C’è ancora spazio per la speranza e per un cambiamento. La consapevolezza sta crescendo, i primi segnali di reazione ci sono. Alcune scuole, famiglie, istituzioni iniziano a ripensare i modelli educativi e relazionali. È un lavoro lento, ma possibile. Dobbiamo imparare a vivere nel digitale senza esserne dominati. Restituire centralità al pensiero critico, al dialogo, alla moderazione
Negli ultimi vent’anni, il nostro rapporto con la tecnologia ha prodotto una trasformazione radicale nel modo di costruire il futuro e, soprattutto, nel modo in cui i più giovani lo immaginano. Dove prima si sognava di volare nello spazio, oggi si aspira a diventare virali sui social.
L’articolo di Riccardo Luna, pubblicato su Il Corriere della Sera, dal titolo: “Da astronauta a influencer: cosa è andato storto nel sogno di futuro dei nostri figli”, offre un’analisi lucida e coraggiosa di questa mutazione culturale, mettendo in luce come i social media abbiano progressivamente sostituito l’orizzonte collettivo con una moltitudine di specchi narcisistici. A partire da questa riflessione, è possibile indagare da un punto di vista sociologico le ragioni profonde di questo cambiamento e i rischi che esso comporta, non solo per le giovani generazioni, ma per l’intera tenuta della nostra coesione sociale.
“In questi venti anni di vita social ci siamo persi per strada un’idea condivisa di futuro”, scrive Luna. E il prezzo più alto lo stanno pagando proprio i più giovani, cresciuti in un mondo in cui la connessione digitale non è un complemento, ma una dimensione esistenziale primaria. I dati parlano chiaro: per molti adolescenti non vi è più distinzione tra online e offline. Il digitale non è un altrove, ma il luogo in cui si costruisce identità, relazioni, aspettative.
Come spiego nel mio libro Figli delle App, la logica social è fondata su alcuni pilastri culturali ormai dominanti: vetrinizzazione, iperconnessione e polarizzazione. I social sono il luogo per eccellenza dove gli altri, attraverso il loro gradimento, ci ridefiniscono. La visibilità, l’esposizione costante e la ricerca del consenso diventano strumenti per esistere. È in questo contesto che il corpo si trasforma in prodotto di consumo, rispondendo agli standard imposti dalla società digitale. Il corpo viene esibito e c’è anche chi sceglie di monetizzare attraverso il proprio corpo, trasformandolo in merce da vendere nello scaffale infinito dello scroll.
Nel testo di Luna emerge una critica puntuale alla complicità delle piattaforme. “Sapevano dei danni che stavano procurando o che rischiavano di provocare e non si sono fermate. Hanno sempre scelto i soldi”. A dimostrarlo non sono solo le opinioni, ma una mole crescente di studi scientifici, denunce e processi in corso. Il caso simbolo è quello della città di New York, che il 14 febbraio 2024 ha deciso di portare in tribunale le Big Tech “per i danni inflitti alla salute mentale dei giovani”. Non è un attacco alla tecnologia, ma una presa d’atto: l’algoritmo ha un impatto reale sulla psiche e sui comportamenti.
La perdita della capacità di concentrazione, la crisi dell’apprendimento, l’ansia e la depressione dilaganti tra gli adolescenti sono la punta dell’iceberg di una trasformazione più profonda. Come ha spiegato Miguel Benasayag, “i problemi di apprendimento sono rivelatori di una difficoltà di desiderare la vita”. Se i nostri figli non sognano più di diventare astronauti è perché è il desiderio stesso ad essere stato indirizzato altrove.
La realtà, spiega Luna, “è diventata un presente continuo che annulla passato e futuro”, e questo presente è dominato dal mito dell’influencer: successo facile, visibilità immediata, narrazione di sé priva di profondità.
La scuola, in questo contesto, si è spesso mostrata incapace di reagire. Luna evidenzia che nei paesi dove la scuola ha saputo riformarsi – come la Finlandia – i dati sulle competenze, la felicità e la salute mentale sono in controtendenza. Di fatto, “quando in Finlandia quando hanno visto arrivare il terremoto causato dai social network, hanno costruito degli edifici antisismici”.
Intanto, le dinamiche relazionali dei ragazzi sono sempre più mediate da schermi e like. La rappresentazione di sé sui social – come ho analizzato nelle mie ricerche – si è trasformata in un susseguirsi di eventi pubblici che creano uno scollamento tra ciò che si è e ciò che si rappresenta. La mediatizzazione dell’identità ha favorito la nascita di un’identità iperfluida, instabile, continuamente plasmata dal gradimento altrui. Come sosteneva Castells già nel 1996, i social sono il luogo dell’autocomunicazione di massa, dove ogni individuo costruisce una narrazione di sé per ottenere visibilità e legittimazione.
Questa costruzione identitaria si regge sulla logica dell’emozione estrema, della gratificazione immediata, dell’appartenenza a uno “sciame digitale” (per dirla con Byung-Chul Han) pronto a spostarsi da un’emozione all’altra. È un tempo senza prospettive, in cui il presente si consuma e si dimentica con la velocità di uno swipe. Non stupisce, allora, che per tanti ragazzi il futuro non sia più un orizzonte da costruire, ma un algoritmo da cavalcare.
Nel descrivere la differenza tra TikTok e la sua versione cinese, Luna ci propone una chiave interpretativa inquietante e lucida. In Cina, l’algoritmo “è bloccato in determinati orari” e punta a contenuti educativi. In Occidente, “offre i contenuti peggiori possibili, soprattutto ai giovani, per spingerli a interagire”. E così, “se chiedi ai bambini cinesi qual è il loro sogno rispondono: essere un astronauta. Se lo chiedi ai nostri figli la risposta è: essere un influencer”. Questo dato dovrebbe farci molto riflettere.
Siamo immersi in un ecosistema comunicativo dove tutto è istantaneo, spettacolarizzato, semplificato. Dove la complessità è vista come un ostacolo e non come una risorsa. Ma proprio perché siamo consapevoli di questo scenario, è necessario – e possibile – ripensare il senso del nostro cammino collettivo. Non per tornare indietro, come sottolinea giustamente Luna, ma per scegliere con responsabilità e consapevolezza che tipo di umanità vogliamo diventare.
C’è ancora spazio per la speranza e per un cambiamento. La consapevolezza sta crescendo, i primi segnali di reazione ci sono. Alcune scuole, famiglie, istituzioni iniziano a ripensare i modelli educativi e relazionali. È un lavoro lento, ma possibile. Dobbiamo imparare a vivere nel digitale senza esserne dominati. Restituire centralità al pensiero critico, al dialogo, alla moderazione. Ricostruire un’idea condivisa del domani, in cui i giovani possano tornare a desiderare, non solo a esibire. Il mondo che realizzeremo non è un algoritmo. È un’idea che possiamo ancora scegliere di coltivare insieme.