In un’epoca in cui il narcisismo regna sovrano, ciò che conta non sembra più essere ma appartenere. Il senso del “noi”, le dinamiche di una collettività complessa, ricca di intrecci e necessità, ha ceduto il passo all’elogio della mitomania e all’esaltazione dell’io davanti a tutto e tutti. Il processo non è sempre esplicito, bisogna allenare l’occhio a cogliere certe ombre, ma è un meccanismo che funziona in modo similare in tutti gli ambiti.
La prima domanda è: perché?
Questi sono gli anni del grande vuoto, una paralisi emotiva e culturale che ha afflitto tutto il mondo sviluppato e che ha completamente sradicato ogni tipo di credenza e di lente ideologica dalla società. Per non parlare della scomparsa degli ideali, caduti di fronte al nichilismo imperante e alla dittatura del risultato, assassino della morale.
Stiamo parlando della peggior pandemia sviluppatasi in occidente da ben prima del Covid-19.
In questo quadro di grigiore, infatti, le uniche culture che riescono furbescamente a fare breccia sono quelle estremamente identitarie, ossia che basano la propria politica di pensiero sull’appartenenza settaria e aprioristica a un dato sistema di valori che circonda e che, in men che non si dica, sostituisce.
Ciò che si professa non è una forma del pensiero o un insieme di valutazioni pronte a interfacciarsi con le esigenze pratiche della modernità, bensì un biglietto da visita della persona stessa. I pronomi, il genere, le preferenze sessuali, la religione ecc. definiscono interamente l’essere, annullano la possibilità di confronto (e di scontro) e convincono gli adepti che tutto ciò rappresenti un atto di forza.
Quindi abbiamo uomini bianchi che non possono parlare di uomini neri che a loro volta non possono parlare di donne, né bianche né nere, di cui le prime non possono parlare delle seconde a meno che non siano a loro volta (es.) omosessuali e quindi in possesso di un buon punteggio sottomissione. Il risultato di queste regole è che tutti corrono per accaparrarsi un posto nella società del vittimismo, uno spazio in cui potersi definire succubi e avere finalmente il lusso di piangersi addosso (l’esempio di Giorgia Soleri e della sua vulvodinia è uno dei più chiari nel merito).
Viviamo un assurdo bipolarismo filosofico in cui o sei Andrew Tate o sei Carlotta Vagnoli, senza possibilità di sfumature.
La seconda domanda, quindi, è: che fare?
Per opporsi al dilagare di una forma di neo-maschilismo che cerca di riconsolidare una visione retrograda e regressiva della virilità e per dire no a una lettura stereotipata di stampo femminista e misandrico del ruolo della donna come inevitabilmente vittima, non resta che operare in maniera congiunta alla nascita di un fronte anti-sessista che si basi su un sistema valoriale di sinistra (nel vero senso della parola), che sappia prendere le distanze da personaggi estremi e tendenziosi, cosa che in passato non è stata fatta, e che voglia tornare a essere faro e cuore pulsante di una collettività debole e dei problemi di una classe inerme al cospetto del Potere nel mondo dell’ultracapitalismo: i poveri.
Così potremmo veramente tornare a essere “noi”, una pluralità di individui che nelle proprie diversità superi gli orizzonti del proprio campo visivo e concorra al sogno di un’umanità del futuro libera e felice.