterono con un colpo di stato sanguinosissimo il governo di Allende, suicidatosi per non arrendersi al commando che invase il palazzo del governo, e instaurò una dittatura militare spietata e repressiva.

In Italia la situazione si presentava, per certi versi, in maniera diversa. Da quando era finita la Seconda guerra mondiale la Dc era diventata il perno del sistema di potere dominante ed ebbe l’obiettivo di ricostruire il paese su basi capitalistiche, peraltro con una forte dipendenza dalle istanze clerico-conservatrici del Vaticano e dagli interessi imperialistici statunitensi in Europa. Il Cile fece da detonatore alla vicenda italiana perché Berlinguer, analizzando i fatti cileni, sistematizzò la sua visione del “caso italiano” e la presentò agli iscritti, alle masse che votavano Pci e al paese intero attraverso la rivista ufficiale del partito, Rinascita, poche settimane dopo i drammatici avvenimenti cileni. Si trattava di un lungo saggio intitolato “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, che fu pubblicato in tre occasioni il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre del 1973, nel quale il segretario del Pci, esprimendo lo sgomento per lo strangolamento dell’esperienza di Unidad Popular, formulava una proposta organica di fuoriuscita dell’Italia dalla “democrazia bloccata” e dalla “conventio ad excludendum” e dare soluzione ai problemi drammatici che attanagliavano il paese da tempo. La frase di chiusura del saggio rappresentava il nocciolo della proposta:
«La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo “grande compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».
Per superare questo stato di cose, secondo il segretario del Pci bisognava insistere nella politica mondiale della “coesistenza pacifica” e della “distensione”, senza dimenticare a suo avviso << il peso negativo che esercitano sulla vita internazionale quelle divisioni fra i paesi socialisti che hanno il loro punto di massima serietà nei contrasti tra la Cina popolare e l’Unione Sovietica>>. E in aggiunta a quanto da noi evidenziato, fa capolino una posizione che intravede in prospettiva un ruolo autonomo dell’Europa, sganciata pertanto dai due blocchi, e di conseguenza la possibilità che, nell’affermazione di tale autonomia europea, i singoli paesi europei potessero scegliere la loro strada e per questo non bisognava porre il problema dell’uscita dell’Italia dalla Nato. Perciò Berlinguer propone di legare la lotta in Italia, dove occorreva respingere i tentativi reazionari di sovvertire il quadro democratico, con quella in Europa per indebolire le forze dell’imperialismo e poter realizzare l’aspirazione di gran parte dei popoli europei. Ed infatti sulla scia di questo assunto, un’Europa né antiamericana, né antisovietica, si comprende perché qualche anno dopo verrà formulata la proposta “dell’eurocomunismo” che, tra l’altro, si rivelerà fallimentare.
E poco tempo dopo, fece ancora più clamore un’intervista al “Corriere della Sera” realizzata da Giampaolo Pansa, che pose la questione della Nato. Pansa: «Insomma, il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà […]». Berlinguer: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono veri tentativi per limitare la nostra autonomia». Pansa: «Lei non crede che il socialismo nella libertà sia più realizzabile nel sistema occidentale che in quello orientale?» Berlinguer: «Sì, certo, il sistema occidentale offre meno vincoli. Però, stia attento. Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà […]». E a stretto giro di posta a “Tribuna politica” il solito Pansa gli pone la fatidica domanda sulla possibilità di realizzare il socialismo all’Ovest, sotto l’ombrello protettivo della Nato. Testuali parole di Berlinguer: «Mi pare che sia un po’ un paradosso dire che il Patto Atlantico difende quello che viene definito l’eurocomunismo. In quest’area del mondo in cui noi siamo e vogliamo restare, cioè nell’area dell’Europa occidentale, noi siamo consapevoli che esistono dei tentativi di interferire nella libera scelta del popolo italiano per costruirsi un proprio futuro. […] Ma pensiamo anche che per costruire il socialismo nella libertà sia più conveniente stare