Strabone, nato in Turchia intorno al 60 a.C., è stato un importante storico, filosofo e geografo greco che, tra altre cose, si è interessato ai territori dell’odierna Campania, molto probabilmente vivendoli in prima persona. Alcuni dei suoi scritti rappresentano una primissima descrizione della suddetta regione in termini paesaggistici e non solo dal momento che ci regala accenni di archeologia, riferimenti antropologici, etnografici, mitologici e storici, nominando, per esempio, le varie antiche popolazioni che vi abitarono – Opici-Osci, Ausoni, Cumei, Sanniti, Romani – vari racconti legati a Odisseo e diversi luoghi da visitare come la tomba di Scipione l’Africano a Liternum, l’odierna Villa Literno: “Le città sulla marina dopo Sinuessa, sono Vulturno e poi Literno dov’è il monumento del primo Scipione soprannomato Africano; perocchè quivi consumò l’ultima parte della sua vita”. Quanto appena detto, nucleo fondamentale del presente articolo, è parte dalla sua opera maggiore, scritta in lingua greca, Geografia, formata da 17 libri, di cui alcune pagine del V e del VI libro parlano della nostra bella penisola: l’Italia.
Non si hanno moltissime notizie sulla sua vita privata, tutto quello che sappiamo è tratto proprio da Geografia, tuttavia si dà per certo che tra il 44 e il 45 a.C., dopo i primi studi, si trasferisce a Roma, dove continua ad interessarsi proprio alla geografia, ma, essendo nato in seno a una famiglia colta e agiata, ebbe la possibilità di viaggiare in lungo e in largo – in Europa, in Asia e in Africa – facendo dei suoi viaggi uno studio sul campo: “Dall’Armenia verso occidente, fino alla Tirrenia… e dal Ponto Eusino verso sud fino ai confini dell’Etiopia. Né può trovarsi altra persona, tra chi abbia scritto di geografia, che abbia viaggiato… di quanto io stesso non abbia fatto”. Sappiamo anche che le fonti storiche e letterarie che adottò per scrivere Geografia furono diverse: Omero, Anassimandro, Eraclito, vari geografi e storici antichi. Comunque, tornato in Turchia, scrisse un’altra opera, Storia universale, costituita da 47 libri, dei quali oggi purtroppo abbiamo solo dei frammenti. Probabilmente morirà nella sua città natale, Amasea, intorno agli ottant’anni, nel 28 d.C., una cinquantina d’anni prima la terribile eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei.
Come si è detto all’inizio, Strabone è forse il primo geografo a parlare minuziosamente della Campania, regalandoci diverse meravigliose pagine che raccolgono un’attenta analisi di alcuni luoghi emblematici come Pozzuoli, da lui stessa definita “Scalo di Cuma”, prima colonia della Magna Grecia. Infatti dalle descrizioni che l’autore ne fa, possiamo affermare che molto probabilmente essa sorgeva sull’altura che oggi ospita il famosissimo Rione Terra, proprio dove, qualche anno fa, vennero trovati dei frammenti di brocca di fattura cumana del VI secolo a.C. Di Pozzuoli ne parla così attentamente da riferirci che essa, prima di chiamarsi Puteoli, nome dato dai Romani per la presenza dei tanti pozzi distribuiti in loco, veniva chiamata Dicearchia – città del nuovo governo – e sin dall’epoca antica era caratterizzata dalla stessa aria sulfurea che ancora oggi si respira e dalle particolari proprietà della cenere vulcanica della Solfatara che costituisce la pozzolana, utilissima nell’industria edile. Tuttavia va detto che il racconto campano di Strabone comincia da quella zona geografica che oggi è rintracciabile intorno a Sessa Aurunca, antica Sinuessa, vicino l’odierna Mondragone.
