“L’odio viene dal cuore; il rispetto viene dalla testa; e nessun sentimento è totalmente sotto il nostro controllo”. Arthur Schopenauer, filosofo tedesco, ha avuto modo di farci riflettere sul rispetto. Parola che oggi sembra assente nel nostro lessico, quanto nei nostri comportamenti quotidiani.
La scorsa settimana si è svolta la prima prova dell’Esame di Stato 2025, come sempre caratterizzata da una pluralità di tracce e proposte, capaci di stimolare riflessioni personali, sociali e culturali. Tra i sette testi proposti quest’anno, molteplici sono stati gli spunti che hanno acceso l’interesse di studenti e docenti.
In particolare, si sono distinte alcune tracce delle tipologie B e C, con brani fortemente attuali e profondi.
Nella tipologia B, dedicata all’analisi e produzione di un testo argomentativo, ha colpito la proposta B2, tratta da un articolo di Riccardo Maccioni pubblicato su Avvenire il 17 dicembre 2024. Il titolo è eloquente: “‘Rispetto’ è la parola dell’anno Treccani. E serve per respirare”. Il testo invita a riflettere sul concetto di rispetto in una società che sembra aver perso il senso dell’ascolto, della reciprocità e dell’alterità. Una parola antica, ma urgentemente attuale.
Nella tipologia C, dedicata alla riflessione critica su tematiche di attualità, spiccano due proposte particolarmente rilevanti:
la C1, che riprende un brano del giudice Paolo Borsellino, pubblicato su Epoca il 14 ottobre 1992 (pp. 125-126), dal titolo “I giovani, la mia speranza”, con un appello ancora vivo a credere nell’impegno delle nuove generazioni;
la C2, tratta da un articolo di Anna Meldolesi e Chiara Lalli, pubblicato in 7-Sette, supplemento settimanale del Corriere della Sera, il 13 dicembre 2024 (pag. 12), dal titolo “L’indignazione è il motore del mondo social. Ma serve a qualcosa?”, in cui si riflette sull’efficacia e sulla reale utilità della rabbia condivisa online.
Per approfondire le implicazioni sociali, educative e comunicative di queste proposte, abbiamo dialogato con il professor Francesco Pira, Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Messina, saggista e giornalista, che nei primi giorni di luglio parteciperà come formatore a Gorizia, in occasione delle celebrazioni della città del Friuli Venezia Giulia e della confinante Nuova Goriza Co-Capitali Europee della cultura, il docente universitario siciliano parteciperà ad momento di formazione per i docenti di lingua italiana che insegnano in Slovenia e Croazia, organizzato dall’Università Popolare di Trieste dal 30 giugno al 3 luglio. Intensa la sua attività accademica anche all’estero. È stato impegnato come Visiting Professor a Tbilisi, capitale della Georgia, dopo un precedente impegno all’Università Marie Curie di Lublino, in Polonia, al confine con l’Ucraina.
Il professor Pira, da anni studioso dei fenomeni educativi, comunicativi e sociali che coinvolgono giovani, istituzioni e media, è la voce ideale per commentare alcune delle sfide sollevate dalle tracce d’esame. È recentissima la sua pubblicazione “La Buona EduComunicazione” (FrancoAngeli Editore) che sarà presentato anche in importanti rassegne estive dedicate ai libri.
A lui rivolgiamo tre domande che uniscono sociologia, scuola e attualità.

D: Professor Pira, nella tipologia B dell’Esame di Stato, dedicata all’analisi e produzione di un testo argomentativo, la proposta B2 – basata su un articolo di Riccardo Maccioni pubblicato su Avvenire il 17 dicembre 2024, dal titolo “‘Rispetto’ è la parola dell’anno Treccani. E serve per respirare” – invita i giovani a ragionare su un valore fondamentale ma spesso dimenticato. In un tempo segnato da polarizzazione, hate speech e disinformazione, qual è oggi, dal punto di vista sociologico, il significato del rispetto nelle dinamiche comunicative e relazionali tra adolescenti e adulti?