in quest’area. Questo ci garantisce un socialismo quale noi lo vogliamo, un socialismo di tipo pluralistico: ma naturalmente bisogna lottare concretamente, mobilitando le masse e tutti coloro che vogliono questo socialismo, perché si realizzi». Sarebbe facile infierire squadernando il fallimento della “via italiana al socialismo” e l’involuzione dello scenario mondiale a partire dal reaganismo e dalla conseguente sconfitta dell’URSS. Di più: l’impossibilità di sbloccare il quadro italiano puntando al compromesso, dato che produsse come massimo risultato “il governo delle astensioni” del quale il Pci non poté comunque far parte a motivo di potenti veti nazionali e internazionali; governo che accompagnò la fine di Moro e dal quale il Pci dovette prendere le distanze, costretto a formulare la proposta dell’Alternativa democratica e a darsi un profilo più battagliero. Per altro, la compiuta teorizzazione dell’abbandono della lotta di classe e del marxismo la socialdemocrazia tedesca l’aveva sostenuta alla fine dell’Ottocento, ma solo nel 1959 Willy Brandt al convegno di Bad Godesberg sentì giunto il momento di sbarazzarsi di alcuni principi che erano di “impaccio” all’attuazione di una società capitalistica con una spruzzatina di socialismo. Del resto, il momento della decantazione è prima o poi inevitabile: nel Pci le teorizzazioni socialdemocratiche erano cominciate nel ’56 e quasi vent’anni dopo arrivarono alle conclusioni, peraltro peggiorative rispetto ai primi esponenti della socialdemocrazia come Bernestein, Hilferding e Kautsky.
Non è chi non vede, dunque, il fallimento della strategia del Pci e di Berlinguer che negli ultimi anni della sua segreteria, forse, si rese conto del cul-de-sac nel quale si era cacciato, perché erano venuti al pettine i nodi strategici del partito, nodi che lui stesso, in una certa misura, aveva determinato: una sconfitta provocata dall’incapacità di pensare e attuare la “rivoluzione in Occidente”, peraltro il principale problema posto da Gramsci nella sua riflessione teorico-pratica; l’insufficienza dell’analisi della realtà oggettiva, esaminandola per quello che è e non per quello che noi vorremmo che fosse (Machiavelli «Ma, sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» Il Principe, capitolo XV); e poi una inadeguatezza soggettiva, espressione dei gruppi dirigenti che si sono succeduti soprattutto da quando fu ideata la “via italiana al socialismo”.
Le elezioni del 1976 avrebbero dovuto sancire la svolta preconizzata dal Pci e, al tempo stesso, per la “nuova sinistra” decretare la fine del regime democristiano. Né l’uno, né l’altro auspicio si avverò. La Dc ottenne, invece, il 37,8% e la distanza sul Pci, che l’anno prima, alle amministrative, s’era accorciata a meno di due punti (1,8), superava ora i quattro punti (4,3%). Questa, comunque, la novità: dopo trent’anni la Dc non era nella condizione di formare governi centristi (Pli, Pri, Psdi, Dc, arrivavano al 46,5%). A sua volta il Pci era ancora cresciuto (34,4%), in parte a scapito del Psi (9,6): mandò alla Camera 48 deputati in più nel momento in cui tutti gli altri si indebolivano (diminuiti di 1 i repubblicani, di 3 la Dc, di 4 i socialisti, di 14 il Psdi, di 15 il Pli, di 21 il Msi); ma diversamente dal giugno ’75, quando poté tradurre immediatamente i maggiori suffragi in una nuova rafforzata influenza nel governo degli enti locali, ora aveva in pratica un titolo di credito non esigibile automaticamente. Si formò un monocolore Dc, espressione della formula dei governi di “solidarietà nazionale”: fu così varato, nell’agosto del 1976, un governo Andreotti, che si reggeva sull’astensione di Pci e Psi, che, in contropartita, vennero consultati per la stesura del programma (!). I limiti di questa politica erano evidenti e risaltarono ancor di più per la prassi spartitoria e l’incipiente democrazia dal basso fu rapidamente sostituita dagli accordi interpartitici che produssero compromessi al ribasso sui contenuti, lottizzazione, clientelismo e quella struttura particolare di compartecipazione alle responsabilità di governo nota come “consociativismo”. Questo governo della non sfiducia e delle astensioni, altrimenti detto della