Il senso del “noi” nell’epoca del narcisismo

Articolo di Alberto Maccagno

In un’epoca in cui il narcisismo regna sovrano, ciò che conta non sembra più essere ma appartenere. Il senso del “noi”, le dinamiche di una collettività complessa, ricca di intrecci e necessità, ha ceduto il passo all’elogio della mitomania e all’esaltazione dell’io davanti a tutto e tutti. Il processo non è sempre esplicito, bisogna allenare l’occhio a cogliere certe ombre, ma è un meccanismo che funziona in modo similare in tutti gli ambiti.

La prima domanda è: perché?

Questi sono gli anni del grande vuoto, una paralisi emotiva e culturale che ha afflitto tutto il mondo sviluppato e che ha completamente sradicato ogni tipo di credenza e di lente ideologica dalla società. Per non parlare della scomparsa degli ideali, caduti di fronte al nichilismo imperante e alla dittatura del risultato, assassino della morale.

Stiamo parlando della peggior pandemia sviluppatasi in occidente da ben prima del Covid-19.

In questo quadro di grigiore, infatti, le uniche culture che riescono furbescamente a fare breccia sono quelle estremamente identitarie, ossia che basano la propria politica di pensiero sull’appartenenza settaria e aprioristica a un dato sistema di valori che circonda e che, in men che non si dica, sostituisce.

Ciò che si professa non è una forma del pensiero o un insieme di valutazioni pronte a interfacciarsi con le esigenze pratiche della modernità, bensì un biglietto da visita della persona stessa. I pronomi, il genere, le preferenze sessuali, la religione ecc. definiscono interamente l’essere, annullano la possibilità di confronto (e di scontro) e convincono gli adepti che tutto ciò rappresenti un atto di forza.

Quindi abbiamo uomini bianchi che non possono parlare di uomini neri che a loro volta non possono parlare di donne, né bianche né nere, di cui le prime non possono parlare delle seconde a meno che non siano a loro volta (es.) omosessuali e quindi in possesso di un buon punteggio sottomissione. Il risultato di queste regole è che tutti corrono per accaparrarsi un posto nella società del vittimismo, uno spazio in cui potersi definire succubi e avere finalmente il lusso di piangersi addosso (l’esempio di Giorgia Soleri e della sua vulvodinia è uno dei più chiari nel merito).

Viviamo un assurdo bipolarismo filosofico in cui o sei Andrew Tate o sei Carlotta Vagnoli, senza possibilità di sfumature.

La seconda domanda, quindi, è: che fare?

Per opporsi al dilagare di una forma di neo-maschilismo che cerca di riconsolidare una visione retrograda e regressiva della virilità e per dire no a una lettura stereotipata di stampo femminista e misandrico del ruolo della donna come inevitabilmente vittima, non resta che operare in maniera congiunta alla nascita di un fronte anti-sessista che si basi su un sistema valoriale di sinistra (nel vero senso della parola), che sappia prendere le distanze da personaggi estremi e tendenziosi, cosa che in passato non è stata fatta, e che voglia tornare a essere faro e cuore pulsante di una collettività debole e dei problemi di una classe inerme al cospetto del Potere nel mondo dell’ultracapitalismo: i poveri.

Così potremmo veramente tornare a essere “noi”, una pluralità di individui che nelle proprie diversità superi gli orizzonti del proprio campo visivo e concorra al sogno di un’umanità del futuro libera e felice.

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