Ottant’anni fa, il 26 giugno 1945, veniva firmato, a San Francisco, l’Atto della fondazione dello statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Al termine della Seconda guerra mondiale s’era diffusa un’aspirazione comune: dare un ordine al mondo, trovare il modo di conservare la pace, di impedire che in futuro si potessero ripetere simili tragedie. Lo scopo dell’Atto di fondazione era quello di proteggere la pace e di sviluppare una collaborazione internazionale. All’Atto della fondazione (26 giugno 1945) l’ONU, costituita da 50 Stati, nello Statuto dichiarava: «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili sofferenze all’umanità, a riaffermare la fede nei fondamentali diritti umani, a promuovere il progresso sociale, a praticare la tolleranza, a far sì che le armi non siano più usate, abbiamo deciso di unire i nostri sforzi per raggiungere tali scopi». Oggi i Paesi aderenti sono 192, la quasi totalità degli Stati del mondo inconsapevoli di questi nobili e alti obiettivi, affetti da amnesia ma in preda a politiche narcisistiche e arroganti. Ottant’anni fa base della politica dell’ONU fu la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Oggi, ottant’anni dopo, il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas, professore emerito di Filosofia all’Università Goethe di Francoforte, già lo scorso mese di aprile sulle colonne del Süddeutsche Zeitung scriveva che gli «Stati Uniti scivolano verso l’autoritarismo mentre l’Europa attraversa una crisi d’identità». Nel 2003 il professore Giovanni Reale, uno dei più importanti filosofi italiani, uno dei massimi studiosi del pensiero antico, nel saggio Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’uomo europeo (Raffaello Cortina Editore) si domandava che cosa fosse l’Europa: una propaggine dell’Asia come polemizzava Nietzsche? Oppure si tratta di un’idea nata all’interno della cornice culturale greca di Socrate e di Platone, che ha assunto un significato e una portata universale come dichiara il filosofo e matematico Edmund Husserl? Possiamo dirci davvero «europei»? La costruzione di una casa comune – osserva con acume Reale- dipende dalla possibilità di rinnovare l’uomo europeo della capacità di far vivere in forma nuova le sue radici culturali e spirituali. Poiché come ebbe a dire Max Scheler «mai e nessun luogo i semplici trattati hanno creato una comunità al massimo essi la esprimono».
Nel 2012 il professore Zygmunt Bauman, un maestro per il professore Francesco Pira, nel saggio L’Europa è un’avventura scrive «il futuro dell’Europa politica dipende dalle sorti della cultura europea».
In questi ultimi giorni, le «notti di guerra» (l’attacco Usa all’Iran, la dimenticata guerra a Gaza, l’Ucraina e gli altri cinquanta e forse più conflitti di diversa estensione e intensità che coinvolgono più di 92 Paesi (dal Myanmar al Messico, all’Africa) rendono sempre più concrete quelle parole di papa Francesco pronunciare nel 2014: «una terza guerra mondiale a pezzi».

Oggi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è attraversato da una frustrazione di incapacità di intervenire su conflitti per porre e tessere la pace. In questi anni, commenta il professore Alessandro Colombo, stiamo assistendo al «suicidio della pace». Stiamo vivendo un disastro dell’ordine internazionale, costruito solo ottant’anni fa.
Il 4 ottobre 1965 – siamo negli anni della Guerra Fredda – Paolo VI fu il primo papa a visita le Nazioni Unite. Papa Paolo VI parla all’ONU in nome del Concilio Vaticano II. Il messaggio centrale e storico del discorso del Papa alle Nazioni Unite, sempre più attuale, è il «no alla guerra».
L’esile uomo in bianco disse: «non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità” […] Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’ONU è la grande scuola per questa educazione».
Il 12 luglio 2012, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, Malala Yousafzai (Premio Nobel per la Pace nel 2014) ha tenuto un discorso nella sede di New York delle Nazioni Unite durante il quale ha ri-affermato che «sono qui a parlare per il diritto all’istruzione per tutti i bambini. Voglio un’istruzione per i figli e le figlie dei talebani e di tutti i terroristi e gli estremisti. Non odio nemmeno il talebano che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano e lui fosse in piedi di fronte a me, non gli sparerei. Questo è il sentimento di compassione che ho imparato da Maometto, il profeta della misericordia, da Gesù Cristo e Buddha. Questa è la spinta al cambiamento che ho ereditato da Martin Luther King, Nelson Mandela e Mohammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non violenza che ho imparato da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che ho imparato da mio padre e da mia madre. […] Oggi invitiamo i leader mondiali a cambiare le loro politiche a favore della pace e della prosperità. Chiediamo ai leader mondiali che i loro accordi servano a proteggere i diritti delle donne e dei bambini. […] Le nostre parole possono cambiare il mondo […] Cerchiamo quindi di condurre una gloriosa lotta contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, perché sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa. Grazie».

