Emilio Salgari e Benedetto Croce: questioni di critica. Minima

Articolo di Filippo Scimé

Opinione e valutazione di uno scrittore sono sottoposte all’attento giudizio dei critici, che spesso, in passato, quando ancora la critica era capace di influenzare i gusti delle disparate utenze letterarie, sostenevano l’importanza dei contenuti e dei valori fruibili dalla lettura per costruire la società del presente e del futuro.

Ben prima delle permeabilità che la letteratura italiana avrebbe acquisito dopo la fine della seconda guerra mondiale con l’ascesa del Neorealismo, si distinse l’opera critico-letteraria di Benedetto Croce che, intorno al primo decennio del secolo scorso, decise di concentrare i suoi sforzi con la monumentale opera La letteratura della Nuova Italia, nella quale affrontava un’analisi dello stato di salute della letteratura italiana tra il XIX e XX secolo, con delle riflessioni tout court su scrittrici e scrittori, che nei due secoli avevano caratterizzato la lingua e la cultura italiana; difatti il filosofo sosteneva nell’Avvertenza a Poesia popolare e poesia d’arte del 1933: “La Storia della letteratura italiana, quale per mio conto l’intendo, è l’indagine, la discussione e lo schiarimento di quei punti, quegli autori e opere, della nostra letteratura, che reputo finora non abbastanza, a mio senso, schiariti”.

Nonostante dedichi qualche pagina a degli autori che rientrano nel novero degli illustri sconosciuti: Parmenio Bettoli, Giuseppe Protomastro, Arturo Olivieri san Giacomo, Arturo Colautti “e numerosi altri che oggi non riscuotono probabilmente maggiore attenzione”, evita di netto Emilio Salgàri, che, al contrario, avrebbe meritato la sua attenzione per una serie di motivi, tra i quali ad esempio credo che siano del buon numero: la definizione di un nuovo genere di romanzo; la ricca documentazione antropologica, topografica, e geografica delle ambientazioni; la costruzione della dimensione di nuovi personaggi narrativi, prevalentemente eroi del nuovo mondo, quindi lontani dal canone occidentale; e infine la valorizzazione del ruolo della donna come personaggio narrativo decostruito dalla materia di risulta ottocentesca (Serao, Deledda, Manzoni, Fogazzaro, et similia, appaiono quelli che avevano tentato uno sforzo più forte nel tratteggiare la dimensione femminile, riproponendo figure stereotipate).

Guardando nello specifico il titolo degli indici dei volumi di Croce, Salgàri avrebbe potuto rientrare già tra gli autori radunati nel primo volume, nel quale il filosofo adunava: Il tramonto di Giovanni Prati – Gli ultimi romanzi di Francesco Domenico Guerrazzi – Niccolò Tommaseo – Aleardo Aleardi – Vincenzo Padula – Giuseppe Rovani – Ippolito Nievo – Vittorio Bersezio e il teatro piemontese – Alessandro Manzoni e la questione della lingua – Edmondo De Amicis; notiamo che vi figurano autori ottocenteschi che hanno cominciato a definire in maniera più decisamente autoctona, e autonoma, i generi letterari (romanzo storico, pedagogico; memoriale; autobiografia). E anche nel sesto volume, non sarebbe stato del tutto impropria la sua menzione; leggiamo che figuravano i seguenti generi: Letteratura garibaldina- Memorie e fantasie d’artisti – Storie aneddotiche e nuovi romanzi storici – Traduttori – Scienziati-letterati – Amatori – Prose; in questo contesto Salgàri non avrebbe nemmeno sfigurato, dal momento che i suoi romanzi presentano una qualità narrativa capace di coniugare il divertissement storico e l’innovazione scientifica. Quindi a livello di categoria narrativa o di genere non c’è difficoltà alcuna nell’introdurre l’autore veronese in una corrente specifica; appare concreta anzi la deliberata volontà di ignorarlo.

È acclarato, come ha sostenuto e continua a sostenere il grande Lettore salgariano Vittorio Sarti, che l’illustre studioso abruzzese non amava la scrittura di Emilio Salgari, definendo il suo stile a bruciapelo nell’aggettivo insidioso: “sciatto”. Ma è puramente una questione di stile? O c’è dell’altro? L’attacco allo stile della scrittura, da cosa era motivato? Cerchiamo di costruire, molto umilmente, gli aspetti più importanti, cominciando dalla definizione popolarità.

