L’8 maggio2025, ottant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’elezione di papa Leone XIV ci fa ri-scoprire la grandissima figura di sant’Agostino. «Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te» (Le Confessioni, I,1,1). Parole-chiave del pensiero di Agostino, di sant’Agostino.
Agostino – ci insegna Peter Brown, professore emerito di Storia alla Princeton University – visse in un’età di rapidi e drammatici mutamenti, ma mutuò continuamente egli stesso. Attraverso la sua vita, gli storici della decadenza dell’Impero romano, possono seguire quegli stessi sviluppi che avrebbero condotto lo scolaretto Agostino, da Tagaste, dove nasce nel 354, una provincia allora sicura dell’Impero romano, dove si commuoveva sulla storia di Enea e Didone, a terminare la sua vita, nel 430, come vescovo di una Ippona, una città marittima nordafricana assediata dalle soldatesche dei Vandali di Genserico.
Dell’insegnante Agostino, filosofo, teologo, vescovo, uno dei Padri della Chiesa (Doctor Graziae) ne parliamo con il professore Pasquale Vitale, docente di ruolo di Storia e Filosofia al Liceo classico «Domenico Cirillo» di Aversa, cultore di Storia della filosofia antica, autore di un innovativo manuale di filosofia medioevale (Filosofia medievale. Storie, opere e concetti edito da Diarkos) e giornalista pubblicista.
D.: In Agostino fede e ragione non si contrappongono ma si fondono armoniosamente. La ragione è la via alla fede e la fede invera la ragione. La scoperta principale del pensiero di Agostino è che la fede è essenzialmente ricerca. La fede richiede continuamente la ragione. Cosa della figura e del pensiero di Agostino attrae ancora oggi? Agostino è stato ed è uno degli autori più letti da Dante, Petrarca, Borges. Cosa può insegnare oggi l’insegnante di Tagaste ad un giovane che inizia a studiare la filosofia?
R.: La figura di Agostino continua ad attrarre oggi perché incarna una ricerca inquieta della verità, profondamente umana. È il filosofo che non parla da una cattedra astratta, ma da un’anima che ha conosciuto il dubbio, il desiderio, l’errore e infine la grazia. Agostino non è solo un pensatore, ma un uomo che racconta sé stesso con tale intensità che il lettore moderno si ritrova coinvolto nella sua esperienza. Non è un caso che Dante, Petrarca e persino Borges l’abbiano amato e letto con passione: ciascuno vi ha trovato un interlocutore spirituale, un compagno di viaggio nella ricerca del senso. Agostino ha scritto pagine di filosofia, ma anche di poesia, teologia, antropologia e psicologia prima ancora che queste discipline avessero un nome preciso. È lo scrittore dell’«inquietum cor», del cuore inquieto che non trova pace finché non riposa in Dio: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». (Confessiones, I, 1)
Nel mondo secolarizzato di oggi, questa inquietudine può essere riletta anche come il desiderio mai sazio di autenticità. In un’epoca in cui tutto sembra consumarsi in superficie, Agostino è un invito a scendere in profondità. Cosa può insegnare, dunque, oggi l’insegnante di Tagaste a un giovane che si avvicina per la prima volta alla filosofia? Anzitutto, a non accontentarsi delle risposte facili, dei pensieri precotti. Agostino insegna che si può cercare Dio, il senso della vita, con la stessa passione con cui si cerca se stessi. E ci ricorda che la verità non è fuori di noi, ma dentro di noi, e va cercata con coraggio: «Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas.» (De vera religione, 39, 72).
Questa è forse una delle citazioni più amate da me e dai miei studenti. Perché è diretta, semplice e profonda. È un invito a non vivere distratti, a non lasciare che la vita passi senza essere interrogata. Insegna anche che la filosofia non è un discorso freddo o tecnico, ma vita pensata, passione che diventa ragione, ragione che si lascia accendere dal desiderio di bene.
E ci insegna, ancora, che la fragilità non è un ostacolo al pensiero, ma la sua condizione originaria. Agostino non ha paura di raccontare le sue debolezze, i suoi fallimenti, le sue illusioni: «Ero divenuto per me stesso un grande enigma» (Confessiones, IV, 4)
Questa confessione parla a ogni adolescente, a ogni giovane che si scopre confuso, diviso, in ricerca. Agostino non giudica, ma accompagna. Non predica dall’alto, ma condivide dal fondo un’esperienza che tutti, prima o poi, attraversano.