D.: Professore Pira, queste parole, nell’anno in cui l’ONU celebra gli 80 anni dalla sua fondazione, fanno emergere le difficoltà, le paralisi, i vuoti, le inquietudini del Consiglio di Sicurezza. Le parole profetiche del professore Bauman sulla marginalizzazione dell’Europa sono sempre più drammaticamente vere, reali. Stiamo vivendo momenti sempre più complicati attraversati da sfide globali (ad es. la sicurezza, l’intelligenza artificiale) che richiederebbero una preparata, saggia, esperta leadership che invece oggi è, appare più fragile che mai. La cultura politica, che nel suo termine più alto per noi ri-chiama Socrate, Platone, Aristotele, appare oggigiorno impotente e incapace a vivere e a “gestire” il momento attuale «uno dei più critici dalla nascita delle Nazioni Unite». Di fronte alle varie e tante crisi c’è una frammentazione europea incapace di cercare, trovare un equilibrio. La politica vive un disorientamento che spiazza. Il mondo è diventato e diventa sempre più complesso. È sempre più difficile distinguere tra giusto e sbagliato. Abbiamo smarrito la difesa dei nostri valori. L’ONU, oggi, rischia di apparire irrilevante proprio nel momento in cui sarebbe più necessaria la sua azione di pace. Perché non abbiamo imparato le lezioni di Max Scheler, del suo maestro Bauman?
R.: «L’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune… Tale unione dovrà venire un giorno o l’altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato. Dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli». Ora questa cosa l’aveva detta Napoleone Bonaparte. Il grande e compianto Aldo Moro sosteneva: “Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”. Ora noi ora dopo ora ci rendiamo conto sempre di più che l’Europa che abbiamo sognato, quella Unione dei Popoli, non esiste e non esisterà. Perché anche quando tutti stiamo sprofondando, gli egoismi vengono fuori e c’è sempre qualche giornale di apparato che pubblica un editoriale per ribadire che i soldi che arrivano in Italia li gestisce la mafia. E con questo siamo pagati con gli interessi.
Tutti abbiamo sognato gli Stati Uniti d’Europa, tutti abbiamo creduto alla bandiera, all’inno, a quei palazzi di Bruxelles o Strasburgo, dove sarebbero state prese delle decisioni che avrebbero cambiato la nostra vita. In positivo, tutti abbiamo creduto. E invece i nostri rappresentanti, ben pagati e ben assistiti, stanno dando il peggio. Litigano, litigano e litigano mentre cresce l’onda sovranista che li seppellirà e che soprattutto seppellirà l’idea di quell’Europa dei padri fondatori che sembra sotterrata da burocrazia e campanilismi. Anche mentre la tragedia è in atto gli egoismi fanno salire l’ira anche di chi ha sempre creduto in una grande Europa, forte economicamente, militarmente. Un’Europa colta e senza confini, pronta a mettersi in gioco se c’è da raccogliere, ma capace di seminare, di condividere, di essere solidale. Mi ha profondamente colpito quanto Michel Korinman ha dichiarato alla rivista Formiche.net nei giorni del Covid. Professore emerito alla Sorbona, Korinman è stato definito uno dei padri nobili della geopolitica: “è certo che, passata l’emergenza sanitaria, l’economia di guerra sperimentata per superarla porterà profondi cambiamenti. Cambierà l’assetto geopolitico internazionale così come l’abbiamo conosciuto fino a oggi”.
Secondo lo studioso il grande errore è stato appunto quello di non aver saputo trasformare l’Europa in una potenza sovrana mondiale. “Il modello di Ue è diventato insopportabile e insostenibile con la congiunzione delle crisi economica (iper-liberismo finanziario), demografica (l’Africa!), migratoria e di civiltà (l’Islam). Per esempio, non è mai esistita una Europa della salute. Nello spazio UE muore con Schengen la libera circolazione delle persone sopraffatta dal ritorno delle frontiere nazionali”. Come dargli torno. L’Europa della solidarietà capace di imporre la sua linea nel mondo non c’è. È in silenzio. Non esiste e forse non esisterà. E l’appello di una grande cantautore italiano Ivano Fossati: “Ai giovani dico sempre siate europei e non italiani”, non è proprio sostenibile oggi. Deve cambiare il vento, il ritmo. Devono arrivare decisioni vere o l’Europa non esisterà più. E l’Italia per forza dovrà tirarsi fuori. La calma è la virtù dei forti, ma non c’è più tempo. Perché la casa brucia e le chiacchiere non salvano le vite umane.