Salgàri era popolare perché aveva costruito nel corso del tempo una produzione continua e completa che aveva (e ha, nonostante la critica di impostazione crociana sia rimasta attaccata ad essa come residuo immarcescibile) grande popolarità tra il pubblico. Noto per i suoi romanzi d’avventura, l’autore annoverava grandi lettori e la sua produzione conobbe un grande consumo, perché nell’epopea della trasformazione della società verso la Belle Époque si cercava insistentemente un sano divertimento letterario nella ricerca spasmodica di mondi dei quali si aveva poca conoscenza e per i quali si incontrava un gusto precipuo di notare e osservare barlumi di natura incontaminata e storie che, secondo canoni e gusti moderni, potevano svernare laddove ancora il ritmo della società era lontano dalla feroce e incessante industrializzazione che modificava l’aspetto del mondo.

Pertanto, credo che buona parte di questa riflessione negativa poggi sull’esaltazione dell’ideologia crociana, vista come un punto fermo, grazie al quale era possibile fare luce nello scibile letterario in continua evoluzione. Emilio Salgàri, insieme a buona parte della prosa italiana che non raccoglieva i favori dell’élite, non era ritenuto uno scrittore utile perché non veicolava, secondo i canoni di Croce, concetti utili: a cominciare dal fatto che la narrativa salgariana ignorasse la realtà storica contemporanea – che sicuramente per Croce era solo occidentale – e che presentasse la mancata correlazione, quindi, tra storia e narrativa di sentimenti attuali, oserei dire immanenti; l’eccessivo ricorso al positivismo che esaltava una produzione più ricca di riferimenti scientifici; la mancanza di chiarezza ideologica, offuscata dal confluire di più informazioni nozionistiche di vario tipo; l’assenza del romanzo di grande respiro che ammanta i nuovi tempi. E forse un’altra serie di aspetti che potrebbero venire fuori dalla lettura dell’estetica crociana o, più semplicemente, dagli inclusi al grande libro della vita letteraria italiana.

Il punto è, a mio avviso, come mai questo pseudo-concetto, per usare una parola crociana, abbia influenzato la critica successiva, e come mai la critica letteraria sia via via scomparsa, sotterrando sotto cumuli di macerie, autori che erano stati interpretati in maniera ingiusta, sommaria e secondo canoni vetusti. È plausibile che la critica postcrociana abbia ridefinito puramente aspetti della critica letteraria e della narrativa degli anni Cinquanta-Sessanta, fatto salvo alcuni grandi scrittori degli anni Trenta (Moravia, probabilmente il più europeo tra i nostrani e privo di un’istruzione regolare). Ne ha fatto le spese, a mio modesto avviso, tutta la produzione letteraria dal post-Risorgimento alla prima metà del secolo scorso, il quale alla fine della dittatura fascista era ormai considerata anticaglia, quantunque fosse stata elaborata, prodotta e realizzata solo trent’anni prima. Sembra davvero assurdo, ma anche scientificamente sono pochi i contributi della critica, eppure gli scritti e le opere parlano ancora chiaramente.

Interessante è invece l’aspetto che la svalutazione salgariana potrebbe aver avuto seguito a causa della visione cristiano-centrica crociana; l’autore nel suo Perché non possiamo non dirci cristiani afferma che: “Gli uomini, gli eroi, i geni che vissero prima dell’avvento del Cristianesimo compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensiero, di esperienze ma in tutti essi mancava quel valore che oggi è presente in tutti noi e che solo il Cristianesimo ha dato all’uomo”. È probabile che la dimensione individualistica dei personaggi salgariani abbia influito, ma al contempo la presenza di una scelta narratologica impegnata sull’avventura, quantunque sia riduttivo definirla come tale, potrebbe aver sviato Croce; certo è che la prosa salgariana era troppo moderna, a mio avviso, per i canoni ottocenteschi ed è probabile che la tipologia di lettura, detta appunto di consumo, desse fastidio e la considerasse a torto come feuilleton privo di profondità spirituale, di eroi personaggi, distanti dalla morale cristiana -di cui però ne è anche privo De Amicis, che è menzionato; quindi sarebbe uno spunto interessante, ma debole-.

Azzarderei nel sostenere che si potrebbe parlare di un Salgari laico, risorgimentale, forse troppo europeo per essere definitamente considerato narratore italiano. Quindi potrebbe essere un’altra delle prese di posizione che ha contribuito a questa visione negativa e limitato l’accesso verso l’etichetta di grande narratore dell’Ottocento e della letteratura italiana. Non rimane solo che leggere le sue pagine cercando di portare avanti la prosa e il continuo labor limae del narratore, le storie, il fascino esotico che sprigionano, tra il sogno e la realtà, le albe o i suoi tramonti, polle d’acqua che ancora non smettono di dissetare; con la volontà di aprire e disuggellare la copertina, non rimane che porci davanti a una critica ostile in modo maturo, il cui frutto acerbo non possiamo far altro che raccogliere e accantonare in attesa delle primizie.

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