Nel presentarlo in classe, non mi limito mai a spiegare le sue teorie: racconto la sua vita come una narrazione filosofica. Lo mostro come un ragazzo assetato di verità, amante delle parole e della retorica, che attraversa la vanità e l’ambizione per poi approdare a qualcosa di più grande. Quando leggiamo il passo del giardino di Milano, dove sente la voce infantile dire tolle lege, e apre la Scrittura come risposta al suo travaglio interiore, gli studenti restano in silenzio. Perché capiscono che qui la filosofia è ascolto.
E infine, c’è una domanda che ripeto spesso in classe, citando Agostino: «Quid enim sum ego mihi sine te, nisi dux in precipitum?» («Cosa sono io per me stesso senza di te, se non una guida verso il precipizio?») (Confessiones, IV, 1)
È una domanda che ciascuno può fare propria. Perché Agostino ci insegna a interrogarci non solo sul che cosa, ma sul chi siamo. E finché ci saranno giovani che si pongono questa domanda, Agostino non smetterà mai di parlare
D.: Agostino nella, sulla scrittura compie un lavoro che implica relazioni con sè stesso e con gli altri. Quanto l’autore delle Confessioni può aiutarci a scoprire la scrittura come uno strumento che costruisce conoscenza?
R.: Domanda bellissima, che tocca un nodo essenziale: scrivere non è solo comunicare, ma pensare, e Agostino lo sa meglio di chiunque altro. Come docente che si occupa di filosofia medievale, posso dire che nessun autore come Agostino ha mostrato quanto la scrittura sia uno strumento vivo per costruire conoscenza di sé, del mondo e di Dio. Lo dico spesso ai miei studenti: le Confessioni non sono un libro scritto perché Agostino sa già tutto, ma perché ha bisogno di capire scrivendo. È un’opera in cui la conoscenza nasce nello stesso momento in cui le parole vengono tracciate, con tutta l’emozione, il timore e lo stupore che questo comporta. Non scrive per insegnare, scrive per cercare: «Confiteor tibi, Domine, lector meus est amicus meus» («Ti confesso, o Signore, che il mio lettore è anche il mio amico») (Confessiones, X, 4)

Questa frase la leggo sempre ad alta voce in classe. È come se Agostino dicesse al lettore: «Stai leggendo ciò che io stesso sto cercando di capire». È un invito alla scrittura come dialogo, come costruzione condivisa del senso. Ecco perché le Confessioni non sono semplici memorie: sono un atto filosofico, un laboratorio spirituale dove l’autore si costruisce mentre scrive.
In classe, propongo spesso un esercizio agostiniano: chiedo agli studenti di scrivere una pagina in cui parlano a Dio o a sé stessi, in forma di confessione, su una questione esistenziale che li riguarda. Non è un compito “religioso”, ma filosofico-esistenziale. La sorpresa è che molti, scrivendo, si accorgono di pensare in modo nuovo. Capiscono che la scrittura non serve solo a fissare un pensiero, ma spesso a farlo nascere.
Agostino lo dice in modo limpido: «Et ecce erupit ex me scriptio mea, cum idipsum agnoscerem et confiterer tibi» («Ed ecco che sgorgò da me la mia scrittura, mentre riconoscevo e confessavo a te ciò che ero») (Confessiones, II, 7)
È un’esperienza che ogni scrittore autentico conosce: si scrive non perché si sa, ma perché si desidera sapere meglio ciò che si vive.
Ricordo un momento, in una terza liceo, quando una studentessa mi disse:
«Professore, quando ho scritto la mia ‘confessione’ mi sono accorta che non sapevo davvero come stavo… finché non l’ho scritto».
Ecco, Agostino insegna proprio questo: che la scrittura è uno specchio che non riflette passivamente, ma rivela, trasforma. Scrivere – per lui come per noi – è una via di conoscenza interiore. Non a caso, tutta la sua filosofia parte dall’introspezione, da quel rientrare in sé stesso per trovare la verità: «Et intro ibam me ipsum duce te…» («E rientravo in me stesso, guidato da te…») (Confessiones, X, 27)
Agostino ci mostra che la scrittura filosofica non è mai solo esposizione, ma movimento dell’anima, che si mette in cammino verso la verità. E questo, oggi più che mai, può aiutare i ragazzi a dare forma ai propri pensieri, a uscire dal rumore confuso del mondo digitale, per ritrovare una voce interiore che pensa, cerca, spera.