D.: Come la cultura può aiutarci a far rinascere l’«uomo europeo»? Abbiamo bisogno di scuole di diplomazia. Abbiamo bisogno di difendere i nostri valori occidentali in un mondo sempre più complesso. Ma come?
R.: Il grande scrittore, mio conterraneo, Andrea Camilleri ha sempre affermato che: “La cultura non è una cosa sacrale, non è una cosa da cult, una cosa per pochi: la cultura è di tutti. E poi, cos’è la cultura? La cultura non è solo la letteratura, la cultura è il lavoro dell’operaio, è come lavora un impiegato, la cultura è come la pensa il capo del condominio. La cultura siamo noi, perché noi siamo cultura. L’uomo è cultura”.
Abbiamo puntato tutto sulla globalizzazione, ma sembriamo tutti “inglobati e incastrati” più che facenti parte di un mondo globalizzato. Quando un essere umano ci chiede aiuto dovremmo cercare di supportarlo. Il grande insegnamento cattolico-cristiano ci suggerisce di sostenere quanti hanno bisogno. Quanti stanno subendo in questo momento una guerra che non sappiamo dove ci porterà e con quali conseguenze.
Nella nostra società emergono due elementi: il primo è la crudeltà e il secondo è come questa crudeltà viene narrata. La falsa e parziale rappresentazione di quanto accade nel mondo che alimenta la cornice della paura e condiziona chiaramente la società. Gli individui si trovano schiacciati tra il flusso continuo di notizie e un uso senza scrupoli di alcune parole chiave specifiche e politiche che nella ricerca ossessiva del consenso, di fronte a una crisi di credibilità, sfrutta qualunque tema come elemento per esacerbare il contrasto tra le diverse posizioni ideologiche. Da una mia ricerca, relativa alle dinamiche comunicative social, una delle caratteristiche principali che emergono è l’individualismo, la concentrazione sulla propria vita e l’egoismo.
Il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato del senso di solitudine che travolge le nostre vita: “Oggi non siamo felici ma siamo più alienati, isolati, spesso vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status”.
Non è facile oggi leggere la società senza porre i giusti accenti su quanto ci sta accadendo. Non voglio affermare che gli eventi bellici dopo la pandemia non abbiano contribuito ad una trasformazione improvvisa e rapida dei modelli di costruzione del nostro agire sociale. Ma penso che quanto sta accadendo abbia fatto emergere in modo, quasi esplosivo, processi che sono in atto nella società da tempo come conseguenza dell’impatto delle tecnologie in tutti i segmenti sociali. Assistiamo alla proliferazione di fenomeni sempre più estremi e caratterizzati da comportamenti violenti e che riguardano in modo particolare il mondo degli adolescenti, basti pensare al cyberbullismo, al bullismo, al sexting, al body shaming ecc che hanno come protagonisti proprio i giovani. In tutti questi atti è ravvisabile in parte quello che potremmo definire un disimpegno morale e un’incapacità di relazionarsi con l’altro. Un’era in cui la cattiveria e la crudeltà trovano terreno fertile e a dircelo sono i tanti casi di cronaca: stupri e violenze.
Un Far West di sopraffazioni e un continuo consumismo emozionale. Una violenza che si manifesta anche nel Metaverso e all’interno di un universo virtuale. Anche usando l’Intelligenza Artificiale
Il filosofo Edgar Morin, in un’intervista su “La Lettura” del Corriere della Sera ha sottolineato come: “stiamo assistendo al degrado della solidarietà come pieno riconoscimento dell’umanità dell’altro. Oggi ci sono troppe persone che soffrono la tragedia della solitudine. C’è una politica di solidarietà da sviluppare. C’è urgente bisogno di un enorme cantiere”. Mi preoccupa il fatto che nessuno si occupi di questo “cantiere”.
Abbiamo bisogno di recuperare un nuovo “Umanesimo” e gli adulti devono recuperare la loro autorevolezza. Cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo per educare le nuove generazioni? Bisogna cambiare rotta ed essere capaci di trasmettere la speranza. La cultura e l’educazione devono essere centrali in un processo di cambiamento in cui non possiamo permetterci di dare alle nuove generazioni segnali contrastanti e soprattutto spezzare i loro sogni”.