Chiunque

Articolo di Nicodemo Gentile

Viviamo in un’epoca in cui la violenza di genere è ovunque: nei titoli dei giornali, nei dibattiti televisivi, nei social network, nei programmi scolastici, nei discorsi istituzionali.

Un’epoca in cui, paradossalmente, più se ne parla, più sembra che il tema si svuoti di senso, come se l’abitudine alla narrazione finisse per anestetizzare la gravità del fenomeno. La violenza di genere è diventata una sorta di campo libero, un territorio aperto a chiunque voglia occuparsene. Un regno dove tutti possono entrare, parlare, organizzare, presenziare, proporre. Nonostante il dolore che genera, nonostante il numero di morti che evoca – numeri da guerra civile – e la moltitudine di vittime vive che continuano a portarne le cicatrici, sembra che nessun criterio di competenza sia richiesto per affrontare questo dramma sociale. Basta avere una piattaforma, una telecamera, un microfono. Basta avere un’opinione. E allora si può dire, fare, commentare, senza formazione certificata, senza studi specifici, senza alcuna esperienza sul campo.

Questo è un fatto gravissimo, che interpella profondamente la coscienza civile e collettiva. Perché affrontare la violenza di genere non è solo questione di buone intenzioni o di passione personale. È questione di etica, di competenza, di rigore. È questione di rispetto verso chi quella violenza la vive ogni giorno, verso chi ne porta le ferite, visibili o invisibili. Non si può parlare di traumi senza conoscere i meccanismi del trauma. Non si può intervenire in contesti educativi o relazionali senza sapere come si costruisce una relazione sana. Non si possono organizzare eventi, campagne, progetti, se non si è in grado di distinguere tra empowerment e retorica, tra sensibilizzazione e la liturgia del dolore.

Siamo circondati da immagini e parole sulla violenza, ma troppo spesso quelle parole sono vuote, quegli sguardi sono esterni, quelle narrazioni sono funzionali a piccoli o grandi interessi, legittimazioni sociali. In nome di una causa giusta, si produce un sovraffollamento di soggetti che, pur con le migliori intenzioni, finiscono per occupare uno spazio che dovrebbe essere riservato alla competenza, alla consapevolezza, all’ascolto autentico.

Per invertire questa tendenza, dobbiamo porci una domanda radicale, onesta, difficile ma necessaria: chi ha il diritto di parlare di violenza di genere? E la risposta non può essere “tutti”, ma “chi è in grado di farlo con responsabilità”. Questo significa valorizzare chi lavora da anni nei centri antiviolenza, le forze dell’ordine, chi lavora nel mondo della scuola con un approccio sistemico, chi ha studiato i meccanismi della dominazione patriarcale, chi conosce le conseguenze psicologiche, giuridiche, economiche della violenza, i giornalisti qualificati, gli educatori appassionati. Ma significa anche creare una cultura diffusa in cui chi non è esperto impari a mettersi in ascolto. A fare spazio. A non occupare con parole vuote un territorio che richiede profondità, tempo, studio, formazione, esperienza.

Significa, soprattutto, iniziare a costruire un cambiamento vero, radicale, nelle basi educative della società. Parlare di violenza di genere deve diventare un percorso guidato, non un happening pubblico. Un percorso che parta dai giovani, che coinvolga le famiglie, che offra modelli sani e autorevoli.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che non basta parlare ai ragazzi di rispetto: occorre farli incontrare con figure credibili, con esperti formati, con testimoni consapevoli. Non si può combattere la violenza se si lasciano i giovani soli, circondati da narrazioni tossiche, senza un argine culturale, emotivo, pedagogico.

La violenza di genere è un sistema, non un incidente. E come tale va affrontata. Non bastano le emozioni, servono strumenti. Non bastano le campagne, servono politiche. Non bastano le parole, servono processi trasformativi. E soprattutto, serve una rivoluzione nella responsabilità di chi decide di occuparsene. Bisogna formarsi, specializzarsi, stare in ascolto delle vittime, dei carnefici, delle famiglie, lavorare sul campo. Perché ogni parola detta senza coscienza può fare danno, ogni intervento improvvisato può riaprire ferite, ogni semplificazione può diventare complice del problema che si vorrebbe combattere.

In definitiva, la violenza di genere non è uno spazio da colonizzare, ma una ferita collettiva da curare con rispetto e competenza. È un terreno sacro, attraversato da dolore vero, che non può essere lasciato alla mercé dell’improvvisazione. Se davvero vogliamo costruire una società più giusta, dobbiamo iniziare da qui: dal restituire alla parola “competenza” il suo valore, dal creare spazi sicuri di educazione e confronto, dal pretendere che chi parla di violenza lo faccia con la responsabilità che il tema esige. Solo così potremo iniziare a trasformare davvero il dolore in cambiamento, la rabbia in giustizia, la consapevolezza in libertà.

Related Articles