«Il rispetto, come valore fondante della convivenza civile, è oggi messo fortemente alla prova da un contesto culturale e comunicativo segnato da polarizzazione crescente, disinformazione e hate speech. Sotto il profilo sociologico, questo è un segnale d’allarme che non possiamo ignorare. Viviamo in un’epoca in cui la comunicazione mediatica è diventata conflittuale per natura. I social network, pur avendo ampliato gli spazi di espressione, hanno anche favorito un processo di radicalizzazione delle opinioni: la logica binaria del “noi contro loro” è diventata dominante. Questo è il primo effetto della polarizzazione. I giovani, in particolare, crescono dentro una cultura dell’algoritmo che premia l’estremismo comunicativo: più una posizione è divisiva, più diventa visibile. Così, il rispetto scompare, soppiantato dalla necessità di “posizionarsi” in modo netto e spesso aggressivo. I social diventano il luogo in cui l’aggressività si legittima attraverso lo schermo. Ma come evidenziano i miei studi, l’hater non è solo un “leone da tastiera”: è spesso portatore di un’aggressività strutturata, che trova nel digitale una valvola di sfogo, ma che si manifesta anche offline, nelle relazioni quotidiane. In questo scenario, la disinformazione ha un ruolo altrettanto decisivo. L’ambiente digitale è sempre più un ecosistema inquinato da fake news, deep fake, narrazioni distorte. Il professore Luciano Floridi sostiene che la veridicità si costruisce più sulla viralità che sulla verifica. La società degli algoritmi crea “verità alternative” che si diffondono velocemente, condizionando le opinioni e le scelte delle persone. Il processo di apprendimento, soprattutto nei più giovani, è così mediato da contenuti che non formano ma deformano. In un tempo in cui l’informazione è abbondante ma la comprensione è sempre più fragile, il rispetto dovrebbe tornare al centro non solo come valore etico, ma come metodo di relazione. Rispettare significa sospendere il giudizio, accogliere l’altro nella sua diversità, saper ascoltare. In una società così interconnessa ma al tempo stesso frammentata, riscoprire il rispetto equivale a ripensare il nostro modo di comunicare, di educare, di abitare lo spazio pubblico – digitale e reale. Se vogliamo una cittadinanza consapevole, e non solo un consumo passivo di contenuti, dobbiamo educare i giovani alla complessità e alla lentezza, al confronto e non allo scontro, all’empatia e non alla superiorità. Mi tornano in mente le parole del compianto Papa Francesco: “Il dialogo nasce da un atteggiamento di rispetto verso un’altra persona, dalla convinzione che l’altro abbia qualcosa di buono da dire; presuppone fare spazio, nel nostro cuore, al suo punto di vista, alla sua opinione e alle sue proposte. Dialogare significa un’accoglienza cordiale e non una condanna preventiva. Per dialogare bisogna sapere abbassare le difese, aprire le porte di casa e offrire calore umano”. Senza rispetto, ogni forma di dialogo autentico diventa impossibile. E senza dialogo, non può esserci società».
D: La proposta C1 ci riporta al messaggio profondo del giudice Borsellino, che parla ai giovani come unica speranza per un cambiamento autentico. Quali sono, secondo lei, i principali ostacoli e i potenziali punti di forza che oggi i giovani affrontano nel cercare di diventare cittadini attivi e responsabili?
«Le parole del giudice Paolo Borsellino, ancora oggi, conservano una forza significativa e indicano una strada precisa: solo le giovani generazioni possono davvero cambiare questo Paese, ma devono essere messe in condizione di farlo. Ho avuto l’onore di intervistare Borsellino nei primi anni ’90, quando stava per lasciare la Procura di Marsala per tornare a Palermo. Conservo vivo il ricordo di quella voce pacata, capace di trasmettere verità scomode con grande dignità. Un uomo consapevole del destino che lo attendeva, ma determinato a non cedere. In quell’intervista c’era tutta la sua umanità, ma anche la lucidità di chi sapeva che la vera rivoluzione doveva essere culturale, a partire dai giovani. Adesso, i ragazzi vivono una realtà complessa. Non sono meno intelligenti o meno coraggiosi dei giovani di ieri, ma sono immersi in una società che li espone a ostacoli nuovi, spesso invisibili ma potentissimi. Il primo ostacolo è l’illusione dell’informazione: crescono in una società iperconnessa, bombardati da contenuti, ma faticano a distinguere ciò che è vero da ciò che è manipolato. Le mafie stesse si sono evolute, non hanno più il volto del boss con la coppola, ma quello dell’esperto di tecnologia. Usano WhatsApp, Telegram, i social network per comunicare e per gestire potere e denaro. Il linguaggio è cambiato, i codici si sono trasformati. E questo rende tutto più difficile da decifrare. Anche la rappresentazione mediatica della criminalità organizzata contribuisce a creare un’immagine distorta: il mafioso diventa quasi un “personaggio” da fiction, lontano anni luce dalla realtà. E invece la mafia è concreta, è dentro i flussi economici, dentro gli appalti, dentro il web. Se non insegniamo ai giovani a riconoscerla in queste nuove forme, rischiamo di lasciarli disarmati. O, peggio, sedotti da narrazioni romantiche e fuorvianti. Ma ci sono anche tanti punti di forza. I giovani, se adeguatamente formati, sanno essere incredibilmente reattivi, creativi, attenti ai diritti. Vogliono essere protagonisti e non comparse. Borsellino ci chiedeva di trasmettere il “fresco profumo della libertà” per contrastare il puzzo del compromesso morale. Quel profumo oggi può viaggiare anche nei nuovi ambienti digitali, se li presidiamo con educazione, con consapevolezza, con senso critico. Serve un grande investimento culturale e sociale per rendere i giovani cittadini attivi, capaci di pensare con la propria testa, di indignarsi con responsabilità, di costruire comunità alternative a quelle fondate sul silenzio, sulla connivenza, sull’omertà. La cittadinanza attiva non si insegna solo a scuola, si trasmette con l’esempio, con l’ascolto, con la coerenza. È un patto tra generazioni. E noi adulti, se vogliamo davvero onorare la memoria di Falcone e Borsellino, dobbiamo avere il coraggio di firmarlo».