non opposizione (certo i giochi linguistici non risolvevano l’impasse del Pci), è la soglia, fanno intendere Moro e Zaccagnini, dove, anche per condizionamenti esterni, è inevitabile arrestarsi. E il Pci accetta. Del resto, a spazzare qualsiasi illusione sulla partecipazione organica del partito di Berlinguer al governo del paese ci pensano i potenti protettori internazionali della stessa Dc. Qualche giorno dopo le elezioni, a San Juan di Portorico si riuniscono capi di Stato e di governo dei sette paesi più industrializzati dell’area capitalistica: USA, Giappone, Germania federale, Francia, Gran Bretagna, Canada e Italia (rappresentata da Moro, Rumor e Colombo). Dell’Italia si parla in una riunione a porte chiuse alla quale partecipa, fra gli altri, il segretario di stato USA Henry Kissinger che minaccia, come racconta Giuseppe Fiori nel suo libro “Vita di Enrico Berlinguer>>: << […] l’isolamento dell’Italia e la sospensione di qualsiasi prestito internazionale se nel governo entreranno i comunisti. […] Già non incline ai passi lunghi, Moro si fa ancora più cauto.>>
Nel marzo 1978, infine, sempre Andreotti costituì un governo di solidarietà nazionale che godeva del voto favorevole del Pci e dei partiti di centro-sinistra. Ma proprio nel giorno in cui il nuovo governo doveva ottenere la fiducia delle Camere (16 marzo 1978), le BR rapirono Moro e uccisero gli uomini della sua scorta; e dopo 55 giorni lo uccisero e fecero ritrovare il corpo in via Caetani, una strada di Roma che collega via Delle Botteghe Oscure (sede del Pci) e piazza Del Gesù (sede della Dc). Si trattò di uno dei passaggi più drammatici della storia repubblicana, per molti finì quel giorno la Prima Repubblica, che sconcertò e sconvolse l’intero paese; dal punto di vista politico la vicenda indebolì irrimediabilmente l’azione di chi auspicava una partecipazione del Pci al governo e portò in breve tempo all’esaurimento dell’esperienza di “solidarietà nazionale”.
Il governo Andreotti finirà la sua corsa il 31 gennaio dell’anno successivo, quando si dimetterà e la crisi causerà ancora elezioni politiche anticipate – era la terza volta in sette anni: ’72, ’76, ’79 – e il Pci prima della tornata elettorale terrà il suo XV congresso. E anche se il dibattito vero rimase nascosto, si coglieva che nel partito c’era uno scontro duro come non succedeva da tempo.
Tutta la strategia viene messa in discussione e, seppur non esplicitamente, il “compromesso storico” è abbandonato; peraltro, anche la linea verso il Psi risulta motivo di contrasto visto che una componente significativa ritiene che Craxi e il gruppo dirigente socialista si muova nel solco di un anticomunismo da anni Cinquanta, degno delle forze più integraliste e conservatrici.
Alle elezioni si arriva in un clima segnato dal terrorismo e dalle provocazioni di alcuni settori degli apparati statali che rendono ancora più drammatiche le scelte del Pci: decine di morti e feriti nei mesi che precedono il voto. Rispetto al 1976 il Pci fa registrare un forte calo: passa dal 34,4% al 30,4% e perde quasi un milione e mezzo di elettori (1.475.419); è un’emorragia di voti, che riguarda soprattutto il mondo giovanile e rappresenta la critica concreta alla linea del compromesso e dell’accettazione dei sacrifici a vantaggio del sistema dominante imperniato sulla Dc. Di fatto l’alternativa democratica rappresenta una significativa novità rispetto al compromesso storico, ma al tempo stesso è la prova evidente, l’ennesima, delle difficoltà strategiche del Pci a proposito della transizione al socialismo e della rivoluzione in Occidente. Ormai con la Dc i rapporti diventano sempre più conflittuali, né si può sperare di poter recuperare il Psi ad una politica di alternativa visto che dal ’76 il segretario è Craxi: il quadro di inizio anni Ottanta resterà lo stesso fino alla morte di Berlinguer (1984). Peraltro, non aiuta a sbloccare la democrazia italiana, dove continua a valere la “conventio ad excludendum”, ciò che sta accadendo a livello internazionale: le vittorie del thachterismo e del reaganismo sono il segno irrefutabile di una svolta ultraconservatrice che segnerà la fase storica e si chiuderà con la sconfitta dell’URSS.