In un’epoca di slogan e velocità, Agostino ci insegna a rallentare, a scrivere per capire, a pensare scrivendo. E questo, per chi studia filosofia oggi, è una lezione che vale più di mille definizioni.
D.: Agostino, a torto o ragione, è da considerarsi uno dei padri dell’Europa. L’Occidente deve metà del suo cuore a Le Confessioni di sant’Agostino. La storia di una vita, di un’anima, di due culture. Quanto pesa quest’opera oggi tra i banchi della scuola e dell’università? Qual è stato il tuo rapporto con le Confessioni di sant’Agostino?
R.: Le Confessioni di sant’Agostino pesano ancora moltissimo, oggi, tra i banchi di scuola e dell’università. Ma è un peso leggero, come quello delle cose che ti cambiano senza gridare. Non sono un testo da “spiegare” soltanto, sono un’esperienza da far accadere, da far respirare, pagina dopo pagina. Quando entri nelle Confessioni, non sei davanti a un autore, sei davanti a un uomo che si mette a nudo. E in un tempo in cui tutto sembra costruito, filtrato, calcolato, questa nudità dell’anima è disarmante e potentissima.
Lo vedo ogni anno nei miei studenti: all’inizio c’è un po’ di resistenza. «Un testo antico, in latino, religioso… cosa ci troverò mai?», pensano. Ma basta leggere insieme i primi paragrafi per veder cambiare i loro occhi. Perché Agostino, come tutti i grandi, non parla a un’epoca, parla all’uomo. E i ragazzi, quando gli lasci spazio, questo lo sentono subito.
«Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». (Confessiones, I, 1)
Questa frase — che spesso faccio copiare a mano all’inizio del lavoro sul testo — è una chiave d’accesso all’interiorità. Li invito a non leggerla solo come frase religiosa. Chiedo loro: «Cosa c’è nel vostro cuore che ancora non ha trovato pace? Che cos’è che cercate, che vi inquieta, che vi tiene svegli o vi fa tremare, anche se non lo dite a nessuno?». Ed è lì che le Confessioni iniziano a pesare davvero. Perché non offrono risposte facili, ma spalancano domande vere.
Il mio rapporto con le Confessioni?
Posso dirtelo con sincerità: non ho letto Agostino, all’inizio è stato lui a leggere me.
Ricordo benissimo la prima volta che ho incontrato il suo testo: ero studente universitario, e come tanti pensavo che la filosofia si misurasse solo su concetti, argomentazioni, logiche stringenti. Poi ho aperto Confessiones, libro decimo. Agostino scrive:
«Et quid est hoc? Miserere mei, ut loquar. Quid sum ego, Deus meus? Quis ego sum?» («Che cosa sono io, Dio mio? Chi sono io?») (Confessiones, X, 17)

Quella domanda mi ha fulminato. Non perché fosse nuova — me la facevo anch’io — ma perché era detta con verità, con fame, con lacrime. E per la prima volta capivo che la filosofia non era solo qualcosa da imparare, ma qualcosa che ti scava dentro, che ti obbliga a fermarti, a rispondere con la vita. Da allora, Agostino è diventato per me una guida, non un autore. Un amico difficile, a volte severo, ma mai distante. Ho imparato da lui che la scrittura è uno spazio in cui pensare e vivere si toccano. Lo ricordo quando lui stesso scrive:
«Tu eras interior intimo meo et superior summo meo» («Tu eri più intimo di me a me stesso, più alto della mia parte più alta») (Confessiones, III, 6)
Quando rileggo queste parole in classe, si crea spesso un silenzio particolare. Lo chiamo il silenzio agostiniano: quello in cui non sai se stai leggendo un autore o ascoltando te stesso. Ed è proprio lì che le Confessioni fanno il loro lavoro, oggi come ieri: ti portano a fare verità, senza giudicarti, ma senza lasciarti com’eri.
E all’università?
Le Confessioni sono ancora un testo imprescindibile per chi si occupa di filosofia, teologia, letteratura, psicologia. Ma a mio avviso, non sono un testo da studiare in modo accademico, almeno non solo. Vanno lette come si legge un diario, o meglio ancora, come una preghiera, anche se non si crede. Perché sono il racconto di una trasformazione, e tutti, prima o poi, attraversiamo un cambiamento che chiede parole vere per essere pensato
D: Infine, un tema caro ad Agostino è il male. Come la sua figura ci può aiutare a vivere e a superare i mali che accompagnano le nostre esistenze?