È da qui che lo sguardo dell’autore si spinge verso il golfo di Napoli – allora chiamato Crater – da un lato delimitato da Capo Miseno e dall’altro da Punta Campanella o anche detta Athenaion: “Dopo Sinuessa… poi apresi un altro golfo molto maggiore del primo… che si addentra fra i due promontoni Miseno e Ateneo. Ora lungo le spiagge di questi golfi è situata tutta la Campania”. Importante per il filosofo è la descrizione dell’entroterra campano, sin da sempre costituito da terreni fertilissimi dai quali i Romani seppero ricavare straordinari vigneti per inimitabili vini. L’attenzione cade sulla già allora antica Cuma, spingendosi verso il Lago del Fusaro (Acherusia), definito palude, Baia con le sue acque termali, molto frequentate dagli antichi patrizi, e quelli che ai sui occhi apparivano come dei piccoli golfi: il Lago Lucrino e il leggendario Lago d’Averno. Dalla zona flegrea passa a descrivere più propriamente la baia di Neapolis che rappresentava un luogo tranquillo con paesaggi meravigliosi e un clima mite, scelto da uomini di studio e dai ricchi Romani per allontanarsi dallo stress cittadino, rifugiandosi sulle coste o sulle isole come Ischia (Pitecusa), Procida (Prochyta) e Capri. Inoltre Strabone ci dice che a Neapolis si continuava a parlare il greco a differenza di altri luoghi dell’Impero dove era assolutamente vietato e si tramandavano giochi e tradizioni che ricordavano ancora l’antica Grecia: “A Napoli poi mantengono viva l’usanza del vivere ellenico coloro che vi si trasferiscono da Roma per riposare; uomini letterati o notabili per altre doti, che l’età o l’inferma salute costringe a desiderar la quiete; oltrechè alcuni Romani ai quali diletta quel colal modo di vivere… volentieri vi si trasferiscono”. Non possono rimanere fuori dal racconto altri luoghi ameni, tanto amati dagli antichi, come Ercolano, Pompei, Sarno, Salerno, Sorrento, Vietri, Amalfi. Altre zone del retroterra su cui il geografo ci lascia delle pagine di straordinario fascino sono Atella, Nola, Nocera, Maddaloni, Montesarchio, Suessula, quindi Acerra e l’antico fiume Clanius che vi scorreva in mezzo e che, se da un lato insieme al Sebeto, al Volturno e al Sarno rappresentava una forza idrica indispensabile per le coltivazioni, dall’altro lato, in tempi di piena e di malaria, prima che stagnasse nel Lago di Patria, metteva in serio pericolo la popolazione e i raccolti, tanto che già all’epoca di Virgilio Acerra veniva spesso abbandonata. Inoltre di Acerra Strabone ci dice che essa, essenzialmente durante la dominazione sannitica, commerciava i suoi prodotti presso la foce del Sarno, soprattutto a Pompei, piuttosto che nel più sicuro e vicino porto di Napoli. Ulteriori zone interne prese come oggetto di attento studio sono quelle posizionate sulla via Appia come Capua e Teano, quelle dell’Irpinia e del Beneventano, ne sono un esempio Boiano, Isernia e Telese, e di queste zone ci racconta la vita della gente che lavorava la terra e i miti in cui essa credeva.
Possiamo certamente dire che Strabone rappresenta un occhio attento nel descrivere le meraviglie dell’Italia e, nella fattispecie, della Campania: dal Crater all’entroterra di qua e di là dei fiumi che in epoche successive furono canalizzati; dai popoli antichi che hanno conquistato i territori alle storie leggendarie e agli accenni storici che hanno caratterizzato le suddette terre.
Allora siamo veramente fortunati a poter leggere quanto questo grande storico ci ha lasciato sulla Campania che, così come l’aveva vista lui, certamente non esiste più. L’esempio lampante è il Vesuvio che viene descritto come un altissimo monte rigoglioso, pieno di campi fertilissimi, tranne che per la sommità che appariva piana e grigiastra con qualche roccia nera come bruciata dal fuoco e ben sappiamo, grazie agli studi su Pompei, che verosimilmente gli antichi neppure sapevano che quella verde montagna piena di frutti fosse in realtà un vulcano attivo almeno fino a quel giorno del 79 d.C.
Chiediamoci perché Strabone scrisse quest’immensa opera letteraria. Ebbene, è egli stesso che ce lo rivela nel I libro, in cui si rivolge a un lettore ideale, affinché questo, rigorosamente non a digiuno di studi storici, filosofici e geografici, possa prendere in considerazione lo scritto per approfondire o studiare determinati fattori: “In breve, questo mio libro dovrebbe essere di utilità generale […] Non intendo per politico la persona completamente illetterata ma qualcuno che abbia seguito il corso regolare degli studi […] Io non mi soffermo su ciò che è insignificante… ma rivolgo la mia attenzione su… ciò che contiene qualcosa di utile”.