Nel settembre del 1980, poco più di un mese prima c’era stata la terribile strage alla stazione di Bologna che aveva provocato 85 morti e centinaia di feriti; e sempre quell’anno, Berlinguer, nel tentativo di dare forza alla sua proposta di Alternativa democratica, era andato a parlare davanti ai cancelli della FIAT. Ma subito giunge la sassata di Craxi: il presidente del consiglio presenta alle parti sociali una proposta ultimativa: un taglio di tre sui dieci punti della scala mobile previsti per il 1984 offrendo in cambio ben poca cosa. I consigli di fabbrica insorgono, ma solo la Cgil raccoglie la protesta (Cisl e Uil sono filogovernative), pur dividendosi tra componenti comunista (maggioritaria) e socialista (minoritaria). Craxi lancia comunque la sfida e taglia d’autorità, per decreto, la scala mobile nella notte di S. Valentino (14-15 febbraio 1984). Immediatamente scioperi e cortei spontanei da Nord a Sud e battaglia in Parlamento; il 24 marzo i consigli di fabbrica promuovono a Roma una manifestazione che assume dimensioni oceaniche e che ha soprattutto un obiettivo: cacciare Craxi e il suo governo antipopolare. I socialisti, peraltro, poco tempo dopo nel congresso farsa di Verona (!), organizzato per glorificare il loro capo accolgono in modo volgare Berlinguer come si comprende bene dal racconto che Pansa ne fa su “Repubblica” :«Venduto! Buffone! […] Sce-mo, sce-mo!». Craxi commenterà: «Se sapessi fischiare, l’avrei fatto anch’io».
Nelle settimane successive lo scontro con il governo antipopolare di Craxi si fa sempre più duro e porterà il Pci, questa volta d’accordo le forze alla sua sinistra, alla richiesta di abrogazione della legge attraverso un referendum che si terrà l’anno dopo e farà registrare la sconfitta delle opposizioni di sinistra, anche perché una parte del Pci remerà contro.
Ma prima di concludere la mia riflessione vorrei richiamare il tema della “questione morale”, una di quelle che probabilmente stavano più a cuore al segretario del Pci. In un’intervista a l’Unità dopo il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980) Berlinguer dice che non si può non porre la questione morale, come problema che non riguarda solo le persone, né può essere intesa come una richiesta di messa al bando di un partito che ha radici profonde nella società, ma che comporta la liquidazione del suo sistema di potere. A suo avviso, era diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipendeva la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico (peraltro l’anno dopo, il 1981, scoppierà lo scandalo della P2 che coinvolgerà gran parte della società politica e della società civile e come dirà Stefano Rodotà:<< […] non può non colpire l’enunciazione di un programma politico-istituzionale che nella diagnosi – superamento storico della Costituzione del ‘48 – e nella terapia – fondata sul presidenzialismo – segue tratti analoghi a quelli seguiti da partiti non occulti>>. Anche a questo proposito vi è un errore teorico-pratico di Berlinguer poiché antepone il piano etico a quello materiale, potremmo dire la sovrastruttura alla struttura.
L’ultimo discorso lo tiene a Padova il 7 giugno, dove chiede “Un voto per porre fine allo sfascio e risanare la vita della Repubblica”. Da tempo sta male e quella sera è molto provato. Verso la fine del comizio, come raccontano i testimoni, le parole gli si spezzano in bocca, vacilla, il maxischermo dietro il palco ingrandisce una faccia stravolta per le smorfie di dolore. Lunedì 11 giugno, alle 12:45, muore. Più di un milione di persone parteciperanno ai funerali, in molti tenendo alto il titolo de l’Unità “Addio”.