R.: Hai toccato il cuore di Agostino. Perché sì, il male è uno dei suoi temi più profondi, più laceranti, più umani. E lo dico non solo come docente, ma come uomo: Agostino mi ha insegnato che non si può riflettere davvero sul male se non lo si è incontrato, se non ci si è passati dentro. Non come spettatori, ma come protagonisti, come vittime, come complici.
Quando affronto questo tema in classe, chiedo sempre ai miei studenti di cominciare da una domanda semplice, spiazzante: «Cos’è il male per te?» E poi subito dopo: «Da dove viene il male?»
Non cerco risposte tecniche, ma esperienze. Ed è lì che Agostino entra in punta di piedi. Non impone definizioni, condivide il suo dramma.
«Et ego quid eram, miser ego? quid non feci in actione, quid non feci in locutione, quid non feci in sensu meo immundo?» («E io cosa ero, io misero? Cosa non ho fatto con le mie azioni, con le mie parole, con i miei sensi impuri?» (Confessiones, II, 7)
Agostino non teorizza il male da lontano. Lo ha vissuto. Ne ha conosciuto il fascino e la vergogna. Ha rubato da ragazzo i famosi fichi — e non per fame, ma per il gusto di fare il male. Lo racconta con un’onestà che ancora oggi ci spiazza, perché ci costringe a guardarci allo specchio:
«Amavi perire, amavi defectum meum, non id quod ad quod deficiebam, sed defectum ipsum amavi» («Ho amato la mia rovina, ho amato il mio difetto, non ciò verso cui cadevo, ma la caduta stessa ho amato») (Confessioni, II, 4)
Quando lessi queste parole per la prima volta — ero all’inizio del mio percorso universitario mi sentii visto, trafitto. Avevo vissuto anch’io periodi più cupi. E Agostino mi diceva: «Non sei solo. Ci sono passato anch’io».
Ma allora… da dove viene il male? La grande intuizione di Agostino è che il male non ha una sostanza propria. Non è un “qualcosa” di creato, ma una privazione del bene. Il male è «privatio boni». È mancanza, disordine, allontanamento da ciò che è pieno e luminoso. Questa visione, così controintuitiva, mi ha aiutato enormemente nei momenti più difficili della mia vita: capire che il male non è una forza equivalente al bene, ma un’ombra, una deviazione, una perdita di senso, mi ha liberato da tanti pensieri cupi.
Non a caso Agostino scrive: «Omnia quae sunt, bona sunt. Malum autem non est substantia» («Tutte le cose che esistono sono buone. Il male, però, non è una sostanza») (Enchiridion, 4)
Questa idea non è una consolazione astratta. È una luce, anche nei momenti più bui. Quando la vita ti colpisce – una perdita, un dolore, un’ingiustizia -Agostino non ti dice: “Va tutto bene.” Ti dice: “Resisti. C’è un ordine profondo, anche se ora non lo vedi. Il male non vince, perché non è fondato sull’essere.”
Come ci aiuta Agostino, oggi?
Ci aiuta a non disperare. A capire che anche dal male può nascere un bene più grande. La sua vita ne è la prova: ha conosciuto errori, lutti, smarrimenti, e da tutto questo non ha tratto cinismo, ma desiderio di luce. Ci insegna che il male non si supera con l’indifferenza o con il rancore, ma con la verità e con l’amore ordinato, quello che mette ogni cosa al suo posto.
Ricordo una volta, in una quarta liceo (perché io faccio studiare filosofia medievale anche in quarta e per tutto l’anno), un ragazzo mi disse dopo aver letto un passo delle Confessioni:
«Prof, Agostino è uno che ha fatto un casino della sua vita. È per questo che mi piace».
Ecco, è proprio per questo che Agostino ci aiuta a vivere. Perché non ci illude. Non ci offre un mondo senza male. Ma ci insegna che anche nel male possiamo cercare un senso, una redenzione, un cammino. Agostino non cancella il male, ma lo attraversa. E ci invita a fare lo stesso. Con lucidità, con fede, con quella speranza inquieta che lo ha portato a scrivere pagine che ancora oggi ci parlano come se fossero state scritte ieri.
E quando tutto sembra perduto, risuona ancora quella frase, semplice e potente:
«Tarde te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, tarde te amavi» («Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato»). (Confessioni, X, 27)
Ma non è mai troppo tardi per ricominciare.