D: Infine, la proposta C2 riguarda l’indignazione sui social media. Spesso vediamo ondate di rabbia e denuncia online che, però, si spengono rapidamente. Alla luce dei suoi studi, pensa che l’indignazione digitale possa realmente produrre cambiamento o rischia di restare solo una forma di attivismo simbolico, una sorta di “sfogo collettivo” senza effetti concreti?
«L’indignazione digitale è oggi uno dei fenomeni più evidenti e allo stesso tempo più ambivalenti della comunicazione online. Sui social assistiamo quotidianamente a ondate di rabbia collettiva, mobilitazioni virtuali, hashtag virali che sembrano annunciare un cambiamento imminente. Tuttavia, troppo spesso queste manifestazioni si esauriscono in poco tempo, lasciando dietro di sé solo tracce digitali e pochissimi effetti concreti. È ciò che la sociologia definisce come attivismo simbolico o, nella sua forma più estrema, slacktivism: un impegno apparente, che si limita alla dimensione dello schermo e raramente si traduce in azione reale. Come ho evidenziato nei miei studi, in particolare nel volume “Figli delle App”, i social media non sono solo strumenti di comunicazione, ma veri e propri costruttori di identità e relazioni, dove la rappresentazione prevale sull’autenticità e dove il “mi piace” sostituisce spesso il pensiero critico. In questo ambiente, l’indignazione diventa uno spettacolo emotivo da consumare e dimenticare rapidamente, perché ciò che conta non è il contenuto ma la visibilità. Viviamo in una società dello sciame digitale, per dirla con Zygmunt Bauman, dove le folle online si muovono con estrema velocità da un caso all’altro, in un presente continuo che annulla la memoria e il progetto, e in cui il futuro viene sostituito dall’algoritmo. Eppure, nonostante le difficoltà, non credo che dobbiamo abbandonare ogni speranza. La consapevolezza sta crescendo, e in molte realtà – scuole, famiglie, associazioni, istituzioni – si iniziano a ripensare i modelli educativi e relazionali. La sfida è restituire profondità al tempo, centralità al pensiero critico, spazio al dialogo autentico, superando la superficialità dell’indignazione istantanea per arrivare a una partecipazione responsabile e duratura. L’indignazione può diventare un punto di partenza, ma solo se viene accompagnata da formazione, impegno e senso del limite. Bisogna insegnare alle nuove generazioni che non tutto può essere “detto” online e non tutto ha valore perché è visibile. Serve una nuova alfabetizzazione digitale ed emotiva, capace di trasformare la rabbia in consapevolezza, il post in progetto, la reazione in azione. Come ricordo spesso: non possiamo più permetterci di confondere il click con il cambiamento. Il mondo che vogliamo costruire non è un algoritmo, ma una scelta etica, sociale e culturale che ci riguarda tutti».
Le tracce dell’Esame di Stato 2025 non sono solo un banco di prova per valutare le competenze linguistiche e argomentative degli studenti, ma un’opportunità per approfondire le trasformazioni in atto nella società contemporanea. Grazie al contributo del prof. Pira, possiamo leggere queste proposte come spunti di cittadinanza critica, per interrogarci su chi siamo e su chi vogliamo diventare.